Violenza di genere e femminicidi politici
di Nicoletta Poidimani
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La violenza di genere ha sempre una valenza politica, dal mio punto di vista, poiché è uno strumento utilizzato per perpetuare il secolare dominio del genere maschile sulle donne. Poco conta se questo uso sia sempre consapevole o sia frutto di una mentalità che inferiorizza le donne fino a renderle proprietà maschile, dunque schiave dell’uomo. È un dato di fatto storicizzabile, da combattere alla radice.
Esiste, poi, un uso politico della violenza di genere e del femminicidio, il cui obiettivo non è ‘solo’ quello di terrorizzare le donne per mantenerle in condizione di schiavitù, ma anche quello di terrorizzare un’intera popolazione. Generalmente questo secondo aspetto va di pari passo con la guerra. Nella storia se ne possono rintracciare innumerevoli casi; il più recente è quello della guerra che il governo di Erdogan sta portando avanti, con rinnovata ferocia, nei confronti della popolazione kurda.
Ciò che è avvenuto a Colonia e in altre città a capodanno è terribile, senza dubbio. E non deve stupire che la mentalità patriarcale faccia uso anche dei social network per organizzare violenze di massa. O continuiamo a pensare, stupidamente, che il patriarcato abbia a che vedere con il feudalesimo e nulla abbia a che fare con la modernità e le sue tecnologie?
Ricordiamo bene le aggressioni sessuali di gruppo in piazza Tahrir, al Cairo, quando orde di maschi circondavano le donne, le molestavano e le stupravano per ‘punirle’ della libertà che si erano prese scendendo in piazza a protestare. Ma dovremmo anche ricordare bene come, nell’arco di breve tempo, si organizzarono i gruppi di difesa e autodifesa delle donne. E così anche in India, e in tante altre parti del mondo. Che oggi le aggressioni sessuali di gruppo – come quelle di Colonia – vengano ridotte ad una questione etnica o culturale, serve solo a coprire un dato di fatto, che noi donne abbiamo, invece, molto chiaro – anche se giornaliste & C. sembrano dimenticarsene molto facilmente quando si tratta di soffiare sul fuoco della xenofobia.
Quale donna non ha avuto a che fare con aggressioni sessuali di branco già dalle elementari, se non da prima? Cosa c’entra la provenienza etnica, se non per dissimulare un problema molto più profondo che si chiama dominio patriarcale e che viene instillato nei maschi ancor prima che nascano? Si tratta di un dominio che, pur manifestandosi con declinazioni differenti, nella sostanza non cambia affatto.
Quando ero in Olanda, ad Utrecht, per ragioni di studio, mi si raccontava di come quel paese fosse avanti anni luce, quanto le donne fossero emancipate e quanto illuminati fossero gli olandesi coi loro matrimoni gay e lesbici, col loro antiproibizionismo ecc ecc… Trovavo poco convincenti queste affermazioni, anche perché sapevo della genderizzazione della popolazione migrante in base alla divisione capitalistica del lavoro: per ottenere il permesso di soggiorno, alle donne immigrate veniva insegnato come diventare delle ‘brave casalinghe olandesi’ – che il lunedì lavano i panni, il martedì stirano, e via dicendo – mentre agli uomini venivano insegnati lavori di basso profilo, per tenerli al fondo della scala sociale e ‘razziale’. Ma la conferma che l’Olanda non fosse affatto un paese meno machista di altri l’ho avuto durante il Queen’s day, quando, il 30 aprile, l’intera popolazione è in festa per il compleanno della regina (tutto vero!). Si tratta di una giornata in cui si rovesciano le consuetudini quotidiane, più o meno rigidamente mantenute per tutto il resto dell’anno. Una sorta di carnevale, nel senso più alienato del termine; una ‘valvola di sfogo’. I festeggiamenti cominciano la sera del 29 aprile e proseguono per 24 ore – inutile dire che, poi, il primo maggio, tutti/e rientrano docili nei loro ranghi calvinisti, altro che festa del lavoro! – e per tutto quell’arco temporale gli olandesi (e le olandesi!) si scolano ettolitri di alcolici ed è molto frequente incontrare gruppi di maschi alti e biondi, ubriachi marci, che insultano e molestano le donne – soprattutto quelle che non hanno tratti somatici tipicamente nederlandse. Non sto qui a raccontare la serata che io e un’amica spagnola – entrambe basse e scure, quindi visibilmente non-nederlandse – abbiamo trascorso difendendoci da insulti e aggressioni da parte di vari branchi di olandesi, la cui mentalità machista è rafforzata da un’altrettanto forte eredità partiarcal-coloniale.
Tutto questo per dire che è inutile strapparsi i capelli per ciò che è accaduto lo scorso capodanno in alcune città europee, se lo si continua a leggere come una questione meramente etnica. Anche perché serve solo a dimenticarci che in quelle che vengono definite ‘altre culture’ molto spesso le donne lottano con una determinazione da cui noi avremmo soltanto da imparare.
Come le Imperial Ladies furono complici del patriarcato colonialista in nome della propria – presunta – emancipazione da esportare, così l’etnicizzazione della violenza di genere è complice della crescente violenza di genere ‘intra-etnica’ nostrana, e dissimula, buttandolo sull’altro, il dominio dell’uomo occidentale su tutte le donne – dall’autoctona mogliettina o ex fidanzata massacrata, alle bambine thailandesi stuprate dai turisti sessuali, alle donne ‘straniere’ sposate sperando che siano mogli sexy e remissive.
Accennavo, prima, all’uso politico che il governo di Erdogan fa della violenza di genere. Perché non se ne parla? Crediamo davvero che stia facendo diversamente da Daesh-Isis? Nell’attuale genocidio in corso in Kurdistan, l’accanimento contro le donne – kurde o filo-kurde – ha assunto aspetti terribili. Dalle donne crivellate di colpi perfino nella vagina alle combattenti ferite, torturate e trascinate nude fino alla morte con una corda al collo, alle bimbe di pochi mesi, alle ragazzine e alle donne incinte ammazzate dai cecchini, alle donne i cui cadaveri non possono essere recuperati dalle strade perché la polizia e l’esercito sparano su chiunque provi ad avvicinarsi. E potrei continuare, perché la lista è lunga…
Oggi è il terzo anniversario dell’assassinio, a Parigi, di tre donne kurde, tre femministe che avevano dedicato le loro vite alla lotta con altre donne: Sakine Cansiz, Fidan Dogan e Leyla Söylemez. Un triplice assassinio in cui hanno grande responsabilità i servizi segreti turchi. Pochi giorni fa, in una delle città kurde in cui la Turchia ha imposto da settimane un violento coprifuoco e le forze dello stato sparano a vista su tutto ciò che si muove – persone ed animali – altre tre femministe sono state ferite, torturate e poi violentemente ammazzate – i loro volti sono stati sfigurati da raffiche di colpi e, probabilmente, dall’esplosivo. Si chiamavano Sêvê Demir, Pakize Nayır e Fatma Uyar.
Ieri è stato dato fuoco alla sede di un’organizzazione femminista all’urlo di “Allahu Akbar”. No, non erano i miliziani di Daesh, ma le forze dello stato turco!
Ma alle nostre latitudini nessuna/o spende mezza parola su queste atrocità. Perché? Di certo non soltanto perché di stragi e violenze se ne parla solo quando avvengono “nel nostro cortile”, ma perché gli stati occidentali sono complici delle politiche turche, non solo ingrassando il governo di Erdogan affinché blindi le frontiere a donne e uomini migranti, ma soprattutto perché la regione kurda è un laboratorio del confederalismo democratico, che fa paura all’occidente capitalista e ai suoi alleati arabi in quanto progetto antistatuale, cooperativo, egualitario, femminista ed ecologista.
Mai non sia che le anime belle, qui, si rendano conto di non vivere nel “migliore dei mondi possibili”! E magari decidano pure di rompere con la violenza di genere, lo sfruttamento del lavoro e la devastazione dell’ambiente – o almeno di non delegarne la soluzione agli apparati di potere.
Il nemico numero uno della Turchia, Abdullah Ocalan, ipocritamente consegnato – dal governo D’Alema – nelle mani del governo turco, dopo avergli fatto credere di poter essere in salvo in Italia, da anni è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza su un’isola turca; di lui, né i suoi legali, né i familiari hanno più notizie da mesi. Alcuni anni fa, mentre era già rinchiuso in quella tomba di cemento e ferro, Ocalan mandò un messaggio alle Donne Libere kurde, che voglio riportare qui, perché è lo specchio delle miserie di tutti i “democratici” signorini nostrani che si occupano di mascolinità e ci costruiscono le loro “democratiche” carriere accademiche (oltre ai loro, frequenti, marpionamenti), senza nulla cambiare realmente nei rapporti tra generi:
Organizzatevi bene contro di noi e anche contro di me. Rispetto a una donna libera io non sono che un quarto di uomo. Ma che ci posso fare? Alla mia età è tardi per cambiare. Questa è la realtà del vostro presidente. Gli uomini sono solo asini in calore, sono signori feudali in disarmo. Questi uomini credono che bastonare la donna sia un loro sacrosanto diritto. L’uomo è rozzo, molto rozzo; anche al migliore degli uomini puzza l’alito. L’uomo non va al di là del suo istinto. Ma allora cosa volete farci voi donne di un uomo così?
Alla brava e coraggiosa Sakine, i torturatori turchi avevano, fra altre violenze, tagliato i seni quando era loro prigioniera – pratica sadica che ancora oggi tanto Daesh-Isis che le forze dello stato turco utilizzano per terrorizzare e cercare di sottomettere e colonizzare le popolazioni. A lei la parola.
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