Fuori-casta, mass media e strategie di censura attiva

Fuori-casta, mass media e strategie di censura attiva

di Nicoletta Poidimani

La produzione di falsificazioni, di segni ideologici che,

mentre dissimulano eventi sociali reali,
ne propongono una modellizzazione menzognera,
è una produzione bellica
nel senso più stretto e attuale della parola.
(Gocce di Sole nella Città degli Spettri)

Non mi faccio ingannare! Non ci credo che la scelta di pubblicare le foto delle due giovani cugine indiane violentate e poi trovate impiccate a Katra, nell’Uppar Pradesh, sia dettata dalla volontà di dar voce alla casta degli “intoccabili” (dalit), come sostiene Roberto Toscano sulla Stampa.
Per me si tratta dell’ennesimo episodio di cannibalizzazione visuale delle tragedie che, con un tocco non lieve di voyeurismo, mira non a scuotere ma a ripulire le innumerevoli coscienze necrotizzate che non vanno oltre la momentanea – e borghese – indignazione di fronte a ciò che l’ingiustizia di classe e di casta produce a livello globale.

trans.gif
Facciamo un salto indietro di qualche mese. Ottobre 2013, al largo di Lampedusa prende fuoco un barcone che trasporta circa cinquecento profughi. Le centinaia di cadaveri recuperati resteranno per giorni in attesa di sepoltura. Lunghe file di body bag, prima, e di bare, poi, verranno fotografate e riprese e per giorni le loro immagini si moltiplicheranno. Ma dopo quella che è stata definita “la più grande tragedia dell’immigrazione nel Mediterraneo”, cosa è cambiato?
In quei giorni a Lampedusa l’ipocrisia istituzionale – che invocava a gran voce il rafforzamento della macchina da guerra di Frontex (più di 515 milioni di euro in sette anni!) – veniva respinta al mittente con striscioni quali Nel rispetto di questa ennesima tragedia tornatevene indietro, non accettiamo visite. E intanto il Coordinamento Eritrea Democratica ricordava alle anime belle e smemorate: Questo è l’ennesimo naufragio: dal 1998 oltre 20.000 esseri umani sono stati inghiottiti dalle acque del Mar Mediterraneo, e oltre 5.000 sono caduti vittime del traffico di organi umani nel Sinai; un numero imprecisato ha trovato la morte nel viaggio disperato nelle sabbie del Sudan e dell’Egitto. È ora di fermare una carneficina che dura da troppi anni.
Ma nulla è cambiato.

Cosa c’entra l’ennesima “tragedia di Lampedusa” con la terribile violenza inferta alle due giovani donne in Uppar Pradesh? C’entra, perché Le istituzioni finanziarie e le grandi aziende del mercato globale sono i bramini di oggi. Gli operai di ogni nazione sono i sudra e i dalit, come scrive Vandana Shiva.
Non per nulla, il sistema delle caste si reinscrive – se pure non esattamente come replica – nel contesto di arrivo degli immigrati e delle immigrate, ricalcando il dispositivo di reclutamento di forza lavoro immigrata già sperimentato nei territori dell’impero britannico, in particolare nell’Africa orientale (Avtar Brah, Cartographies of Diaspora. Contesting Identities, Routledge 1996).

Ma non solo.
L’esibizione mediatica dei corpi delle due adolescenti – di cui, ovviamente, non è dato sapere i nomi, ma soltanto l’età: 14 e 15 anni –  oltre a riempire la casse di agenzie fotografiche quali Ap, Reuters e LaPresse è funzionale alla mistificazione del ruolo dei mass media. Ci è sembrato di dover cogliere il messaggio di quei contadini della casta dalit, gli «intoccabili», e la loro disperata volontà di rompere, attirando l’attenzione dei media, il silenzio che altrimenti coprirebbe le atrocità che ancora si compiono nei loro confronti, scrive nel suo articolo R. Toscano, dimenticandosi di dire che la popolazione del villaggio aveva bloccato la più vicina strada principale per protestare contro le responsabilità e le complicità poliziesche.

In sostanza, tutta questa operazione mediatica si è potuta realizzare soltanto rendendo le due giovani donne e il resto del loro villaggio delle/dei paria, delle/degli outcastes.

Comparare questo dispositivo visuale a quello ben analizzato da Mattia Zanotti a proposito dei processi in videoconferenza non può che generare rabbia e preoccupazione. Se, da un parte, il tipo di dibattimento processuale che va delineandosi vede una progressiva scomparsa dell’imputato, un crescente condizionamento a priori della giuria e lo strapotere inquisitorio dei pubblici ministeri, dall’altra la mediatizzazione voyeuristica di fatti drammatici come quello di Katra, accompagnata dalla manipolazione delle informazioni – con un paradosso che è soltanto apparente – altrettanto disincarna e smaterializza e così anche l’urlo di un intero villaggio  diviene spettrale, il suo corpo viene trattato come una interferenza video cui la parola può essere concessa o sottratta con semplice “clic”.

Naturalmente senza dimenticare un ulteriore e non marginale motivo di strumentalizzazione, di cui avevo avuto modo di scrivere oltre un anno fa e che riporto qui di seguito tale e quale.

* * * *

Lo scorso dicembre, un imponente movimento di donne (soprattutto) e uomini per giorni e giorni ha occupato le strade delle città indiane in seguito all’ennesimo feroce stupro di gruppo avvenuto a New Delhi, la cui vittima è morta dopo due settimane di agonia.
L’onda si è propagata in un battibaleno all’Asia meridionale: dal Nepal allo Sri Lanka, dal Pakistan al Bangladesh, manifestazioni oceaniche e scontri di piazza si sono susseguiti ininterrottamente.

Ma di tutto ciò, in Italia, si è saputo ben poco.
Quello che è passato sui media italiani puzzava più che mai di manipolazione.
Delle manifestazioni è stata messa in luce quasi soltanto l’anima forcaiola dei gruppi di destra che inneggiavano – tutto il mondo è paese! – alla pena di morte.

Non è un caso. Non dimentichiamo che proprio in quelle settimane stavano per tornare in Italia, per una “licenza natalizia” (con garanzia di oltre 800mila euro!) Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due fucilieri di marina del battaglione San Marco che nel febbraio 2012 avevano ammazzato due pescatori indiani – Ajesh Pinky (25 anni) e Selestian Valentine (45 anni) – al largo del Kerala.
Sì, proprio quelli che per mesi son stati serviti e riveriti, come racconta una giornalista del China Files, Carola Lorea: «I due marò del Battaglione San Marco […] sono alloggiati presso il confortevole CISF Guest House di Cochin per meglio godere delle bellezze cittadine.
Secondo l’intervista rilasciata da un alto funzionario della polizia indiana al Times of India, i due sfortunati membri della marina militare italiana sarebbero trattati con grande rispetto e con tutti gli onori di casa, seppure accusati di omicidio.
La diplomazia italiana avrebbe infatti fornito alla polizia locale una lista di pietanze italiane da recapitare all’hotel per il periodo di fermo: pizza, pane, cappuccino e succhi di frutta fanno parte del menu finanziato dalla polizia regionale».
Per il loro rientro natalizio la retorica nazional-militare si è strappata le vesti, Napolitano li ha accolti quasi come eroi, l’ex picchiatore fascista La Russa ha proposto di candidarli alle elezioni, e via vomitando…
Quando poi i due marò sono tornati in India, il personale dell’hotel dove risiedevano in stato di libertà vigilata dietro cauzione, li ha accolti con collane di fiori secondo il tradizionale benvenuto indiano.

Che c’entrano questi due para-mercenari con lo stupro in India, vi chiederete? Un suggerimento ce lo fornisce la storica Claudia Cernigoi, citando uno stralcio di Milena Gabanelli, giornalista di Report: «I nostri due marò passeranno le feste a casa a condizione che fra due settimane vengano riconsegnati all’India. Un paese dove, se saranno condannati, rischiano la pena di morte. [… ] È vero che non si trattava di un’operazione militare in senso stretto, è vero che la giurisdizione è complessa, ma sono i nostri connazionali, e come paese potremmo assumerci la responsabilità di non mantenere la promessa garantendo però all’India di fare le cose seriamente e quindi di processarli qui, e se ritenuti colpevoli e condannati, incarcerati qui, perché la c’è la pena capitale».

Ecco il nodo! Mostrare, per giorni e giorni, sui media le mobilitazioni indiane riducendole alla minoranza forcaiola aveva questo obiettivo: evocare nelle teste addomesticate il rischio che corrono in India i “nostri [maddichi?!?] due marò”.

Se non fosse stato per questo, probabilmente, di ciò che stava accadendo in India giornali e televisione in Italia ne avrebbero parlato di sfuggita. Magari solo per mostrare quanta ferocia patriarcale c’è “in quei paesi” e come invece nell’emancipata “Europa dei diritti” le donne godano di ottima salute… finché vivono!

Insomma, in un modo o nell’altro la morte violenta di una giovane donna indiana sarebbe stata strumentalizzata dall’Italia delle “magnifiche sorti e progressive”. Se non altro per dire che più polizia significa più sicurezza per le donne, altro aspetto che è passato nei media nostrani, malgrado l’immagine infame dei poliziotti indiani che stavano a discutere di problemi di competenza territoriale mentre, ai loro piedi sul bordo della strada una donna massacrata e violentata chiedeva aiuto.

Se invece usciamo dal misero guscetto italico, scopriamo alcune cose molto interessanti. Innanzitutto che la polizia indiana – quella a cui le donne chiederebbero sicurezza – ha brutalmente cercato di reprimere le manifestazioni, con botte a iosa, lacrimogeni e idranti. E che, inoltre, per cercare di scongiurare le rivolte è stato imposto il coprifuoco – inutilmente, visto che nelle strade hanno continuato a stare migliaia di persone di giorno e di notte. Ma soprattutto scopriamo che, unitamente alle mobilitazioni che sono andate moltiplicandosi nell’Asia del Sud, sempre più donne asiatiche hanno preso la parola per dire che moltissimi casi di violenza sessuale vedono coinvolti uomini in divisa – militari e poliziotti. Che spesso la violenza sessuale è utilizzata come strumento di tortura – come è avvenuto anche in Italia e in tempi non lontanissimi… – oltre che come arma di sottomissione, di genere e, spesso, anche di classe-casta. E che tutti costoro godono di coperture.

Arundhati Roy e Vandana Shiva (giusto per citare due nomi tra i più noti), così come gran parte delle donne asiatiche scese in strada in quelle mobilitazioni, sanno bene quali siano le cause e gli attori della violenza contro le donne. Se andiamo a leggere le loro dichiarazioni – rintracciabili in alcuni siti web stranieri – è lampante come l’ingiustizia del sistema di classe (o di casta) in India vada a braccetto con il cannibalismo neoliberista e neocoloniale, e come il prezzo più caro di questa alleanza criminale lo paghino le donne.

E come non ricordare un’altra giovanissima donna indiana che, sopravvissuta allo stupro, si è poi suicidata? A lei la polizia aveva consigliato di sposare uno degli stupratori, perché ne fosse cancellata la vergogna. Esattamente come accadeva in Italia col “matrimonio riparatore” voluto dallo Stato (art. 544 del codice penale, abolito nel 1981).

D’altronde, a tutt’oggi nel Parlamento nostrano campeggia un affresco in cui è rappresentato il “Ratto delle Sabine”, stupro fondativo della “civiltà romana”.

All’inizio di marzo, quando i due marò erano da poco rientrati in Italia con una licenza “elettorale” di un mese, a New Delhi ci sono stati nuovi scontri con la polizia fuori dall’ospedale in cui era ricoverata una bimba di 7 anni violentata a scuola.
Ma questa volta la notizia degli scontri non ha avuto grande spazio sui giornali italiani, perché ormai non era più funzionale alla retorica nazional-militare del “salviamo i nostri ragazzi”.
E magari avrebbe potuto nuocere alle intense trattative Italia-India per risolvere l’affaire dei due mercenari, oltre che suggerire la praticabilità di forme di lotta radicale contro la violenza sulle donne senza nulla delegare ai “democratici” appelli contro il femminicidio di ancor più democratiche signore (e signori).

Sarà un caso che l’Italia continui ad essere ai primi posti per il turismo sessuale, anche pedofilo, nei paesi impoveriti, oltre che tra i principali Paesi d’approdo delle “vittime di tratta”?


(8 marzo 2013)

Questa voce è stata pubblicata in neocolonialismo, Violenza di genere e contrassegnata con , . Contrassegna il permalink.