La Parentesi di Elisabetta del 22/05/2013

“Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti

La settimana scorsa, all’alba di un giorno qualunque, a Milano, un giovane ghanese ha ucciso tre persone, a caso, le prime incontrate per strada.
I media hanno parlato di follia omicida, hanno intervistato la gente del quartiere sotto shock, un quartiere alla periferia della città, hanno parlato della storia delle vittime,dei parenti, degli amici, di vite sconvolte e di città impaurite.

Il rispetto del dolore per chi ha perso il figlio, il padre, l’amico è dovuto e imprescindibile.

Ma non è stata spesa una parola sul giovane nero che, dicono sempre i media, parla solo un dialetto del Ghana e un inglese stentato.

Nessuno/a si è chiesto come mai passasse la notte nei ruderi di Villa Trotti, un edificio abbandonato a poca distanza dal luogo dei fatti. Nessuno/a si è domandato il perché di due richieste d’asilo respinte e di due decreti di espulsione pendenti o come e dove trovasse da mangiare o perché fosse qui in Italia.

Se la disperazione, l’impotenza, la rabbia, il dolore per una vita che non è vita, per un’esistenza terribile, si trasformano in violenza contro se stesse e se stessi, come è successo per Nabruka, che si è impiccata a Ponte Galeria alla vigilia del rimpatrio, allora è una notizia che strappa qualche “poverina” e basta lì. Se si trasformano in autolesionismo come per quella donna che, sempre in un Cie, si è cucita la bocca proprio per poter gridare al mondo che esistono persone senza storia, senza presente e senza futuro e senza possibilità di parola, allora viene spedita in un centro psichiatrico perché non è disperata, ma solo pazza. Se, poi , i/le migranti affogano in mare, diventano, forse, un numero nelle statistiche di qualche associazione e le madri che li cercano non hanno risposta.

Ma se questa rivolta si trasforma in aggressione verso un mondo che è responsabile di tutto questo, allora si chiedono leggi securitarie, si chiede l’esercito nelle strade, come ha fatto il Comune di Milano che, nella persona del sindaco, ha anche avuto l’impudenza di costituirsi parte civile contro l’immigrato.

Nessuno/a che abbia avuto il coraggio di dire perché persone come Kobobo, questo è il nome dell’immigrato ghanese, sono qui, perché sono costrette ad emigrare da paesi in cui le potenze occidentali portano via tutto, persino l’aria, l’acqua e la terra che non è più abitabile. Nessuno/a che si sia chiesto che cosa può pensare di noi una persona costretta a vivere e a fare la fame lontano da casa, senza un posto dove dormire, dove mangiare, priva perfino della dignità.

Mi chiedo se le tre persone che sono state uccise si siano mai domandate che cos’è un CIE, se abbiano mai alzato lo sguardo a via Corelli per sapere cosa ci fosse là dentro, se abbiano mai speso un minuto per condannare le guerre neocoloniali.

Mi ha colpito molto il fatto che Kobobo abbia ucciso con un piccone. Non è un’arma, è un arnese da lavoro, come quelli dei contadini medioevali che ammazzavano i signori e i loro servi e i loro animali e le loro donne e i loro figli con i forconi, le falci, i martelli in una resa dei conti tanto violenta quanto la disperazione e l’orrore in cui vivevano.

Erano le jacqueries.

E anche questa è stata una jacquerie, non collettiva, ma personale, non privata, ma personale.

Invece di invocare sicurezza per paura del “ritorno della notte e dell’uomo nero”, come ha detto un telegiornale di Stato alla fine del servizio, sarebbe il caso che la gente si guardasse attorno e cominciasse a chiedersi la ragione delle cose perché come canta De Andrè nella Canzone del Maggio “ anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”.

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