Ricevere e riconoscere la nostra eredità, costruire sorellanza.

 Margherita Croce

Parlare di memoria è anche parlare di eredità e non è mai facile. E’ un lavoro che non ha fine o meglio che, forse, dovremmo essere in grado di accettare e assumere come interminabile, almeno dal punto di vista di una tensione ideale. Non ci sono modi per pensare un patrimonio che ci viene lasciato come altro rispetto a noi. Volgere lo sguardo al passato e ascoltare è pratica niente affatto banale, e molte volte dolorosa, perché comporta una sorta di rinuncia: smettere di pensare idealmente la propria individualità, e aprire invece la possibilità di pensarsi storicamente, la qual cosa comporta un confronto con il mondo e con l’altro. Io come giovane donna come figlia come erede non esisto in e per me stessa, come individuo isolato, determinato da un carattere e da una personalità innate, ma esisto nella relazione con gli altri e nella misura in cui appartengo ad un società, ad una famiglia, ad una storia. Ciò che desideriamo per il futuro è inconsistente se non è letto alla luce dell’esperienza, di ciò che ci ha costituito e formato per come siamo ora, qui, a parlare. Non si comprende la natura e la forma delle propri ambizioni senza confrontarsi con il passato, con la cultura da cui si proviene, consapevoli dell’interiorizzazione che si è fatta dei valori con i quali si è cresciute.

La storia cioè, sia quella con la lettera maiuscola, sia quella di ognuna di noi, non può essere ascoltata e compresa se non mettendosi in gioco come parte attiva, come soggetto, singolare e plurale, nella sua storicità e attualità: io sono parte del sistema che osservo e lo modifico anche solo per esserne l’osservatrice. La memoria, dunque, quando riesce ad essere vissuta come costruzione di sé, e non esercitata come attività neutra, si fa strumento di presenza a noi stesse e quindi alle altre e agli altri.

 

Il confronto che oggi ci siamo date la possibilità di vivere parla di memoria e di rapporto tra generazioni ed io, rispetto a chi è qui, parlo come figlia e come sorella. Il valore di questo incontro risiede, secondo me, nel guardare la relazione intergenerazionale che ci lega non in termini neutri ma a partire da una scelta di campo, una presa di consapevolezza politica ed etica, che ognuna fa all’interno della propria generazione. Vale a dire: all’interno di una stessa generazione ci sono le classi e dunque i rapporti di forza e di potere che le determinano, c’è la cultura e quindi i valori che pre-formano i desideri e le ambizioni, le quali a loro volta permeano gli schemi relazionali e il modo quotidiano del vivere insieme. Se dunque tali divisioni sono presenti all’interno di una generazione, il rapporto tra generazioni non può che farsene carico.

Sarebbe come dire che è possibile essere madri, prima di essere state figlie e sorelle, che è possibile cioè non prendere posizione, non scegliere la propria parte insieme alle proprie sorelle ma farlo poi come madri, attraverso le proprie figlie. Pensarla così è pura astrazione, un esercizio di pensiero sterile.

Se non pongo attenzione ai rapporti di forza esistenti all’interno di una generazione, e non me ne occupo, uso in modo inconsapevole la memoria e recepisco in modo asettico e a-storico l’eredità, in quanto la comprimo all’interno della dialettica intergenerazionale. Assumo tale dialettica come sempre uguale a se stessa, come se la trasmissione di valori, saperi e denaro fosse avulsa dalla realtà sociale, economica e politica di una famiglia o di un paese. Scorporando la dialettica intergenerazionale da quella tra classi mi richiudo in un circolo vizioso: come figlia posso rompere e rifiutare il passato e la mia provenienza, oppure posso tentare di riprodurne lo schema, ma in entrambi i casi chiedo riconoscimento della mia singolarità al padre e alla madre, simbolici e non. Chiedere il conto ai propri genitori o volerne essere specchio non porta da nessuna parte senza la consapevolezza della classe e della cultura a cui appartengono, poiché la famiglia, in quanto nucleo societario originario e unità economica, va letta politicamente. Ciò significa considerare come l’organizzazione familiare si lega e si situa all’interno del sistema produttivo, come cioè le modificazioni del concetto di nucleo familiare siano determinate dai mutamenti dei rapporti di produzione, come la morale su cui la famiglia si fonda sia legata a doppio filo alle esigenze dell’economia, come ancora la disciplina normativa della materia delle successioni mortis causa siano mattoni fondamentali del sistema di distribuzione della ricchezza. Non è un caso infatti che in questo periodo di crisi siamo tutti chiamati, da padroni e politici, a mettere in campo la “solidarietà intergenerazionale”, parola dal suono speranzoso attraverso la quale si vogliono rendere accettabili i meccanismi di ricapitalizzazione: scaricare i costi sui giovani e sugli anziani mettendoli in concorrenza con gli adulti nel mezzo. Sappiamo che una società che invecchia produce meno reddito e aumenta le uscite di denaro pubblico, ma sappiamo anche che un patto tra generazioni in tal senso è funzionale, come già fu in passato, solamente al mantenimento della sproporzione distributiva. Per noi, invece, per me, la solidarietà intergenerazionale, e le relazioni solidali in genere, saranno possibili solo quando si trasformerà la struttura economica.

 

Ed è nell’ottica della trasformazione che vorrei parlare della sorellanza, come relazione fertile di possibilità. Confrontarsi con il passato e con il patrimonio che ci viene trasmesso, è lavoro da fare tra fratelli e sorelle in quanto è il luogo relazionale che permette di evitare la richiesta di riconoscimento in termini simbolici. Tra sorelle e fratelli non c’è singolo, né soggetto, a cui posso rivendicare aspirazioni o frustrazioni: sono costretta ad assumere il mio desiderio su di me. Non essendoci rivendicazione si compie una sostituzione importante tra affidamento e fiducia: non posso crollare sulle spalle dell’altra, non posso delegare né paure né ambizioni, e imparo a chiedere aiuto. É questa relazione che mi permette di mettere in discussione ed essere messa in discussione, dal momento in cui, in quanto coetanee, attiviamo la nostra presenza nel mondo all’interno dello stesso orizzonte storico.

E’ chiaro però, ed è questo un punto dirimente e fondante la relazione di sorellanza (non parlo di fratellanza o fraternità perchè, anche se in maniera superficiale, riconosco tale concetto come appartenente alla cultura borghese e improntato su relazioni patriarcali), che non basta condividere il periodo storico in virtù della data di nascita, occorre leggere il proprio tempo sulla base di un orizzonte di senso condiviso. Occorre cioè compiere quella scelta di campo politica ed etica altrimenti il fratello resta padre o figlio, la sorella madre o figlia, e la relazione si mantiene improntata su logiche di potere, che siano colorate di paternalismo o che assumano le sfumature dell’autoritarismo femminile poco cambia.

 

Date queste premesse, che si sono rese pensabili per me alla luce della mia esperienza più recente, ho cominciato a leggere il tema dell’emancipazione, e soprattutto dell’emancipazionismo, da una nuova prospettiva: partendo cioè dal suo fondamento ideologico e pratico, che rinvengo nella meritocrazia, invece che dalle sue manifestazioni storiche e, segnatamente, dai passaggi che ha compiuto in questo lungo ventennio di pacificazione.

Da questa seconda prospettiva infatti, mi è sempre risultato abbastanza chiaro che emancipazione e liberazione sono concetti affatto vicini. A me, nata alla fine degli anni 80 e cresciuta senza badare troppo alla divisione sessuata dei ruoli, almeno nell’infanzia e nell’adolescenza, il processo di ingresso delle donne nei circuiti di potere economici e politici è balzato subito agli occhi come qualcosa di pericoloso. Nel 2001 io ero ancora piccola e responsabile della sicurezza Nazionale Usa era Condoleeza Rice, donna e pure afroamericana! In questa sede è giusto il caso di ricordare, senza troppo dilungarsi, il passaggio che il 2001 ha segnato nel campo della ridefinizione del concetto di “pericolosità sociale”, e dunque dello sdoganamento della forza repressiva poliziesca e militare all’interno e all’esterno degli Stati. É stato l’anno zero di una riedita stagione militarista e neocoloniale che vede Rice tra i maggiori responsabili dell’emanazione degli “Anti-terrorist Act”, fondamento legislativo della dottrina del nuovo patto sociale securitario, sulla quale gli Stati Uniti hanno allineato tutte le potenze occidentali. Prima come responsabile della sicurezza, poi come segretario di Stato, Condileeza Rice parteggia per la causa imperialista e per il mantenimento di un sistema di sfruttamento, non cedendo mai al dubbio sul perché i regimi democratici, a dispetto degli ideali di cui si ammantano, e anzi proprio in virtù degli stessi, finiscano sempre coll’aggredire territori, sterminare popolazioni, portare distruzione. D’altra parte sappiamo bene come la democrazia e il capitalismo, di cui Rice e tutte le sue colleghe sono strenue custodi, intendono la guerra (che compiono anche quotidianamente all’interno dei loro ordinamenti statali): è necessaria. Per salvare la democrazia bisogna essere in grado di sospenderla, per salvare lo stato di diritto bisogna saper sacrificare il diritto e mantenere lo Stato. La democrazia infatti è la forma di governo che ha dimostrato storicamente la maggior capacità di mobilitare per la guerra…solo i democratici non se ne accorgono dal momento in cui la guerra la esportano in altri paesi.

Nel corso degli ultimi dieci anni l’afflusso di donne sul panorama mondiale è cresciuto esponenzialmente e ora partecipano alla gestione del potere in tutti i campi: Marcegaglia, Lagarde, Merkel, Clinton, Palin, Cancellieri sono solo alcuni dei nomi che più immediatamente vengono alla mente. Assistiamo dunque ad una semplice giustapposizione di figure femminili a figure maschili funzionale a dare un volto nuovo e più rassicurante allo stesso sistema economico e di potere. Tutto cambia per non cambiare. Da questa visione di scala l’emancipazionismo appare come un semplice maquillage, il quale, tra l’altro, comporta anche un altro tipo di involuzione e cioè sclerotizza il principio per cui la donna è determinata dal sesso biologico, alimentando la falsa trasversalità delle rivendicazioni “femminili” a prescindere dalla classe e dalla identità politica.

All’interno di tale mistificazione non è possibile la realizzazione e neppure l’idea di solidarietà. Tantomeno è possibile il riconoscimento di genere.

 

Ma da dove viene questo desiderio delle donne di entrare a spron battuto nel mondo pubblico, a dispetto della ben diversa lettura della liberazione data dal movimento femminista rivoluzionario? Come è stato possibile dopo quella intensa stagione di lotte, e successi, ripiegarsi così tanto da non vedere come quelle conquiste siano state sussunte e nuove gabbie si siano create intorno a noi, con la complicità di questo atteggiamento emancipazionista?

Credo che le risposte a queste domande possano essere rinvenute, ad una prima approssimazione, nella pacificazione sociale, nel depotenziamento e nella criminalizzazione dei movimenti rivoluzionari e antagonisti e della loro storia, nella frammentazione esasperata dei soggetti sociali e nella conseguente atomizzazione forzata della nostra società. Siamo state bombardate da capillari propagande culturali tese a suddividere in tanti sottoinsiemi soggetti che dovrebbero invece riconoscersi a partire dalle oppressioni che vivono: il lavoratore e la lavoratrice non si incontrano né si riconoscono più anche perché i loro contratti di lavoro sono tanto differenziati da favorire esponenzialmente solo ricatto e competizione, rendendo sempre più lontana l’idea dell’appartenenza di classe; lo studente e la studentessa faticano a riconoscersi come coloro che studiano e come soggetto sociale e politico, perché tante e tanti già lavorano o sono alla continua ricerca di casa, mentre naufragano nella parcellizzazione dei saperi e nell’iper-specializzazione dei corsi di laurea; adesso addirittura le casalinghe sono state etichettate in quattro sotto-categorie (quelle contente, quelle forzate, quelle temporanee e quelle tailored).

 

In tale arido contesto la cultura del merito, di cui parlavo più sopra come terreno ideologico su cui l’emancipazionismo ha affondato le radici, si è diffusa sempre più. In mezzo a tante incertezze, in una società in cui nessuno ti regala niente e in cui tutti sono pronti a passare sopra gli altri per pochi spicci, come posso guadagnarmi il diritto ad un’esistenza tranquilla se non investendo tutto su di me e cercando la svolta individuale?

Merito, differenziazione e ricatto sono sempre andati di pari passo, ma smascherare questa relazione è un lavoro molto duro. Il merito è pietra angolare delle speranze democratiche, dell’illusione borghese di poter costruire una società più equa senza modificare i rapporti di produzione ma cercando di controllarli e regolamentarli dall’esterno: il libero mercato funziona, solo ogni tanto va contenuto e indirizzato; il regime di concorrenza è regime di libertà e premia il merito, il solo reale problema sono i concorrenti sleali, i quali infatti saranno sanzionati dalle autorità. E non è un caso che queste stesse autorità esercitino poteri giudiziari, amministrativi e anche legislativi in nome della sovranità popolare, senza avere la minima investitura politica, senza essere cioè degli organi rappresentativi. D’altro canto ci hanno abituato a pensare che la spoliticizazzione degli organi di garanzia sia la più grande delle garanzie quando si tratta di rapporti economici!sigh! La spoliticizzazione (vedi ad esempio la svolta tecnocratica della dirigenza europea), la mancanza di prospettiva e pensiero politico è proposta in generale come garanzia ad un’esistenza tranquilla, e per quel che riguarda il merito suona un po’ così: non chiederti chi è a giudicare le tue capacità e potenzialità e su quali basi, se sei d’accordo con i criteri che vengono applicati o meno, se davvero un criterio può essere neutro oppure se invece è, sempre e per necessità logica, funzionalizzato ad un assetto socio-economico, politico e culturale…non chiederti nulla, sali sul banco del mercato e venditi come meglio puoi.

Insomma convincersi che la meritocrazia non ha niente a che vedere con i dettati costituzionali sull’abbattimento degli ostacoli sociali ed economici tra le persone, è terribilmente difficile. Accettare la realtà del sistema del merito come funzionale alla divisione in classi e costringersi a pensare un’alternativa è una responsabilità che pesa…ma è l’unica possibilità che abbiamo per raccogliere la sfida dei nostri tempi bui. Non accettarla significa cedere alla disperazione, isolarsi e sperare di vincere alla lotteria, quando invece la disperazione di uno può cambiare nome se è organizzata insieme a quella di altri.

 

In questi cinque anni di crisi qualcosa ha iniziato a muoversi sotto il ghiaccio…le contraddizioni scricchiolano più forte e sembra che la risposta collettiva e l’autorganizzazione stiano tornando ad affacciarsi nella pratica politica. Penso alle vertenze contro le nocività, alle mobilitazioni delle scuole e delle università, alle occupazioni delle case, alle vertenze lavorative autorganizzate. Come risvegliandosi intorpiditi da un sonno agitato, ci si guarda allo specchio e si lascia spazio a qualche domanda in più…

Si comincia a far di nuovo strada la consapevolezza di dover prendere su di sé la propria rabbia e i propri desideri, dal momento in cui sindacati e partiti, che di questo erano stati delegati, li hanno semplicemente svenduti agli interessi del capitalismo transnazionale. Come non ammettere infatti che del partito di massa dell’inizio del 900 non restano a noi che le ceneri? Da partiti di interessi di classe, che traducono la domanda sociale nell’arena della discussione parlamentare, sono diventati agenzie di mediazione tra cordate di profitto, finendo per rappresentare gli interessi di caste sempre più ristrette, attraverso un linguaggio politico povero e colonizzato da quello economico.

Di fronte all’evidenza della riduzione della lotta politica al momento elettorale, della riduzione quindi anche del “nemico” politico ad un semplice avversario concorrente modellato sul sistema di mercato, e presa consapevolezza della propria solitudine nei confronti di governi di entrambi i colori politici, dal momento in cui i programmi dei partiti della sinistra e della destra sono difficilmente distinguibili, si vanno moltiplicando forme di lotta in prima persona e sperimentazioni della propria forza come corpo collettivo.

Ancora però non possiamo dire di essere in tempi rivoluzionari, in quanto tali lotte non hanno la forza di determinare un cambiamento ma sono ancora attestate ad una posizione di resistenza. Aumentano le lotte per resistere, per conquistare spazi di agibilità politica, ma non si ha ancora la forza di liberare effettivamente il proprio presente costruendo le condizioni di possibilità per un reale processo di riconoscimento e dunque di soggettivazione politica.

 

Assumendo questo dato, sento il bisogno forte di riformulare gli obiettivi dell’intervento e dell’azione politica femminista. Vale a dire che non credo nella necessità di moltiplicare collettivi femministi e non misti, mentre mi preme impegnarmi nella formulazione delle modalità con cui, forti dell’analisi e del pensiero femministi, si possa partecipare ai movimenti che si danno dal basso. In questo senso infatti si dischiudono grandi occasioni per una continua messa a verifica delle premesse poste alla base dell’analisi teorica attraverso la loro precipitazione pratica . Credo infatti, poiché la politica è anche pratica, e non solo discorso, di riconoscimento, che sia importante intensificare i propri legami con l’esterno, mantenendo sempre viva l’attenzione a non chiudersi nel proprio gruppo politico.

Se negli anni 70 è stata forte e fondante la pratica dell’autocoscienza tra donne, oggi ne siamo carenti, ma sarebbe estremamente semplicistico affermare che tale carenza segni, necessariamente, una sconfitta. Quella pratica ha preso linfa e si è dispiegata nel contesto di un movimento di massa, nel quale si dava quotidianamente la possibilità dell’incontro tra moltissime donne, provenienti dalle più diverse classi sociali. Inoltre erano tempi in cui il fare comunità poteva concretarsi immediatamente in esperienze di vita comune, in pratiche di mutuo aiuto assolutamente necessarie: penso soprattutto alla nascita dei consultori autogestiti, all’appropriazione della pratica dell’aborto libero etc. Vi era cioè una rivoluzionaria riscoperta e presa in carico del sapere del corpo e una contestuale, e altrettanto rivoluzionaria, rivendicazione di questo sapere al meccanismo espropriante della delega della cura del sé alla medicina istituzionale. Purtroppo gran parte di questo patrimonio si è perso nelle scoloriture di una memoria poco esercitata, e anche nei meccanismi di sussunzione di quelle conquiste da parte del sistema di potere. Ci ritroviamo infatti davanti a più di una generazione, tra cui sono anche io, che è cresciuta mangiando i frutti (più o meno puri) delle lotte di liberazione. Da una parte queste generazioni danno per scontato una serie di diritti da cui derivano, erroneamente, una acquisita posizione di simmetria rispetto ai loro coetanei uomini, inconsapevoli del fatto che ciò che loro chiamano servizio pubblico è stato un tempo laboratorio politico (ad esempio i consultori), dall’altra schiacciano i problemi derivanti dalla struttura sociale patriarcale su quelli derivanti dalla struttura economica. Per far fronte a questi cortocircuiti credo che, all’oggi, bisognerebbe impegnarsi nella riformulazione degli obiettivi dell’azione femminista mettendo in luce la forza unificante del pensiero femminista. La capacità cioè, di questa lettura politica, di tenere insieme le contraddizioni che fanno capo a strutture diverse, società patriarcale e economia capitalista, continuando a chiamare le cose con il loro nome, piuttosto che inventare sempre nuove definizioni di cui è difficile fare esperienza. Non importa, ad esempio, che il capitalismo sia diventato bio-capitalismo, perché il fatto che i rapporti di produzione economica si alimentano anche attraverso dispositivi di controllo e sfruttamento della vita e della riproduzione biologica è ciò che è sempre accaduto: il dispositivo, che è poi sistema di potere e divisione sessuata dell’organizzazione sociale si chiama patriarcato.

Concludendo mi piacerebbe rilanciare un dibattito rispetto alle forme organizzative di cui si vuole dotare la nostra azione politica, pensando come priorità quella di intrecciare la lotta femminista con quella di classe. Alimentare e moltiplicare la conflittualità che si sprigiona nelle lotte, da quelle sul lavoro a quelle contro le nocività, passando per le occupazioni abitative e studentesche, a partire dalla consapevolezza che le contraddizioni economiche e quelle provenienti dalla divisione sessuata della società appartengono a sistemi diversi, e in questo senso necessitano di essere combattute insieme.

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