La Parentesi di Elisabetta del 24/10/2012

Violenza/non violenza

Elisabetta Teghil

E’ in atto una semplificazione, voluta e fuorviante, dei termini violenza e non-violenza che sono diventati meta-concetti, privi di specificazione e collocazione.
Ai fini di queste note conviene dare una definizione stretta di violenza.
Si intende per violenza l’atto o l’insieme di atti con cui un soggetto privato, sociale, istituzionale interviene nella possibilità di un altro soggetto, anche questo privato, sociale, politico, impedendogli un comportamento spontaneamente realizzabile ed imponendogli un ruolo ed una collocazione.
Dalla definizione di violenza nasce la correlazione tra la stessa e la forza che permette alla prima di realizzarsi.
In questa società la legittimità dei mezzi garantisce la giustezza dei fini.
La legalità è legittimità riconosciuta, la violenza legale è, pertanto, l’unica violenza legittima.

Le elaborazioni teoriche e le campagne mediatiche sul non uso della violenza hanno come obiettivo, esclusivamente, i destinatari della violenza stessa. E chi le fa è consapevole dei rapporti di forza e di chi esercita la violenza in regime di monopolio.
Infatti, la violenza viene praticata in e nei confronti di un’area sociale che non coincide con quella dei detentori del potere. E lo sforzo è tutto teso affinché questo uso della forza e i relativi comportamenti violenti siano accettati e interiorizzati nel costume dei/delle più.
Quando, in maniera occasionale, gli oppressi/e la manifestano, vanno incontro a conseguenze molto severe senza intaccare minimamente l’ordine costituito.

L’iper-borghesia ha dichiarato guerra ai cittadini e alle cittadine di questo paese e ai popoli tutti e, come quando si va in guerra, ha chiamato alla mobilitazione. Questo è il senso del perché alcune/i si prestano a confondere l’aggredito con l’aggressore, l’oppresso con l’oppressore, e a fare l’equazione non omologate/i uguale violente/i che è indirizzata a chi si ribella, ma i veri destinatari sono gli oppresse/i tutte/i.

I teorici della non violenza il nemico lo generano all’interno degli oppressi e secernono ogni sorta di metastasi disumana, dove la non violenza diventa la violenza di un sistema che perseguita ogni forma di singolarità, che vieta il conflitto, che lavora per instaurare un mondo che omette ogni differente ordine del corpo, del sesso, della nascita, della morte.
E’ una violenza virale che tende a distruggere, a poco a poco, tutte le nostre immunità e le nostre capacità di resistenza.

L’etichetta di violenza politica non è altro che uno strumento per delegittimare segmenti della società e movimenti e le loro rivendicazioni.

Attraverso la riformulazione interessata del tema violenza/non-violenza si rimuovono le cause di fondo della effettiva povertà economica, culturale e politica in cui, oggi, versa la quasi totalità delle persone logorate politicamente e socialmente da decenni di riforme neoliberiste, suscitando, al loro interno, artificialmente, linee di frattura che rendono ancora più ardua la conquista collettiva di un futuro migliore.

Paradossalmente, il richiamo a prescindere alla non violenza e la condanna, comunque, della violenza, contribuiscono , da una parte, all’abolizione di tutte le leggi, tranne quella del più forte, e, dall’altra, distruggono i simboli che sono dell’essere umano nel suo percorso sociale, in particolare quelli legati alla lotta di classe e alle lotte di liberazione.

Gli esseri umani devono sbarazzarsi di tutto quello di più culturale e simbolico che un tempo garantiva i loro rapporti: sono spinti a godere senza desiderare, la sola salvezza possibile si trova nelle merci. Distrutte tutte le connotazioni identitarie, non “esisterebbero” più classi, generi, etnie, oppressi e oppressori.
E’ chiaro, allora, che la teoria della non-violenza si risolve in una riconfigurazione di elementi e nella soppressione dei simboli e delle modalità con cui il soggetto si esprime. Di mira non è più solo il corpo da assoggettare, ma anche la mente.

La base di ogni dominio è il desiderio di questo dell’assenza di una controparte.
E’ questo il senso dell’ossessione delle manifestazioni non violente per cui si dà per scontato che non si otterrà mai niente, ma, soprattutto, ed è l’aspetto più grave, che se si dovesse ottenere qualche cosa è un dono unilaterale e, in definitiva, un atto di potere.

E’ l’ ”impero del bene”, la “violenza del bene” che sta, per l’appunto, in questo dare unilaterale occupando la posizione di dio o del padrone che fa salva la vita dello schiavo in cambio del suo lavoro.
Qui entra in gioco la teoria della non-violenza che deve rimuovere concettualmente l’ipotesi di una reazione violenta a questa vita in cattività. A questa esistenza protetta e avvilita.

A noi è riservato il destino che il Grande Inquisitore prevedeva per le masse addomesticate.
La teoria della non-violenza è una modalità del marketing, un vero e proprio strumento di controllo sociale e come il marketing non ha la funzione di liberare il tempo individuale, ma ,al contrario, di controllarlo per massificarlo al massimo, così la non-violenza è lo strumento di una nuova servitù volontaria.

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