
Un interessante articolo di Stefania Consigliere, Alessandro Pacco, Cristina Zavaroni che dice quello che andiamo raccontando anche noi da molto tempo.
Rieducational Channel. Il lockdown come dispositivo di rieducazione politica.
https://www.carmillaonline.com/2022/02/05/rieducational-channel-il-lockdown-come-dispositivo-di-rieducazione-politica/
Un’ipotesi fin troppo facile
Il fenomeno è noto e spaventoso: a fronte di quanto sta accadendo, la gran parte dei nostri connazionali non trova niente da obiettare, neanche quando il governo manda uomini armati alle fermate degli autobus per controllare il GP dei ragazzini. Qui come altrove, i meno alienati abbassano gli occhi e tirano dritto; gli altri neppure vedono.
Si è parlato di strage delle coscienze, di immensa vergogna, di maledizione pandemica. Un’ottava piaga biblica che ha colpito in modo strano, trasversale a qualsiasi categoria socio-economica, lasciando a terra moltissimi fra quelli che credevamo più attrezzati, resistenti, attenti: l’antagonismo e la “sinistra di movimento”, insomma, ivi inclusa larga parte del femminismo, delle forze LGBTQ+ e delle realtà solidali con i sans papiers, che sembrano cadute in una sorta di rimozione a getto continuo di ciò che, pure, è sotto i nostri occhi. Troia brucia, ha scritto Wolf Bukowski, ma guai alle Cassandre che lo dicono.
Cos’ha reso possibile un simile cedimento politico, cognitivo, psichico ed emotivo? In una serie di quattro testi scritti fra agosto e novembre 2021 (si trovano qui: 1, 2, 3, 4), il compagno Nicola ha identificato alcune cause strutturali profonde: (1) l’incrocio fra la precarietà esistenziale degli ultimi decenni e l’ideologia individualista, che induce a puntare tutto sul magic bullet vaccinale per poter tornare il prima possibile a produrre e consumare; (2) lo sbarramento mediatico opposto agli scienziati dissidenti che li ha indotti, spesso, a portare i loro argomenti su siti alternativi destrorsi; (3) la scomparsa del movimento operaio e della sua contronarrazione; (4) la confusione fra la collettività che protegge, e che è da proteggere, e lo Stato; (5) la confusione fra la libertà individuale di destra (quella dell’individuo borghese di sfruttare e consumare) e la pura e semplice libertà di vivere; (6) l’infantile entusiasmo per il presunto blocco dell’economia di una parte della compagneria, incapace di avvedersi che quel “blocco” significava solo la vittoria di alcune, specifiche bande del capitalismo contro altre ormai obsolete.
È un’analisi che sottoscriviamo completamente, a cui, a mo’ d’integrazione psico-antropologica, vorremmo aggiungere un pezzetto. È in questione un elemento che gli “sprofondati nel fango” colgono con maggior chiarezza: il livello di indifferenza, acquiescenza e unanimità della maggioranza ha qualcosa di anomalo, al punto da far immaginare che sia l’esito di un processo specifico.
Facciamo dunque la nostra scommessa. Poiché spesso, nel disastro che chiamiamo storia, l’ingrediente segreto dei fenomeni è la violenza, proponiamo di leggere l’ottundimento e la dissociazione che vediamo intorno a noi come effetto di un processo traumatico funzionale all’estensione, a parte delle popolazioni ricche, di quella stessa violenza strutturale che, nella più scontata quotidianità, regola i rapporti fra territori, classi sociali, gruppi etnici e soggetti.
Violenza strutturale, ovvero, ciò che non si deve vedere
Cominciamo dal quadro generale che fa da sfondo all’ipotesi: quello di una sostanziale, globale ingiustizia mantenuta con la forza. David Graeber ha scritto che la violenza strutturale è in azione in quelle zone della vita umana che, di solito, mettono gli antropologi a disagio: le zone di asprezza, semplificazione, smemoratezza e totale stupidità nelle nostre vite rese possibili dalla violenza. Con “violenza”, qui, non mi riferisco al genere di atti, sporadici e spettacolari, a cui di solito pensiamo quando la parola viene pronunciata, ma alle forme noiose, monotone e tuttavia onnipresenti di violenza che definiscono le condizioni stesse della nostra esistenza; alle minacce, velate o palesi, di forza fisica che stanno dietro a pressoché tutto, dall’applicazione delle regole su dove è permesso sedersi, stare, mangiare o bere nei parchi e in altri luoghi pubblici, fino alle minacce, all’intimidazione fisica e agli attacchi che sorreggono l’applicazione delle regole tacite di genere. Propongo di definirle zone di semplificazione violenta. Ci colpiscono in quasi tutti gli aspetti delle nostre vite. E però, a nessuno piace parlarne.
Somma di tutte le forme di esclusione, marginalizzazione e ineguaglianza sociale sostenute, in ultima analisi, dalla minaccia di aggressione fisica, la violenza strutturale è lo sfondo stesso dei nostri decorosi anni neoliberisti. Proprio per questo, forse, gode di uno strano regime percettivo: ben visibile dal fondo della piramide sociale, si fa sempre più opaca mano a mano che si sale verso il vertice. Ne sanno qualcosa gli afroamericans negli USA, i migranti in Europa, i carcerati, gli homeless. Anche quando l’aggressione è differita, gli effetti della minaccia sono tragicamente reali: basta osservare l’andamento della vita media nei diversi quartieri di una città, la correlazione fra classe sociale e frequenza scolastica, il peso della disabilità e della malattia in base al reddito.
In quanto bianchi e cittadini di una nazione ricca, nella seconda metà del Novecento siamo stati dal lato (relativamente) sicuro della barricata, con accesso a un certo grado di benessere materiale e di privilegio geopolitico e con la possibilità di disvedere molta della violenza prodotta dal sistema. Già da un po’, però, fra l’erosione degli istituti collettivi (sanità, scuola, sindacati, associativismo ecc.) e la fragilizzazione individuale (v. l’epidemia di depressione degli scorsi decenni), questa posizione di vantaggio è sotto attacco. Dopo la crisi finanziaria del 2008, un brusco processo di riproletarizzazione ha investito la popolazione occidentale generale: dall’aumento dei morti sul lavoro ai tagli alla sanità, dalla macelleria sociale targata UE all’aumento esponenziale del costo della vita, dalle patologie del vuoto ai suicidi in età giovanile. In questo quadro, la pandemia è arrivata come un’occasione d’oro per instaurare, con le maniere forti, le condizioni di violenza strutturale oggi più utili al plusvalore: la gestione pandemica nella sua interezza può essere letta come un esempio da manuale di shock economy (o, se si preferisce, di accumulazione originaria) e il confinamento della primavera 2020 come dispositivo inaugurale di rieducazione politica alle nuove condizioni del capitalismo informatico.
Violenza puntuale al servizio della violenza di sistema: il trauma iniziale, che qui proviamo a descrivere, non è fine a se stesso, la sua azione a breve e medio termine è funzionale all’instaurazione a lungo termine di condizioni generali peggiori, all’estensione della violenza strutturale a una parte più ampia della popolazione.
È qualcosa che abbiamo gli strumenti disciplinari per intravedere e cominciare a descrivere, ma che non possiamo pienamente giustificare con un’analisi scientifica comme il faut, che richiederebbe un paio d’anni di lavoro. Inoltre, noi stessi ci troviamo nel pieno del “travaglio del concetto”, troppo immersi nell’oggi per essere completamente lucidi. Ci scusiamo quindi per la mancanza di dati quantitativi, per gli esempi aneddotici e per un’impostazione che resta, nonostante le nostre intenzioni, impressionista. Se ci risolviamo a pubblicare è perché crediamo che, nello stringere dei tempi, qualsiasi strumento “buono per pensare” debba essere subito messo a disposizione di tutti.
Violenza traumatica, ovvero, il dispositivo-lockdown
Fatte salve alcune aree dell’Italia del nord, nella memoria collettiva la pandemia è iniziata “davvero” fra l’8 e il 10 marzo 2020, con la progressiva estensione della zona rossa all’intero territorio nazionale. L’atto inaugurale del presente in cui siamo intrappolati è dunque il cosiddetto lockdown (o, alla francese, il confinamento), un insieme complesso e articolato di strategie che può essere letto come fatto sociale totale. Secondo Marcel Mauss, un fatto sociale totale è un fenomeno le cui implicazioni riverberano attraverso l’intera società, riflettendosi in tutte le sue sfere (economica, legislativa, comunicativa, morale ecc.) e in tutti gli aspetti della vita delle persone. Proprio questo carattere totale del dispositivo-lockdown permette di coglierne il ruolo e la portata. Continua a leggere→