Sabot!

Come uno zoccolo negli ingranaggi del patriarcato

di Nicoletta Poidimani

[…] Il capitalismo assume le differenze fisiche e psicologiche che nel medioevo contrassegnavano l’uomo e la donna, e le approfondisce in corrispondenza al differenziarsi delle funzioni economiche e sociali a cui vengono destinati. […] la separazione tra produzione e riproduzione permette al capitale sia di riprodurre la forza lavoro solo in quanto direttamente produttiva sia di introdurre profonde divisioni all’interno del proletariato che garantiscono un maggior controllo su di esso.

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La differenziazione tra personalità maschile e femminile, o potremo dire l’accumulazione delle differenze tra i sessi, è uno dei terreni su cui più apertamente si esplica l’iniziativa capitalistica nella sua prima fase storica. Che cosa si intende per differenziazione tra personalità femminile e maschile? Si tratta di una selezione all’interno delle capèacità lavorative per cui si separano quelle idonee al lavoro di produzione da quelle idonee alla riproduzione e si condensano le prime negli uomini e le seconde nelle donne. Nell’uomo si reprime ciò che sarà destinato ad essere esclusivamente femminile, nelle donne ciò che sarà esclusivamente maschile, mentre in entrambi si sviluppano le doti che più gli competono. Mai, dunque, come nella società capitalistica, l’uomo è stato tanto maschio e la donna tanto femminaLa costruzione dell’uomo e della donna come opposte polarità ha diverse funzioni. Creare una personalità totalmente femminile e una totalmente maschile è la condizione per depurare la capacità lavorativa da ogni caratteristica ad essa non funzionale. Inoltre, una volta differenziati, uomo e donna potranno essere riuniti, senza eccessivi rischi, nella famiglia e costretti a lavorare insieme per la propria riproduzione. Porre l’uomo e la donna come personalità dimezzate sarà, infatti, un modo efficace per obbligarli ad affrontare la vita insieme, poiché la loro complementarietà si tradurrà in necessità di cooperazione, in condizioni di profonda interdipendenza nell’ambito della famiglia.
[…] È in concomitanza con la riorganizzazione del rapporto familiare che nel corso del ’500 e ’600 si assiste a una crescente mascolinizzazione dell’uomo e femminilizzazione della donna – un processo tutt’altro che incruento e di cui la caccia alle streghe è l’aspetto più macroscopico. Ciò che non muore sui roghi viene progressivamente distrutto da uno stillicidio di legislazioni e prescrizioni, che investono tutto il corso della vita quotidiana, dai comportamenti individuali alle strutture più remote della psiche. Da questo attacco che, nella sua prima fase, si dipana nel giro di quasi due secoli, nascono un uomo e una donna le cui caratteristiche saranno contrabbandate come dati naturali. Ma, se si scrostano le mistificazioni erette a difesa della “differenza tra sessi”, risulta chiaro che dietro la presunta naturalità dei comportamenti sessuali si occulta una vasta opera di ingegneria sociale che spezza e costruisce, reprime e sviluppa. Anzi, proprio là dove si vuole leggere più naturalità, si deve vedere più devastazione e sviluppo, e anzitutto la distruzione di quegli elementi che contraddicono le funzioni a cui uomini e donne vengono destinati”.(1)

Non potrebbe esserci sintesi più efficace per spiegare la torsione che il patriarcato capitalista – già dai suoi albori e supportato anche dalle istituzioni ecclesiastiche – ha operato sul genere umano. Prima in Europa, poi, grazie alle imprese coloniali, in tutti i territori su cui ha allungato i suoi artigli predatori.

Ho già spiegato, in queste pagine, perché la vittimizzazione delle donne sia un dispositivo funzionale all’indebolimento delle donne e, di conseguenza, al mantenimento della subalternità femminile. In sostanza, è uno degli strumenti ancora attuali di quella medesima “vasta opera di ingegneria sociale”.

In occasione di un’iniziativa No Tav ho anche analizzato come il monopolio statale della salvaguardia delle donne e dell’ambiente – contenuta nel famigerato “decreto femminicidio” – sia l’altra faccia del monopolio statale della violenza. Qui potete leggere il breve intervento.

Ora vorrei proporre un ulteriore spunto di riflessione: l’assunzione di una prospettiva e di pratiche postvittimistiche, in ambito femminista, è un atto di sabotaggio del patriarcato capitalista suprematista bianco. (Sia chiaro, una volta per tutte, che non mi riferisco ad un femminismo di stampo emancipatorio o pariopportunistico – che è ben lungi da me!).
L’autodeterminazione stessa è uno strumento di sabotaggio, ma soltanto se intesa come ricerca e sperimentazione di autonomia radicale dai meccanismi di oppressione – dunque ben al di là della riduttiva e riduzionista “difesa delle leggi sull’aborto”, con cui il potere tiene furbescamente impegnate da decenni le energie di tante donne.

Quando, nel 1970, il Manifesto di Rivolta Femminile affermava Noi cerchiamo l’autenticità del gesto di rivolta e non la sacrificheremo né all’organizzazione né al proselitismo, cos’altro intendeva?

Il postvittimismo si innesta, dunque, nella storia del femminismo radicale e delle sue pratiche di sabotaggio. Ne è, a mio parere, una necessaria declinazione.
Rompere coi dispositivi vittimizzanti che ci tengono inchiodate a una identità, a un ruolo, a una sessualità e a una forma di relazione significa rifiutarsi di essere una specie soggiogata dal mito della realizzazione di sé nell’unione amorosa con la specie al potere (2) e, al contempo, rifiutarsi di spartire quel potere e di farsene complici.

Audre Lorde aveva sintetizzato efficacemente questa rottura in Usi dell’erotico: Se cominciamo a vivere da dentro a fuori, in contatto con il potere dell’erotico in noi stesse, permettendo a questo potere di ispirare e di illuminare le nostre azioni nel mondo intorno a noi, allora cominciamo ad essere responsabili di noi stesse nel senso più profondo. Perché, man mano che cominciamo a riconoscere i nostri più profondi sentimenti, smettiamo necessariamente di essere appagate dalla sofferenza e dall’autonegazione, e dal torpore che così spesso sembra essere la loro sola alternativa nella nostra società. I nostri atti contro l’oppressione diventano integrati con noi stesse, motivati e potenziati dall’interno.

La storia ci spiega che gli operai che con i loro zoccoli – sabot, in francese – danneggiavano i telai a vapore delle manifatture, volevano autodeterminare il proprio destino contro il dominio del capitale e delle macchine.

Oggi le pratiche di sabotaggio contro le devastazioni dell’ambiente e della salute vengono rubricate nella categoria di “terrorismo”. Si consegue, in tal modo, un triplice obiettivo: criminalizzare tanto le lotte contro le nocività quanto le pratiche femministe di autodeterminazione dell’esistenza e di rifiuto della delega allo Stato patriarcale e ai suoi apparati, nonché cancellare definitivamente la vera storia del terrorismo in Italia, che è quella delle stragi fasciste e “di Stato”.

In sostanza, si vorrebbero suscitare in noi orrore e raccapriccio verso la pratica del sabotaggio per indurci a spuntare i nostri strumenti di autodeterminazione, smantellare la cassetta degli attrezzi del femminismo radicale, rinnegare la nostra storia – quei decenni di lotte e resistenze che hanno fatto vacillare secoli di dominio patriarcale – e renderci duttili e malleabili al dominio del capitale e dei suoi apparati.
Non cadiamo in questa trappola!

(1) Sivia Federici, Leopoldina Fortunati, Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale, Franco Angeli, 1984, pp. 215-216.
(2) Rivolta Femminile, Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi, 1972.

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