Vittimizzazione
Elisabetta Teghil
Il mito della mobilità sociale è uno dei tratti distintivi della società
americana.
Questa caratteristica si è, negli ultimi anni, accentuata per via della
persuasione che la struttura sociale del paese è prodotta da un sistema
meritocratico che sa ricompensare l’immaginazione ed il lavoro.
Convinzione che continua a diffondersi in coincidenza con l’introduzione della
così detta “discriminazione positiva”, quote privilegiate per le minoranze,
quote rosa per le donne, le une e le altre ridotte ad associazioni di
categoria, che hanno nelle università il loro punto di forza.
In realtà, la situazione non fa altro che peggiorare. Le cifre per i neri/e
americani/e, in rapporto a tutti gli standard della qualità della vita, sono in
netto regresso e, così, le condizioni di vita della minoranza ispanica e della
popolazione tutta.
A conferma che l’impianto delle “discriminazioni positive”, lungi dall’
affrontare il tema dell’uguaglianza, ha assunto un ruolo conservatore di
legittimazione dell’ordine costituito.
E’ questo il senso della “vittimizzazione” di ceti, ambienti, generi oppressi
che , riducendo tutto ad una dimensione binaria fra soggetti, si risolve in
una depoliticizzazione del confronto, con l’annullamento delle contrapposizioni
ideologiche di classe, di genere, di razza e che rimuove l’ingiustizia sociale
e la riduce tutta nel quadro delle rivendicazioni vittimistiche, enucleate dal
dibattito e dalla politica.
E, questo, riguarda ,in particolare , le donne, di cui, in questo modo, si
tenta di svalutare le legittime rivendicazioni e la lotta per la liberazione.
La vittimizzazione serve a rimuovere le analisi, non affronta la legittimità
di una causa, come quella delle donne, e, a poco a poco, questo tipo di
indignazione occupa tutto lo spazio, rimuovendo nell’immaginario le cause della
situazione di dominio e di oppressione.
Così facendo, non sono mai il dominio e l’oppressione l’oggetto del discutere
e della lotta, ma la preoccupazione scivola nelle manifestazioni verbali di
“buonismo” e di “partecipazione”.
Le stesse figure semantiche non sono al servizio della liberazione, ma la
sostituiscono per cui la lettura della storia secondo tutte/i costoro è diversa
soltanto se si ha l’accortezza di non scrivere più “Pipino il breve”, ma
“Pipino diversamente alto”, per cui, paradossalmente, la sinistra
socialdemocratica e i suoi coristi e coriste, ammalati/e di un politicamente
corretto fine a se stesso, che, da manifestazione esteriore, diventa sostanza,
sono inclini a censurare ed epurare e scegliere per noi, rimuovendo due
categorie fondamentali della cultura : la contaminazione e il carattere
espansivo del sapere.
E’ il ritorno, alla grande, del Puritanesimo protestante, riabilitato dal
neoliberismo.
La soluzione non è più nelle lotte, queste vengono rimosse perché i problemi
non sarebbero di natura politica e perciò, delle lotte, dovremmo e potremmo
fare a meno.
Però, guarda caso, quello che viene negato agli oppressi e alle oppresse, la
borghesia lo riserva solo a sé, riserva solo a sé il fare politico e la lotta
di classe.
Noi che non siamo omologate e non abbiamo nessuna intenzione di metterci al
servizio di questa società, mettiamo al centro del nostro impegno percorsi di
liberazione che passano necessariamente attraverso l’autonomia e l’
autorganizzazione.