La Parentesi di Elisabetta del 7/11/2018

 La Coordinamenta verso il 25 novembre/Materiali

“Nodi irrisolti”

2007-2017/ dieci anni di femminismo ovvero come il femminismo si è consegnato nelle mani del nemico.

Il femminismo è di gran moda. Se ne fa un gran parlare, non c’è canale televisivo, quotidiano, rivista, sede istituzionale o paraistituzionale che non parli di femminicidio, che non nomini la violenza sulle donne, da quella sessuale agli abusi sul lavoro, dalla necessità delle quote di rappresentanza femminili, di qua o di là, alla disparità di trattamento economico e via discorrendo. Si vendono le cuffie con le orecchie rosa, le borse con il simbolo di genere perfino nei mercatini rionali. Detto così sembrerebbe un gran bene. Invece il “femminismo” che va per la maggiore, svuotato di ogni valenza antagonista e liberatoria, diventato merce e strumento delle logiche di dominio, sta portando ai resti il femminismo tutto.

E’ stato un lungo percorso che si è dipanato dalla fine degli anni’70 fino ad oggi e nella deriva a cui siamo giunte ha una parte importantissima la scelta politica di non affrontare e risolvere alcuni nodi fondanti: la sorellanza, l’emancipazione, la trasversalità, l’interclassismo, il conflitto.

Tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70 le donne hanno scoperto di essere tutte sorelle nella consapevolezza della comune oppressione. Non più un problema femminile, dunque, di cui tutti quelli che avevano a cuore una società migliore avrebbero dovuto e voluto occuparsi, non più una carenza di attenzione e di diritti a cui la società avrebbe dovuto porre rimedio, bensì una questione strettamente legata ad un modello socio-economico, il patriarcato, assunto e affinato dalla società del capitale, che prevedeva ruoli sessuati precisi, gerarchicamente impostati, in cui il maschile veniva costruito come dominante e il femminile dominato per una resa ottimale degli individui messi al lavoro in una divisione precisa dei compiti e con uno sfruttamento differenziato e gerarchico. Tutte le donne, quindi, avevano un nemico comune, gli uomini, perché erano quelli a cui era stato affidato il compito di pretendere e far assolvere alle donne il compito sociale per loro costruito. L’asservimento del genere femminile era ed è trasversale alle classi sociali, seppure declinato in maniera diversa per ogni classe o frazione di classe.

La consapevolezza politica di cosa fosse il patriarcato e la presa di coscienza della sua natura strutturale aveva portato anche al separatismo. E qui dobbiamo aprire una piccola parentesi su cosa si intenda per strutturale, una parola di cui il femminismo riformista continua a riempirsi la bocca dicendo che l’oppressione sulle donne è strutturale perché si riconosce e si ritrova in ogni ambito della società. Invece è proprio il contrario. L’oppressione sulle donne si ritrova in ogni ambito della società perché è strutturale. E, quindi, la risposta a cosa significhi strutturale viene mistificata e non viene data. Dovrebbero svelare che il patriarcato è un modello economico che il capitalismo ha assunto e di cui l’aspetto culturale è solo la conseguenza, che il patriarcato è un modello organizzato per un ottimale sfruttamento e che per questo i ruoli sessuati maschili e femminili sono estremamente specializzati, che è un modello impostato sulla gerarchia, sul possesso, sul dominio e che quindi è impensabile destrutturare il concetto di proprietà fisica, affettiva, economica nello specifico del nostro sfruttamento senza porsi il problema di destrutturarlo nella società tutta. E questo vale, naturalmente, anche per la gerarchia e per il dominio che si basano sulla filiera meritocratica tanto cara al neoliberismo.

Ma l’assunzione del principio di sorellanza avulsa dall’analisi di come si muove questa società ha condotto a risultati perversi e ha perpetuato equivoci.

E’ vero, quindi, siamo tutte oppresse, ma, come tutto nella società del capitale, siamo attraversate dalla classe. Alcune lo hanno capito, altre lo hanno condannato, più o meno scientemente e, demonizzando la discriminante di classe, propagandando l’equivoco della non violenza e della fine delle ideologie hanno permesso la spoliticizzazione del femminismo, hanno contribuito al dispiegarsi della violenza del sistema come unica legittima e dell’ideologia dominante come unico riferimento e hanno riconsegnato attraverso la socialdemocrazia riformista le donne agli esperti e allo Stato. Chi aveva capito si è sgolata ma non se l’è sentita di attaccare le donne che stavano vendendo le altre donne. L’emancipazione è stata trasformata da strumento a fine, da presa in carico di ulteriori possibilità per potersi liberare all’assoggettamento alle logiche della partecipazione allo Stato, della carriera, della promozione individuale fino a diventare parte integrante del potere.

In quelle che avevano capito ha preso il sopravvento la paura del conflitto. Ma cosa significa paura del conflitto?  Le remore nei confronti di un conflitto fra donne sono state più forti della consapevolezza del disastro.

Trasversalità, è vero, tutte le donne sono oppresse, ma quelle che supportano e che si fanno garanti e partecipano attivamente ad una configurazione ideologica gerarchica, autoritaria, classista saranno sempre dalla parte sbagliata della barricata, contro se stesse ma anche contro tutte le altre donne e quindi nostre nemiche.

Ma per comprendere meglio come questi enunciati si siano tradotti in scelte reali basta attraversare il femminismo degli ultimi dieci anni, dal 2007 al 2017 e prendere come esempio quello che è accaduto a Roma, non perché sia più importante di altri luoghi ma perché particolarmente significativo.

A Roma dal 2007 al 2017 si sono svolti degli eventi che sono stati degli snodi emblematici per il percorso politico femminista, e non solo, in questo paese. Inoltre questi snodi sono stati vissuti in prima persona e questo non guasta, anche se sono convinta che le esperienze si sedimentino e che non sia necessario siano fatte direttamente, altrimenti per parlare di qualcosa dovremmo avere esperienza di tutto lo scibile umano.

Il 24 novembre del 2007 ci fu proprio a Roma un’imponente manifestazione nazionale femminista, autoconvocata in seguito al femminicidio di Giovanna Reggiani e contro la strumentalizzazione che veniva portata avanti dall’arco costituzionale per il varo di leggi e decreti securitari e di controllo sociale. La consapevolezza delle responsabilità politiche era chiara, le ministre e le deputate, da Carfagna a Prestigiacomo, da Livia Turco a Pollastrini, a Melandri, che osarono presentarsi furono cacciate. La manifestazione era di donne, i pochi maschi furono mandati via e relegati in fondo al corteo, i giornalisti oscurati perché alla stragrande maggioranza delle partecipanti era chiaro il ruolo della stampa al servizio del potere.

Da quella mobilitazione nacque la mailing list femminista nazionale “Sommosse” che esiste ancora, oltre ad una miriade di liste locali tra cui quella romana “Chiavidicasa”.

Il 23 e 24 febbraio 2008, tre mesi dopo il 24 novembre, fu chiamato sempre a Roma un incontro nazionale di discussione, dibattito, confronto chiamato FLAT, femministe e lesbiche ai tavoli, la cui assemblea conclusiva si svolse nella sala della chiesa valdese di piazza Cavour. Ed è qui, nell’assemblea generale, che dopo le discussioni e i confronti e le belle parole e i migliori intenti della giornata precedente si consuma un importante passaggio. Ad un certo punto una femminista prende parola per chiedere solidarietà e supporto per una compagna delle Brigate Rosse, Marina Petrella, a rischio estradizione dalla Francia. A questa richiesta di aiuto alcune, tra cui femministe “storiche” che ancora oggi hanno la pretesa di considerarsi tali, sono insorte pesantemente con modalità e parole che non ho visto né sentito spendere per fatti molto gravi, dalla violenza delle Istituzioni alle guerre neocoloniali, tanto per fare un esempio, su cui il loro silenzio invece ha regnato sovrano. Questa levata di scudi non ha trovato una risposta ferma ed adeguata da parte del resto dell’assemblea che pure è rimasta perplessa. Proprio per questo una sensazione di disorientamento è calata su tutte, come se quello che era stato detto in quei mesi precedenti e fino al giorno prima, fosse inficiato da qualcosa di storto, da una sensazione sottile di non vero, da una sensazione di malessere. E la sorellanza? Che cos’era allora la sorellanza di cui tanto si era parlato? La sorellanza non era fra tutte? Allora fra quali? E nessuna ha avuto il coraggio di dire neppure a se stessa quello che era venuto fuori, che no, la sorellanza non era fra tutte. Ma chi era che stava da una parte e chi dall’altra? Non aver affrontato questo nodo, averlo sotterrato sotto la sabbia, averlo taciuto quasi con la paura che tutto potesse crollare come un castello di carte ha fatto sì che questo tarlo corrodesse dal di dentro il movimento femminista. Un nodo sempre più stretto. Certo tante avevano chiarezza politica rispetto a quello che era successo. Era una storia vecchia, ce la portavamo dietro dagli anni ’70 quando le socialdemocratiche avevano preso il sopravvento, avevano propagandato come una grande vittoria la creazione dei consultori pubblici e della 194, avevano spinto in massa le donne ad entrare nelle strutture dello Stato contrabbandando questo come un grande successo e demonizzando quelle che praticavano ancora autonomia e autogestione, autodeterminazione e autorganizzazione tacciandole di scarso realismo, di velleitarismo, di utopismo quando non di violenza in contrapposizione ad un movimento femminista “sano”, “non violento”, con i “piedi per terra”.

Ma che cos’è la storia? E la memoria? a che serve la memoria? Il potere mette in atto processi di decostruzione della storia e di ricomposizione della memoria attraverso la produzione di ricordi sostitutivi, di codificazioni fuorvianti e fraudolente. La vittoria della componente socialdemocratica è passata attraverso l’area della comunicazione sociale, attraverso la produzione di falsificazioni, la manipolazione e l’intossicazione della memoria con il controllo preventivo e la condanna dei comportamenti potenzialmente antagonistici.

Così per il 22 novembre del 2008 ci siamo ritrovate in molte di meno, ma con le idee abbastanza chiare per scendere in piazza come “Indecorose e libere”. Volevamo essere tutto fuorché quello che il sistema voleva da noi e non avevamo nessuna intenzione di metterci al suo servizio “In un anno gli attacchi alla nostra libertà e autodeterminazione sono aumentati esponenzialmente, mettendo in luce la deriva autoritaria, sessista, e razzista del nostro paese. Ricordiamo il blitz della polizia al policlinico di Napoli per il presunto aborto illegale, le aggressioni contro lesbiche, omosessuali e trans, contro immigrate/i e cittadine/i di seconda generazione. Violenza legittimata e incoraggiata da governi e sindaci-sceriffi che vogliono imporre modelli di comportamento normalizzati in nome del “decoro” e della “dignità” impedendoci di scegliere liberamente come condurre le nostre vite.” Si legge così nel documento per la manifestazione nazionale. Ma l’ideologia neoliberista sospingeva la società a tappe forzate e cercava ovunque chi fosse disposto e disposta a collaborare.

Per il 28 novembre 2009, giorno di lancio della manifestazione per la giornata del 25, viene messo in atto in maniera ingannevole e fraudolenta lo scippo della manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne da parte di alcune femministe e da una femminista storica in particolare. Una virata di contenuti strabiliante imposta con l’inganno prima e in maniera autoritaria poi. Improvvisamente da indecorose e libere eravamo diventate quelle che avrebbero dovuto mobilitarsi <Contro la violenza maschile sulle donne, per la libertà di scelta sessuale e di identità di genere, per la civiltà della relazione tra i sessi, per un’informazione libera e non sessista, contro lo sfruttamento del corpo delle donne a fini politici ed economici. Per una responsabilità condivisa di uomini e donne verso bambini, anziani e malati, nel privato e nel pubblico. Contro ogni forma di discriminazione e razzismo, per una scuola che educhi alla convivenza civile tra i sessi e le culture diverse […]> Questo uno stralcio della chiamata sul sito costruito ad hoc ”Torniamoinpiazza” come se in piazza non ci fossimo sempre state.

Fu chiamata un’Assemblea Romana al 30 di Via dei Volsci in cui nonostante la condivisa indignazione rispetto a quello che stava succedendo fu palese l’incapacità di agire il conflitto, di dichiarare apertamente ciò che effettivamente tutte pensavano e tanto meno di metterlo per iscritto anche per il boicottaggio di un’infima minoranza che aveva dichiarato che se avessimo messo quello che pensavamo nero su bianco avremmo escluso loro che non erano d’accordo. Un ricatto esplicito attraverso sorellanza, condivisione, orizzontalità facendo così dimenticare che non palesare un’opposizione politica significa far vincere chi sta agendo violenza. Ancora la paura del conflitto, ancora la perdita di autonomia e autodeterminazione. Un altro nodo ancora più stretto.

Il 31 ottobre del 2009 fu chiamata un’Assemblea Nazionale a Bologna dove nonostante ci si rendesse conto dell’operazione truffaldina messa in atto alla fine si decise di attraversare quella manifestazione con altri contenuti come risulta dal documento conclusivo < L’Assemblea Nazionale che si è riunita a Bologna il 31-10-2009 ha stabilito di non poter aderire tout-court al testo di indizione della manifestazione perché privo di alcune parole per noi imprescindibili ed anche perché non scaturito da una pratica politica condivisa. Ha stabilito comunque di dover partecipare alla Manifestazione del 28\11\’09 perché la denuncia della violenza maschile contro le donne e le lesbiche è tema centrale e continuativo del lavoro politico di molte ed interesse certo di tutte. Saremo in Piazza a Roma il 28 con la piattaforma che segue […]

Ma quello che era accaduto non era casuale. L’incapacità di leggere in maniera politica quegli avvenimenti ha impedito di capire che quelle scelte non erano altro che un passo della trasformazione in corso, della traduzione del discorso neoliberista nell’ambito delle lotte femministe, della messa in atto di quell’appropriazione delle istanze antagoniste e liberatorie e della loro trasformazione in forme funzionali al potere che avrebbe caratterizzato l’avvento del neoliberismo. Lo scippo di quella manifestazione apriva un’ulteriore falla nel movimento femminista. Non a caso in quell’occasione diversi gruppi, che ancora si presentano come femministi e che ora vanno manifestando contro il fascismo, tolsero la discriminante antifascista e scesero in piazza solo come antisessiste e antirazziste come se si potesse essere tali senza essere antifasciste. Ma perché nessuna ha mai chiesto conto di quella scelta? E perché nessuna chiede loro conto della faccia tosta con cui portano avanti ora una posizione antifascista? Si dice che il pesce rosso possa vivere in una piccola bolla d’acqua e girare in tondo perché ha una memoria limitata a due minuti. Perché le compagne femministe hanno la memoria del pesce rosso?

Ma tutto quello che stava succedendo non era casuale, serviva a lanciare <Se non ora quando?> l’operazione che la socialdemocrazia riformista aveva imbastito per eliminare Berlusconi e il berlusconismo dal panorama politico attraverso la condanna della sua condotta personale, della sua vita sessuale definita dissoluta e delle donne che a questa vita partecipavano a pagamento e non. Berlusconi era il referente della borghesia imprenditoriale nazionale destinata a soccombere di fronte all’attacco della borghesia transnazionale il cui referente era il PD. La strumentalizzazione dell’oppressione delle donne e del femminismo fu violentissima. Il 13 febbraio del 2011 fu chiamata una manifestazione a Piazza del Popolo a Roma il cui appello si rivolgeva a tutte le italiane o più precisamente a quelle che avrebbero dovuto indignarsi contrapposte a quelle donne che invece con i loro comportamenti suscitavano questa indignazione. La donna a cui si rivolgeva questo appello, accantonate le reprobe, veniva descritta come casa e cura, madre, moglie e figlia, con la tessera di qualche partito non importa quale, sindacalista, imprenditrice, volontaria. Venivano così annullate le differenze politiche e i ruoli nella società, ma le donne venivano di nuovo divise in sante e puttane. E sul palco di piazza del Popolo si avvicendarono suore, fasciste, donne in carriera, operaie, tutte dovevano concorrere alla grandezza della <Nazione>.

Il risultato più evidente è stato l’ingresso massiccio delle donne di una élite, le così dette progressiste, in posizioni e ruoli di potere e l’impostazione di una vera e propria strumentalizzazione organizzata della violenza sulle donne. E così l’emancipazionismo usato come fine e non come mezzo si è configurato ufficialmente come strumento di oppressione di poche su tutte le altre e su tutti gli oppressi.

Non c’è stata indignazione nel movimento femminista, a parte alcune singole, niente proclami inorriditi, niente prese di distanza ufficiali, niente condanne, nessuna analisi condivisa, nessuna assemblea furibonda. Perché? Nodi irrisolti su nodi irrisolti.

Il neoliberismo ha impostato una società che abbiamo definito dell’antisessismo sessista, dell’antirazzismo razzista, dell’antifascismo fascista. Assume queste istanze, le ingloba, le risucchia e le usa per consolidare il potere. Si rafforza rappresentandosi come democratico, progressista, attento, politicamente corretto. E opera uno stravolgimento delle parole che appartengono alle lotte antagoniste, all’analisi di genere e di classe, le svuota del significato originario, le fa strumento di propaganda mediatica e di marketing.

Inoltre, una delle scelte dell’ideologia neoliberista è stata quella di chiudere in maniera unilaterale lo spazio di contrattazione. Non c’è nessuna possibilità di incidere nelle scelte del sistema perché il sistema ha scelto di non mediare più. Ha lasciato aperto solo lo spazio del collaborazionismo.

Non Una di Meno è la sintesi di questa operazione tradotta ed esplicitata con il lancio della manifestazione per il 25 novembre del 2016. La socialdemocrazia riformista si è sentita così forte da chiamare direttamente una manifestazione femminista e le compagne e le femministe hanno perso talmente tanto i riferimenti politici di anni di lotte che si sono acriticamente accodate ad una chiamata esplicitamente interclassista e riformista, dove l’interlocutore è lo Stato a cui si chiedono soldi, attenzione, riconoscimento e riforme.

Viene identificato il femminismo con una miriade di associazioni che dovrebbero occuparsi delle donne ai più svariati livelli, dalla violenza maschile all’educazione alla convivenza tra i sessi, all’educazione scolastica, al rapporto con le donne migranti, alla formazione del personale medico, paramedico, degli apparati di polizia e magistratura…un elenco senza fine. E le parole che avevano costruito e costituito l’ossatura del femminismo vengono rilanciate continuamente come uno spot pubblicitario svuotate dai contenuti effettivi, il tutto condito da un’accattivante dichiarazione di anticapitalismo proclamata e sbandierata insieme alle donne che sono esplicite garanti del neoliberismo. Da non crederci.

Il neo liberismo ha stravolto parole, segni, segnali, significati,  riferimenti politici in ogni ambito, è una sua caratteristica, per poter rimodulare il presente e la società a suo uso e consumo e togliere agli oppressi e alle oppresse gli strumenti di rivolta. La parola “riforma” lungi dal significare miglioramento seppure in un ambito di contrattazione significa tagli allo stato sociale in ogni ambito, la “sicurezza” da desiderio di una serenità di vita e di futuro è diventata controllo sociale serrato e repressione, le guerre sono diventate umanitarie, il lavoro è concorrenzialità e precarietà spietata…   E questo è successo anche nel femminismo perché le parole che appartenevano ad un movimento di rottura con l’ordine stabilito sono state svuotate, tritate, rimasticate e risputate contro di noi. E così non siamo più in grado di usare nemmeno gli strumenti su cui lo stesso movimento femminista ha basato le lotte di anni perché questi strumenti sono diventati vuoti, senza significato o con un significato cambiato e stravolto.

E così autodeterminazione significa chiedere allo Stato, autorganizzazione significa pietire sempre dallo Stato i soldi per centri antiviolenza, progetti di sensibilizzazione, corsi universitari sulle questioni o la storia di genere… fino ad arrivare all’aberrazione di proporsi, sempre allo Stato, come soggetto adeguato a verificare, stigmatizzare e correggere linguaggi e modalità sessiste nella stampa e nei mezzi di comunicazione e a decidere e a decretare, previa autorizzazione chiaramente, quale sia il vero femminismo e quale no. Il Piano contro la violenza sulle donne varato da NUDM qualche tempo fa costituisce la sintesi nero su bianco di questo pensiero.

E così il femminismo oltre a diventare una delle tante forme di associazionismo all’interno del variegato mondo delle Ong, delle Onlus, diventa strumento di controllo sociale insieme agli altri strumenti di controllo sociale, strumento del potere per l’addomesticamento delle coscienze, parte fondante dell’Impero del Bene.

Abbiamo una sola strada. Non ci sono più nodi da sciogliere, ma solo un taglio netto. Porsi fuori e contro tutto questo. Ricominciare a raccontare le cose come stanno, ricostruire il nesso tra parole e significato, tra agire politico e obiettivi, tra azione e pensiero perché il femminismo non può essere altro che un percorso di uscita da questa società.

Questa voce è stata pubblicata in 25 novembre, Autodifesa femminista, Autorganizzazione, La Parentesi di Elisabetta, La Parentesi di Elisabetta, Violenza di genere e contrassegnata con , , , , . Contrassegna il permalink.