Mi sento (ri)stretta

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Mi sento (ri)stretta!
Diario
«Oggi, giovedì 11 Luglio 2013, inizio uno sciopero della fame…
Per colpa di un parapiglia con dei poliziotti dentro una camionetta,
della conseguente accusa per resistenza ci hanno incastrato in mezzo ad
un processo, dentro galere ed ora agli arresti domiciliari con il
divieto di comunicare con l’esterno.
Dopo 4 giorni di carcere, 2 mesi di firme giornaliere, e poi ancora 17
giorni di carcere, dopo il rigetto di domande di domiciliari a casa di
amici, ho ottenuto gli arresti a casa dei miei genitori, in un piccolo
paese della campagna piemontese.
Ritorno nella mia stanza d’adolescente, abbandonata dopo le superiori,
ripercorro a ritroso i passi verso l’autonomia che mi ero creata
rispetto alla famiglia. I risparmi personali si sono velocemente
asciugati, le casse detenuti devono anche aiutare tanti prigionieri
messi in condizioni peggiori.
Giudice e Pm non vogliono dare la revoca delle restrizioni. È dal 4
Maggio che non posso parlare a lungo con un amico, se non le parole
rubate durante le udienze in tribunale. È più di due mesi che rinchiudo
le mie lettere dentro un cassetto, e la postina qui porta solo bollette
e depliant con le offerte dell’ipermercato.
Il divieto di comunicazione con l’esterno che mi hanno imposto dovrebbe
essere inutile a questo punto, il 19 luglio avremo una sentenza di
condanna di primo grado, le dichiarazioni sono state fatte da tutti
quanti, non c’è alcuna informazione che potrebbe passare e modificare il
racconto dei fatti per i quali stiamo venendo giudicate. Dicono che da
qui potrei istigare qualcun altro a commettere dei reati… sono sicura
che in giro c’è gente agitata e pronta a far fracasso, ma non aspetta
certo che glielo dica io.
In strada la gente si rivolta perché ne ha la necessità personale, si
agita con disordine, senza avere sempre chiarezza d’idee e scopi
unanimi, senza aspettare la parola di qualcun altro esterno alla
faccenda.
Ieri è stata di nuovo rifiutata l’istanza per la revoca del divieto di
comunicazione e per il permesso di lavorare in una cooperativa agricola.
Dato che ad Agosto il tribunale funziona a regime ridotto dovrò
attendere fino a Settembre per poter, forse, vedere un viso amico, per
poter lavorare, per guadagnarmi due soldi per fare la spesa.
Sto pensando ora che sarebbe stato meglio rimanere in carcere.
Lì avrei potuto inviare lunghe lettere e riceverne, sicuramente avrei
potuto conoscere più a fondo donne con storie interessanti, avrei
continuato a condividere tempo e spazio con persone con le mie stesse
tensioni, le stesse preoccupazioni, con l’opportunità di stringere
complicità ed avere delle idee da costruire insieme. Dentro forse avrei
potuto avere la possibilità di incontrare il mio innamorato al
colloquio, oppure un amica o un amico, con cui condividevo parte del mio
tempo, della mia vita fino all’altro ieri.
Qua, mi ritrovo in un luogo passato, a fare le mie confidenze ad un
piccolo cane, a percorrere ripetute volte il perimetro dei muri di
cinta, a sentire il tempo sprecato, a far indigestioni di letture per
finire a non capire più nessuna parola, a far vorticare i pensieri in
maniera dolorosa, perdendo i punti di riferimento, vedendo svanire i
progetti e sentendo scivolare via i legami non avendo alcun modo di
mantenerli e stringerli, trovando conforto nei momenti di debolezza solo
nella vista di piccole formiche che trasportano gigantesche foglie.
In questo limbo, in un isolamento dolce, con la nutella in grossi
barattoli di vetro, con coltelli di metallo per pelare e tagliare le
patate e con la possibilità di vedere il cielo sopra la mia testa in
qualsiasi momento (ciò a differenza della galera), ma senza alcun
contatto umano – se non con i miei genitori, che si, son gentili, ma il
tempo dello svezzamento è già da tanto tempo tramontato -, senza
possibilità di dialogo non ci voglio più stare.
Non attendo più carte e scartoffie, risposte ad istanze… non mangio più.
Voglio parlare con i miei amici, abbracciarli, scrivere lettere alle
forti donne che ho conosciuto in carcere, voglio poter telefonare a mia
zia, ad una mia cara amica del liceo, ad un mio amico che è all’ospedale
perché si è rotto il bacino.
Voglio poter lavorare, per essere indipendente a livello economico e non
un peso per qualcuno e per prendere aria.
Vorrei essere libera, ma son cascata nella trappola giudiziaria.
Evadendo potrei soddisfare i miei desideri, ma aggraverei la situazione
e il gioco non ne vale la candela.
L’unico strumento che mi rimane è me stessa.
Non mangio e rido… per non arrabbiarmi troppo.»

Marianna, agli arresti domiciliari ad Oglianico, in via Fiume 16a

(Marianna da giovedì è in sciopero della fame: ce l’hanno comunicato i
suoi genitori, che ci hanno pure girato il testo che pubblichiamo qui
sopra. Pensiamo sia importante farlo circolare il più possibile, e
velocemente, giacché il prossimo 19 luglio al Tribunale di Torino ci
sarà l’ultima udienza del processo per i fatti dell’11 marzo – per i
quali Marianna e Simona in quattro mesi han patito questa girandola di
misure cautelari – e sarebbe bello si muovesse per tempo un po’ di
solidarietà. Simona, che è ai domiciliari da maggio, ha cominciato lo
sciopero della fame pure lei – come ci han raccontato i suoi familiari.
Ora tocca a noi – noi che scriviamo e voi che ci leggete, noi che
possiamo uscire di casa, parlare con chi ci aggrada, alzare la voce e
battere i pugni sul tavolo – dimostrare che ci siamo.)

macerie @ Luglio 13, 2013

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