Negazionismo

Negazionismo 

di Nicoletta Poidimani

Togliere il monopolio della definizione di genocidio alla Shoah, per far aprire gli occhi sui tanti genocidi – anche coloniali – passati e, soprattutto, sul genocidio in Palestina che si è intensificato ferocemente negli ultimi 2 anni, significa anche attualizzare la categoria di negazionismo.

Ricordo bene l’acceso dibattito sul negazionismo che ci fu una trentina di anni fa, ma ricordo anche che esso riguardava solo ed esclusivamente lo sterminio degli ebrei nei campi nazisti.

Un altro monopolio, dunque, che oggi occorre rompere per svariate ragioni.

In primo luogo, perché si può facilmente rilevare che la narrazione dominante dopo il 7 ottobre del 2023 ha avuto posizioni apertamente negazioniste, malgrado l’immensa documentazione video e fotografica e le tantissime testimonianze dimostrassero in modo inequivocabile ciò che stava succedendo nella striscia di Gaza e, da lì a breve, anche nei territori occupati dagli israeliani in Palestina. I tentativi di impedire ogni comunicazione con l’esterno via web e l’uccisione mirata dei giornalisti non embedded sono funzionali al negazionismo.
Questo negazionismo – non storico, ma ‘in tempo reale’ – ha permesso all’entità sionista di ampliare, col passare dei mesi, la gamma della sua sadica ferocia nei confronti della popolazione palestinese.

In secondo luogo, le vergognosamente tardive prese di posizione di gran parte degli ebrei nel mondo e quelle altrettanto tardive dei governi occidentali, nonché l’improvvisa ‘scoperta’ da parte di molti di ciò che stava veramente succedendo in Palestina da mesi e mesi, non vanno in direzione opposta a quel negazionismo ma, anzi, lo confermano: ora che il processo genocidario ha assunto una dimensione e una potenza terrificanti, i negazionisti vogliono smarcarsi da uno stigma infame che rimarrebbe per lungo tempo sulle loro vite e su quelle dei loro discendenti.

A questo proposito pubblico qui un invito che ho ricevuto e che ritengo molto utile far girare, sperando anche che nessuna/o mi invii più materiali di gruppi di veterani israeliani o gentaglia affine che pensano di lavarsi la coscienza scrivendo comunicati anziché andarsene – finalmente! – da una terra che hanno contribuito per decenni a colonizzare e ricoprire di sangue palestinese.

In terzo luogo, quello stesso negazionismo è alla base dell’inutile, ma attualmente – e non per caso – gettonatissima, volontà di riconoscimento dello stato di Palestina. Un altro modo con cui i governi occidentali sperano di smarcarsi dalle proprie complici responsabilità col genocidio della popolazione palestinese. Un modo talmente ipocrita da andare, a mio parere, di pari passo col lancio di ‘aiuti umanitari’ dal cielo, elemosine che da mesi stanno generando ulteriori morti nel tentativo disperato di sfuggire alla morte per affamamento e che ora vengono presentati dalle veline governative come grandi e importanti iniziative.

In ultimo luogo, è frutto ed espressione del negazionismo anche la persecuzione giudiziaria nei confronti di chiunque abbia cercato fattivamente di opporsi, nei paesi occidentali, al genocidio: dai/dalle militanti di Palestine Action alle/ai tanti studenti e docenti dei campus statunitensi e tanti altri/e ancora che vengono marchiati come terroristi perché hanno il coraggio di dire e fare ciò che va detto e fatto.

Per queste e per tante altre ragioni su cui non mi voglio dilungare, è necessario oggi recuperare la categoria di negazionismo, liberarla dal monopolio su cui è stata, non per caso, fondata e rilanciarla come accusa a tutta quella parte di mondo che è attiva nella ‘fabbrica del consenso’ sionista.

Concludo pubblicando l’intervista che Marwan Abdel-Al, del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, ha rilasciato al quotidiano francese «l’Humanité» alcuni giorni fa.

La cosiddetta conferenza per la soluzione dei due Stati non è tanto un’iniziativa di pace quanto il riciclaggio di un’illusione politica che la realtà ha superato. La conferenza, per formato e tempistica, assomiglia a un funerale ufficiale per una soluzione che non esiste più se non nelle dichiarazioni diplomatiche. Ciò che viene presentato oggi sotto il titolo di ‘soluzione dei due Stati’ non costituisce un progetto di liberazione, ma piuttosto una gestione permanente di una tragedia coloniale.

L’Europa, compresa la Francia, può ora teoricamente riconoscere uno Stato palestinese, ma in realtà finanzia progetti di coesistenza con l’occupazione, finanzia la guerra – che è la madre della bomba nucleare – ed evita qualsiasi misura reale contro gli insediamenti, l’assedio o la cessazione del genocidio.

I palestinesi non hanno bisogno di altre parole, ma di azioni politiche chiare: il riconoscimento di uno Stato sovrano e indipendente, la rimozione dell’occupazione e la fine delle partnership coloniali occidentali con il regime di apartheid ‘israeliano’.

La vera soluzione inizia con il cambiamento degli equilibri di potere sul terreno. Il nostro popolo vuole la fine dell’occupazione… non un’assoluzione internazionale.

La maggior parte dei palestinesi – soprattutto la nuova generazione – è arrivata a considerare questa soluzione una trappola politica. Come si può parlare di ‘due Stati’ quando ci sono progetti di annientamento, pulizia etnica, annessione ed espansione, e ci sono più di 700.000 coloni in Cisgiordania?

Dov’è lo Stato all’ombra di un muro che separa le famiglie e con attraversamenti gestiti a piacimento dai soldati dell’occupazione?

Non chiediamo un’entità simbolica sotto la sovranità ‘israeliana’; vogliamo piuttosto una vera liberazione, il diritto al ritorno e la giustizia storica.

La maggioranza dei palestinesi, in patria e nella diaspora, ha capito che si tratta di un’illusione. Come possiamo parlare di ‘due Stati’? La questione è andata oltre il riconoscimento simbolico e si è trasformata in una questione di giustizia, di diritto al ritorno e di smantellamento del sistema di apartheid.

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina è il prodotto di un’esperienza nazionale e il fondamento dell’azione nazionale palestinese, e la sua pandemia nasce da questa base.

[Qual è l’alternativa?]
L’alternativa è lo smantellamento del sistema coloniale dalle sue radici. L’alternativa non è una ricetta pronta, ma un lungo percorso liberatorio. Inizia, tuttavia, con il riconoscimento che Israele non è uno Stato ‘democratico’ ma un regime coloniale, come è accaduto in Sudafrica. Non rifiutiamo la ‘soluzione a due Stati’ perché siamo radicali, ma perché non è più praticabile.

L’alternativa è un unico Stato democratico su tutto il territorio, dove tutte le persone siano uguali senza discriminazioni religiose o etniche. O, come minimo, un quadro di liberazione che apra le porte a tutte le opzioni, lontano dalla logica della ‘pace in cambio di sottomissione’.

La Palestina oggi è uno specchio per il mondo: tra il diritto internazionale e la forza delle armi, tra la vittima e la propaganda. Stare dalla parte della Palestina è una prova di coscienza umana, non solo una posizione politica.

Non vogliamo che il sistema coloniale utilizzi la proposta di una soluzione a due Stati per sbiancare il suo passato o la sua inazione. Ciò richiede che la sinistra francese si liberi dalla pressione dei media imperialisti dominanti o dalla paura del ricatto morale. Ci aspettiamo che la sinistra recuperi il suo linguaggio radicale: che dica che quello che sta accadendo in Palestina non è un conflitto, ma colonialismo e genocidio sistematico. E che si schieri con la verità, senza una falsa equivalenza tra assassino e vittima. Non c’è neutralità di fronte al genocidio.

Non chiediamo una solidarietà emotiva, ma un impegno politico e morale. La Palestina oggi non è solo la causa di un popolo che viene massacrato, ma una questione universale in cui la nostra umanità è messa alla prova.

Se la Palestina cade, gli standard internazionali e la giustizia cadono con lei. Da Parigi a Gaza, la battaglia è una sola: contro il fascismo e il nuovo razzismo, e contro la memoria coloniale che non è ancora morta.

Fonte: Telegram @PalestineResist (6/8/2025)

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