Smart city, Città dei 15 minuti e Bene Comune
Elisabetta Teghil
All’interno della Volksgemeinschaft- la<comunità del popolo>- l’ordine sarà immanente e spontaneo […] J.Chapoutot, Nazismo e management/Liberi di obbedire, Einaudi 2021, p.28 (Gallimard, Paris 2020)
C’è un concetto che irrompe prepotentemente sullo scenario della Smart City e della Città dei 15 minuti, quello di <Bene Comune>: pericolosissimo, ambiguo, equivoco, spoliticizzato questo concetto informa il sentire dei cittadini/e ma anche di moltissimi compagni/e.
C’è stata una trasformazione evidente nella capacità di riconoscimento e di definizione delle classi sociali e dei rapporti di classe, trasformazione in questi anni sviscerata in vari modi e in maniera approfondita da intellettuali, analisti, studiosi, politici e via discorrendo. Tutti riconoscono ormai più o meno che il neoliberismo ha trasformato il significato delle parole, che ha demonizzato la così detta violenza politica con il suo portato rivoluzionario declassandola in delinquenza comune, che ha annichilito gli ambiti di reciproco riconoscimento degli esseri umani demonizzando il concetto di ideologia e consacrando quindi come unica ideologia quella imperante, che ha creato un individuo privo di riferimenti sociali che non siano quelli del consumo, del profitto, della promozione individuale, in lotta continua e prevaricante con gli altri e quindi assolutamente solo.
Di questo sono consapevoli quasi tutti/e.
Però succede che quando ci si trova sul terreno della quotidianità, delle scelte rispetto a quello che ci capita intorno, questa consapevolezza viene molto spesso meno e ci si muove come il potere vorrebbe.
E’ cominciato tutto con una sinistra più a destra della destra che si è assunta il compito di naturalizzare i principi neoliberisti nel nostro Paese e ha costruito in questa prospettiva un comune sentire perbenista e reazionario basato sui concetti di decoro urbano e “sicurezza”, “non violenza”, responsabilità individuale, colpevolizzazione, meritocrazia, coinvolgimento dei cittadini/e nelle sorti del potere, convivenza civile, “rispetto” delle opinioni altrui. E tutto questo è entrato nelle menti non solo delle persone comuni ma anche della sinistra di classe.
E così mi tocca sentire, e parlo di compagni e compagne, che la città è anche nostra, che non dobbiamo buttare le cartacce per terra, che bisogna fare la raccolta differenziata dei rifiuti perché dobbiamo pensare alle generazioni che verranno, che non dobbiamo fumare nemmeno per strada per non dare fastidio agli altri, che non dobbiamo consumare troppa acqua o troppa energia elettrica, che scrivere sui muri sì, è possibile, ma mmmm…devono esserci scritte cose serie altrimenti è imbrattamento e basta, che le macchine sono troppe, che tutti vogliono l’auto e non prendono i mezzi pubblici…
Si è persa completamente, anche a livello puramente istintivo, la lettura di classe, vale a dire che i nostri interessi e quelli del potere sono assolutamente divergenti e che fare per esempio la differenziata supporta l’economia del sistema, che dovremmo invece portare tutti i televisori dismessi e obsoleti, i PC che non si possono aggiustare, i barattoli, gli imballaggi esorbitanti e immotivati…e via discorrendo a piazza San Giovanni, simbolo di una sinistra che non esiste più e buttarli lì…
Dopo aver preparato il terreno e arato le menti, il capitalismo ha fatto una prova generale di obbedienza, di coinvolgimento, di asservimento della gente con la così detta pandemia. Ha decretato in maniera del tutto immotivata e priva di fondamento che bisognava chiudersi in casa per il bene di tutti, che non si poteva uscire né di giorno né di notte anche se non c’era nessuno, che chi non ubbidiva era un pericolo per la società tutta, che chi non si vaccinava era un pericolo pubblico, che chi non si adeguava doveva essere bandito dalla società, che si doveva avere un lasciapassare per vivere…e la stragrande maggioranza della gente, compagni/e compresi, ha ubbidito dimenticando autodeterminazione, autorganizzazione, capacità di analisi e di critica…aggrappandosi alla tutela del <Bene Comune>.E così coprifuoco, territori divisi in zone colorate, cittadini divisi in quelli di serie A e quelli di serie B. Per il bene di tutti.
Ragionare sulla trasformazione urbana in atto non deve assolutamente tirare in ballo il bene comune perché il bene comune non c’è.
La città è la configurazione dell’economia capitalista, la traduzione nello spazio che ci circonda dei rapporti di forza tra le classi sociali, degli interessi economici e di potere e quindi la trasformazione profonda degli spazi del vivere, che stanno attuando nella città e non solo, non è altro che la traduzione della nuova configurazione sociale che stanno costruendo per una nuova modalità di estrazione del plusvalore.
Facendo dimenticare gli interessi di classe, classe sfruttata che attualmente copre un vasto arco che va dagli immigrati alla piccola e media borghesia, il concetto di <Bene Comune> ha cambiato la consapevolezza della necessità di modificare il rapporto di forza con il potere in collaborazionismo, trasformando gli oppressi/e in servi/e in quel nuovo rapporto premialità-stigma-castigo che pretende di espellere i refrattari dalla società civile e che ricorda tanto il rapporto paternalistico che il patriarcato ha sempre avuto con le donne e che allo stesso tempo mi fa venire in mente il rapporto che lega il Lord inglese della tradizione con i suoi servi che si sentono parte della famiglia del padrone. Ma se la condizione di servo è dovuta alla necessità si dovrebbe sputare nella minestra…
Per questo è stato possibile quello che è successo durante la così detta pandemia. Eravamo tutti nella stessa barca? O no?
Così sarà possibile costruire le smart city e le città dei 15 minuti.
Così sarà possibile riproporre lo stesso meccanismo nella guerra che verrà.
Faremo quadrato come vuole il potere contro il nemico? O saremo disertori?
Mi è capitato di leggere un libro “La città femminista/la lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini”.[1] L’autrice è canadese, il libro è stato tradotto in italiano per le edizioni Treccani e incarna assolutamente la mistificazione in atto rispetto al tema della città. Succede che si parta da concetti assolutamente veri, condivisibili e politici come
“«Ogni insediamento è un’iscrizione nello spazio delle relazioni sociali all’interno della società che lo ha costruito… Le nostre città sono l’iscrizione in pietra, mattoni, vetro e cemento del patriarcato»
poi si percorrano le difficoltà che le donne hanno incontrato storicamente e incontrano ora sotto gli aspetti più svariati in una città progettata da uomini per uomini e poi si piombi in affermazioni, suggerimenti e progettualità tutte funzionali alla <Città dei 15 minuti> e alla nuova configurazione urbana che sta confezionando per noi il capitale facendo oltre tutto riferimento alle femministe degli anni settanta
“che sostenevano che il lavoro domestico e l’accudimento dei bambini dovessero essere socializzati e incorporati nella nuova organizzazione dello spazio in modo da facilitare l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, l’uguaglianza con gli uomini e lo sviluppo intellettuale.
La concezione di una “città non sessista” pone spesso l’accento sulla questione abitativa, evidenziando come la casa destinata a un solo nucleo familiare sia davvero inefficiente per la condivisione del lavoro e tenga le donne vincolate lasciando loro poco tempo o energia per altre attività.”
oppure
Questo è lo spazio da cui scrivo. È lo spazio in cui devo chiedermi: “Perché non posso salire sul tram con il passeggino?”, “Perché sono costretta a percorrere mezzo miglio in più per tornare a casa visto che prendere la scorciatoia è troppo pericoloso?”; “Chi andrà a prendere mio figlio al campo scuola se mi arrestano durante una protesta al G20?”. Queste non sono solo domande personali, ma vanno dritte al cuore della questione, ovvero perché e come le città tengono le donne “al loro posto”.
E L’architetta e neo-mamma Christine Murray chiede: «Come sarebbero le città se fossero progettate da madri?»
Questo modo di procedere è assolutamente funzionale al potere perché pur partendo da affermazioni e analisi condivisibili spinge e auspica soluzioni collaborazioniste. Sembra di leggere pari pari il piano del traffico del 2015 del Comune di Roma su cui si basa poi l’impianto della Citta dei 15 minuti e la Smart City
[…] Il tutto con un passaggio graduale da una logica prettamente di controllo e repressione a una che premia e incentiva i comportamenti virtuosi che guardano alla collettività. Quindi car e bike sharing, mobility management, trasporto pubblico, sosta tariffata, isole ambientali, open data e tecnologia per aiutare le scelte dei cittadini.
L’obiettivo è quello di realizzare una città con un trasporto pubblico più efficiente e più competitivo rispetto all’autovettura, dove spostarsi a piedi e in bicicletta, camminare sulle strade e nei quartieri sia conveniente e sicuro; una mobilità multimodale e a basso impatto, inclusiva e aperta all’innovazione tecnologica. […]
[…]ad incentivare gli spostamenti a piedi, anche sistematici, e incoraggiare la mobilità attiva anche per la sua valenza sociale e per il miglioramento della salute del Cittadino • a tutelare e proteggere la mobilità degli utenti deboli, tra cui le donne per le quali, in ambito europeo, sono state proposte alcune misure/provvedimenti che possono sicuramente essere adottati nella organizzazione tecnicofunzionale delle isole ambientali. Per quel che riguarda quest’ultimo punto le misure più interessanti riguardano il trasporto pubblico. Le donne utilizzano maggiormente il trasporto pubblico e più frequentemente si spostano a piedi; la messa a punto di sentieri dedicati e di attraversamenti sicuri costituisce un ottimo punto di partenza per creare maggiori condizioni di sicurezza negli spostamenti effettuati dalle donne. Il progetto delle fermate del trasporto pubblico deve essere commisurato alle esigenze di genere, tenendo conto che le donne spesso si spostano a piedi con carichi ingombranti (e.g. buste delle spese, bambini in carrozzina). L’accesso ai bus deve essere facilitato al massimo prevedendo l’eliminazione, per quanto possibile, di eventuali dislivelli nelle aree di accesso ai veicoli (i marciapiedi delle fermate devono essere portati a raso con il piano di calpestio dei veicoli. […][2]
L’idea inculcata nelle menti che il <Bene Comune> appartiene ad una collettività che invece non esiste porta ad una percezione completamente stravolta anche di un altro meccanismo che sta costituendo da tempo uno strumento cardine della trasformazione urbana, quello della gentrificazione. Con una definizione molto indovinata, alcuni compagni di Torino hanno parlato di Grande Gentrificazione e di Piccola Gentrificazione. La grande gentrificazione è quella che viene studiata da tempo in svariati ambiti ed è di facile evidenza. Si riferisce a una serie di interventi, dall’Expo di Milano alle Olimpiadi a Parigi, che hanno avuto la capacità di trasformare il valore economico di intere aree urbane, di ridisegnare la città, di espellere gli abitanti di interi quartieri in brevissimo tempo. E in cui gli interessi del capitale sono di facile lettura. La piccola gentrificazione è molto più subdola perché fa leva appunto sul concetto di Bene Comune e cerca il coinvolgimento della cittadinanza per far sì che siano gli stessi abitanti ad essere motore della trasformazione dei loro spazi e della loro vita attraverso il collaborazionismo. Così vengono programmati interventi che prevedono la riqualificazione dei quartieri periferici con lo sgombero di edifici occupati da anni, occupazioni di tipo abitativo o sociale, con la ristrutturazione di questi edifici coinvolgendo le realtà di quartiere e consegnando i suddetti immobili alla speculazione privata che “migliorerà” la qualità dei quartieri stessi risollevandoli dalla condizione di “periferia degradata”. Degli esempi per capire: lo studentato di lusso a Roma, a Portonaccio, nei pressi dell’area dello Spazio autogestito Strike, i nuovi laboratori dell’università di Tor Vergata sempre a Roma, al Laurentino 38, dove è sotto minaccia di sgombero il Laurentinokkupato L38SQUAT….a Torino, l’immobile in corso Giulio Cesare 34, occupato per molti anni e sgomberato in epoca pandemica e che oggi Compagnia di San Paolo, Terzo Settore e Comune vogliono mettere a reddito per il Bene del quartiere.
A Torino infatti il Comune ha istituito da qualche anno <La Consulta dei Beni Comuni> e a Roma con il pretesto del Giubileo il Comune ha creato <Roma Smart City Lab> proprio per un rapporto collaborazionista con tutte le realtà di quartiere che si presteranno.
Ma il concetto di <Bene Comune>entra in ogni anfratto del nostro vivere e stravolge anche il rapporto con il territorio. Parliamo, tanto per fare un esempio, di Mondeggi Bene Comune, un’esperienza nella campagna toscana che si definisce Fattoria senza padroni, comunitaria, diffusa e unitaria. Ma se questa fattoria senza padroni accetta, come recentemente ha fatto, di collaborare a un maxi-progetto di riqualificazione urbana voluto dalla Città Metropolitana di Firenze e finanziato con oltre 50 milioni di euro del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che prevede digitalizzazione dell’agricoltura e campi sperimentali, beh! forse non è più senza padroni. Potete leggere un approfondimento sul tema in un interessante e documentato articolo su Ilrovescio.info.[3]
E nel contesto del collaborazionismo cittadino il concetto di Bene Comune deborda in maniera veramente tragica nell’ambito della così detta sicurezza.
Telecamere intelligenti ovunque, IA, controllo predittivo e preventivo, militarizzazione, zone rosse, ticket di accesso… tutto avviene con la strumentalizzazione di inquinamento e terrorismo(!), piazze di spaccio, violenza sulle donne e sulle diversità sessuali…e l’associazionismo di quartiere, i comitati di quartiere e la così detta <cittadinanza attiva> svolgeranno un ruolo fondamentale. E quale sarà il ruolo delle strutture alternative e antagoniste?
Il Bene Comune è sicuramente altro, è prima di tutto smontare le narrazioni tossiche del potere sull’invivibilità delle città di cui è l’unico responsabile, è riappropriarsi degli spazi e dei tempi negati, boicottare, disertare e sabotare, non collaborare mai.
[1] Leslie Kern, La città femminista, Treccani libri, 2021(2010) p.17,45,12,37
[2] Roma Capitale, Assessorato Trasporti e Mobilità, Piano Generale del traffico urbano di Roma capitale/Le isole ambientali, 16 aprile 2015, pag.97 e seguenti
[3] https://ilrovescio.info/2025/05/09/locchio-del-nemico-su-mondeggi-bene-comune-e-lagri-tech-dal-basso/