La città punitiva

La città punitiva

da osservatoriorepressione

Panchine anti-bivacco, dissuasori lungo i marciapiedi, luci al Led nei centri commerciali per scoraggiare gli adolescenti: l’architettura ostile, in nome del decoro, ridisegna le città reprimendo i comportamenti e scoraggiando chi non consuma a vantaggio delle élite privilegiate

di Tommaso Gori da Jacobin

Hai mai notato come alcune panchine abbiano i braccioli posizionati al centro o come i marciapiedi davanti ai negozi siano dotati di punte metalliche? Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, elementi di questo genere non hanno una funzione decorativa e i braccioli non sono pensati per offrire maggiore comfort. Questi dettagli urbani sono il risultato di precise scelte progettuali riconducibili a quella che viene definita «architettura ostile».

I dissuasori a punta lungo i marciapiedi, gli spuntoni incastonati nei portoni, le panchine anti-bivacco progettate per impedire alle persone – spesso senza fissa dimora – di riposare negli spazi pubblici, persino le fioriere disposte in file ordinate davanti ai negozi. Tutti questi stratagemmi compongono l’’architettura ostile,  impossibile da ignorare una volta che la si nota.

Uscendo dalla stazione di Roma Termini, saltano subito all’occhio le nuove panchine anti-bivacco collocate in piazza dei Cinquecento. L’intervento, realizzato da FS Sistemi Urbani con fondi destinati al Giubileo, è stato ufficialmente inaugurato il 14 gennaio 2025 dal sindaco di Roma, Roberto Gualtieri. FS Sistemi Urbani è la principale società incaricata della «valorizzazione» del patrimonio immobiliare ferroviario dismesso in Italia. Pur essendo formalmente privata, opera con fondi pubblici e, invece di destinare questi spazi a progetti di utilità sociale, li inserisce nel mercato immobiliare seguendo logiche speculative.

Tra gli interventi effettuati da FS Sistemi Urbani, spicca l’installazione di nuove panchine in marmo, sulle quali sono stati montati divisori in ferro per impedire alle persone senza fissa dimora di riposare nell’area. È sempre più evidente che siamo benvenuti negli spazi pubblici solo se ci muoviamo in fretta e spendiamo soldi. Il risultato è quello di città più frenetiche in cui vengono meno i momenti per la riflessione collettiva o per gli stessi incontri casuali.

Pericolo adolescenti

La progettazione dello spazio urbano influenza profondamente il nostro stato d’animo e il modo in cui ci rapportiamo con gli altri. Negli ultimi anni, ad esempio, i centri commerciali hanno installato luci a Led rosa con l’obiettivo di scoraggiare la presenza degli adolescenti. Questo sistema di illuminazione ostile, infatti, accentua le imperfezioni della pelle, come acne e arrossamenti, creando un ambiente meno accogliente e, talvolta, imbarazzante per i ragazzi. Parliamo di interventi urbani che mirano a prevenire schiamazzi, vandalismi o assembramenti rumorosi, allontanando gruppi specifici di persone attraverso soluzioni apparentemente innocue.

Sempre più spesso lo spazio pubblico, che è di tutti e tutte, viene appaltato allo spazio di consumo, quello dei privati. In questa svendita illecita favorita dalle amministrazioni comunali di ogni colore politico a non essere trascurati sono i criteri economici, con la progettazione di giganteschi outlet nelle periferie urbane, ed estetici, con la museificazione dei centri storici. Progetti concepiti per soddisfare le esigenze di profitto di sviluppatori e investitori, con l’obiettivo di attrarre turisti e consumatori, spesso a discapito del benessere sociale dei cittadini. Ma uno spazio pubblico, una piazza, può davvero dirsi «di tutti» se allontana ed esclude le diversità che la abitano? E da dove nasce il bisogno di adottare l’arte dell’architettura per escludere dalle città le persone più vulnerabili?

Negli anni Novanta, in Italia, il tema del decoro urbano è emerso come una questione centrale nel dibattito sulla sicurezza pubblica. In teoria, il decoro avrebbe dovuto conciliare la tutela del territorio con interventi di riqualificazione urbana, rispondendo al crescente senso di paura e insicurezza sociale. Tuttavia, anziché promuovere misure di utilità pubblica, si è trasformato in un insieme di politiche punitive, guidate e legittimate dalla paura stessa che dichiaravano di voler contrastare. Ne è un esempio l’uso di fondi pubblici  per la riqualificazione di Roma Termini in vista del Giubileo, giustificata dal bisogno di ripristinare il decoro, ma attuata attraverso interventi che, anziché tutelare le persone senza fissa dimora, le hanno semplicemente allontanate, trasferendo il problema altrove senza risolverlo.

Finestre rotte

Si è giunti a riconsiderare le politiche urbane sulla base di una tesi molto gettonata nella letteratura sociologica del tempo: la «teoria delle finestre rotte». Elaborata nel 1982 dai sociologi James Q. Wilson e George Kelling, la teoria suggerisce che il senso di insicurezza urbana non dipende dal rischio di esposizione a eventi criminali, ma piuttosto da percezioni di disordine, caos e degrado. Se ne deduce che quando i cittadini vedono una finestra rotta che non viene riparata, o un senzatetto sdraiato su una panchina, si abituano a un’idea di degrado, di disinteresse e mancanza di regole, favorendo così l’aumento delle attività criminali.

Da questa teoria sono state partorite le politiche più perverse in tema di sicurezza urbana, come l’allontanamento dei senza fissa dimora, l’overpolicing di aree considerate in stato di degrado e il racial profiling di comunità non biancheIl caso zero venne partorito nel 1994 dal sindaco di New York, Rudolph Giuliani, sotto il nome di Tolleranza Zero. Questo tipo di politiche, sulle quali Giuliani basò la sua campagna elettorale, prevedevano un incremento esponenziale delle forze di polizia col fine di contrastare non solo la microcriminalità (per la quale erano state previste pene molto più severe) ma anche le persone considerate lesive per la sicurezza pubblica quali i senza fissa dimora, le comunità non bianche, lavavetri, graffitari, bande giovanili e simili.

La tolleranza zero diventa così il modus operandi da esportare in tutta Europa, trasformando lo spazio pubblico da luogo di aggregazione democratica a luogo di esclusione sociale. In Italia, uno dei casi più eclatanti avvenne nel novembre del 2009 quando il neo-eletto sindaco del Partito democratico, Matteo Renzi, emanò «mendicità e decoro», il decreto che proponeva di allontanare dal centro storico di Firenze le persone accusate di praticare una «mendicità invasiva».

Queste tipologie di decreti sono estremamente punitive: la polizia, con i cosiddetti Daspo urbani, può allontanare le persone senza fissa dimora, se ritiene che siano in grado di causare un disturbo. Comincia una vera e propria guerra ai poveri, che con il fine di evitare «la perdita del senso di sicurezza individuale» vieta la mendicità all’interno dei centri storici e nei luoghi pubblici. Ed è qui che l’architettura ostile diventa la testimonianza materiale, la prova inconfutabile di politiche classiste giustificate dalla cultura del decoro urbano, un promemoria in acciaio e cemento per dirti che non seibenvenuto o benvenuta

Come se non fosse già abbastanza pericoloso o traumatico dormire per strada, oltre al rischio della punizione, l’architettura è progettata per costringerti ad andartene. Si cominciano a installare i primi sistemi di videosorveglianza, le prime panchine anti-bivacco, i primi sistemi di illuminazione ostile, le recinzioni e i cancelli intorno alle aree pubbliche. D’altronde, la logica dietro la riqualificazione di Roma Termini conferma che la città decorosa è quella in cui miseria e marginalità non sono problemi da risolvere, bensì realtà da nascondere.

Uno studio di Jacobin negli Stati uniti dimostra che le città spendono di più per criminalizzare i senzatetto (attraverso operazioni di sgombero, sanzioni e architettura ostile) che per offrire alloggi di supporto. Questo evidenzia come la logica perversa che giustifica l’architettura ostile abbia un costo economico e sociale altissimo. È infatti evidente come dietro una panchina anti-bivacco risieda un’ideologia precisa di città – la città punitiva – la quale continua a far leva sul decoro per riproporre e accentuare le differenze di classe. D’altronde apparire decorosi è una prescrizione che i ricchi danno ai poveri, diventando l’ennesimo pretesto della classe media per punire i comportamenti di coloro che non sono integrati nel sistema.

Basta uscire da Roma Termini per accorgersi che, mentre le piazze pubbliche vengono spesso promosse come spazi inclusivi per la comunità, molte di esse sono progettate con panchine anti-bivacco e cartelli che vietano attività considerate «indecorose», come i picnic fuori dalle aree designate. Nel frattempo, chi può permettersi un brunch da venti euro al bar della stazione ha a disposizione tavolini comodi, ombrelloni e tutto il tempo per rilassarsi. È decoroso bere dello champagne a pagamento in un ristorante, ma non lo è portarsi una birra da casa e stendersi su una panchina pubblica per riposarsi.

Bordi spigolosi, panchine inclinate e altre barriere progettate per scoraggiare chi non consuma trasformano i diritti di accesso allo spazio pubblico in privilegi riservati a chi può permettersi di spendere. Mentre le élite si incontrano a porte chiuse in sfarzose ville delimitate da cancelli di ferro e videocamere di sicurezza, la panchina di marmo anti-bivacco appare il simbolo di una società in guerra con sé stessa.

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