Un articolo estremamente interessante e utile
Daspo prefettizio “in bianco” e “zone rosse”: prove generali di distopie sicuritarie
di Federica Borlizzi osservatoriorepressione.info
Introduzione
Il 17 dicembre 2024, il Ministro dell’Interno Piantedosi ha emanato una Direttiva, rubricata “iniziative di prevenzione e sicurezza urbana”, in cui si chiede ai Prefetti di istituire delle c.d. “zone rosse” nelle città, al fine di evitare la presenza di persone indesiderate nei luoghi pubblici.
La Direttiva evidenzia la necessità di accrescere “tanto la sicurezza reale quanto quella percepita” contrastando l’insorgere di comportamenti che, “anche quando non costituiscono violazioni di legge”, sono di “ostacolo al pieno godimento [da parte della cittadinanza] di determinate aree pubbliche” (sic!).
Per raggiungere tale fine, il provvedimento ricorda l’arsenale di strumenti messi a disposizione dei Sindaci e delle Autorità di pubblica sicurezza: a cominciare dal c.d. Daspo urbano; passando per le ordinanze sindacali ex art. 50 TUEL fino alle ordinanze prefettizie ex art.2 del TULPS.
Proprio queste ultime sono oggetto di una specifica richiesta di applicazione da parte del Viminale, che sollecita i Prefetti ad emanare dei provvedimenti per disporre l’allontanamento dalle aree “sensibili” (es. infrastrutture ferroviarie; luoghi della movida e turistici) di soggetti che possano rappresentare un pericolo per “l’ordinato vivere civile”, sulla scia di quanto già verificatosi – ad ottobre 2024 – nel contesto bolognese e fiorentino.
Rispondendo in maniera tempestiva a tale monito, i Prefetti di alcune metropoli (Milano, Napoli, Roma) hanno emanato delle ordinanze che, a livello giornalistico, sono state fatte passare come limitate alla notte di Capodanno ma che, in realtà, hanno un’applicazione temporale molto più estesa, avendo una efficacia trimestrale.
Il sentore, insomma, è che si stia attuando una ulteriore ed ennesima strategia securitaria nelle nostre città, consentendo alle autorità prefettizie di riesumare dei sempreverdi “residui assolutistici” (le ordinanze ex art. 2 TULPS) funzionali a rendere i luoghi pubblici inaccessibili a determinate tipologie di soggetti, selezionati sulla base di vere e proprie presunzioni di pericolosità impregnate di razzismo e classismo.
In questa prima parte proveremo ad analizzare: (i) il potere di ordinanza prefettizio previsto dall’art.2 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza; (ii) i precedenti utilizzi di tali ordinanze da parte dei Prefetti per limitare il diritto di riunione. In un secondo momento, verranno approfonditi i provvedimenti adottati da parte delle autorità prefettizie per la tutela della “sicurezza urbana”, anche in seguito alla Direttiva sulle “zone rosse” del Ministro Piantedosi.
L’art.2 del TULPS: un pericoloso “residuo assolutistico”
La Direttiva sulle “zone rosse” del Ministro Piantedosi richiede ai Prefetti di utilizzare un potere di ordinanza previsto in una legge di epoca fascista, ancora in vigore nel nostro ordinamento: il Regio Decreto n.773 del 18 giugno 1931, più comunemente conosciuto come Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS).
In particolare, l’art.2 del TULPS prevede che “il Prefetto, nel caso di urgenza o per grave necessità pubblica, ha facoltà di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica”.
Si tratta di una disposizione dichiarata, più di sessant’anni fa, parzialmente incostituzionale nella parte in cui “attribuisce ai Prefetti il potere di emettere ordinanze senza il rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico” (Corte costituzionale, sentenza n.26/1961). Infatti, i provvedimenti ex art.2 del TULPS sono stati considerate come “ordinanze libere”, tipiche di ordinamenti giuridici di stampo autoritario, attribuenti un potere indeterminato ai prefetti in grado di travolgere le garanzie sancite dalla Costituzione a tutela delle libertà fondamentali. Dunque, l’incostituzionalità dovrebbe riguardare, prima che i singoli atti emanati sulla base dell’art.2, il potere stesso su cui essi si fondano, che appare declinarsi come una vera e propria potestà assoluta. Non a caso, è stato evidenziato come questa disposizione del TULPS debba ritenersi “un residuo assolutistico, contrario alla natura stessa dello stato di diritto che non ammette l’esistenza di provvedimenti amministrativi non «tipici» né di «pieni poteri» non disciplinati dalla legge” (L. Ferrajoli, 2000). Sarebbe stato, dunque, auspicabile maggior coraggio da parte della Corte costituzionale nell’espungere del tutto dall’ordinamento una disposizione che lascia intatto nel nostro ordinamento un potere autocratico, figlio di epoche passate.
Infatti, nonostante la dichiarazione di parziale incostituzionalità ed il monito della Consulta di modificare tale disposizione per renderla conforme ai canoni del nostro sistema costituzionale, l’art.2 del TULPS è rimasto inalterato e l’illegittimo potere di ordinanza prefettizia continua ad essere, ciclicamente, utilizzato per comprimere i diritti fondamentali.
A nulla, peraltro, sembrano essere serviti i tentativi della giurisprudenza amministrativa di stabilire le “condizioni d’uso” di tale potere. Quest’ultima ha più volte evidenziato (si veda, Consiglio di Stato, sentenza n.4705/2016) come: (i) l’utilizzo di questi strumenti extra ordinem postula la sussistenza di un pericolo concreto che impone di provvedere in via d’urgenza per fronteggiare situazioni di natura emergenziale ed imprevedibile; (ii) il provvedimento, oltre a dover riflettere i canoni di proporzionalità, deve essere connotato dalla necessaria provvisorietà e temporaneità dei suoi effetti, non essendo possibile adottare ordinanze contingibili ed urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti; (iii) il potere di ordinanza presuppone necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da una istruttoria adeguata e da una congrua motivazione.
Tali limiti di utilizzo sono stati apertamente violati dalle autorità prefettizie. Infatti, la prassi ci consegna la presenza di ordinanze emanate, anche dietro esplicita richiesta del Governo di turno, per limitare -in maniera illegittima- diritti costituzionalmente garantiti: dalla libertà di riunione a quella di circolazione di determinate categorie di soggetti. Provvedimenti che, dietro i fumosi presupposti dell’“urgenza” e della “tutela dell’ordine pubblico” hanno, in alcuni casi, assunto un carattere “permanente”, comportando delle arbitrarie applicazioni che hanno palesemente violato i principi costituzionali, con conseguente lesione dei diritti fondamentali delle persone destinatarie di tali misure.
Nel proseguo del contributo daremo atto delle conseguenze di tale potere prefettizio. Ma risulta essenziale evidenziare sin d’ora come la presenza nel nostro ordinamento di questi “residui assolutistici” appare inaccettabile e pericolosissima, soprattutto in tempi di degenerazioni autoritarie e derive illiberali.
L’art.2 del TULPS e l’istituzione di una “zona rossa” permanente in Val Susa
Un campo di applicazione privilegiato delle ordinanze prefettizie previste dall’art.2 del TULPS è tradizionalmente[1] quello riguardante il diritto di riunione e, più in generale, di dissenso.
Anche in questo caso, si è assistito ad interventi di soft law emanati dal Viminale per sollecitare i Prefetti ad utilizzare tali strumenti. Celeberrima è stata la Direttiva del Ministro Maroni del 26 gennaio 2009 che, prendendo esempio da un provvedimento analogo di Scelba del 1950, invitava le autorità prefettizie ad utilizzare il potere di ordinanza per sottrarre, in via preliminare, alcune “aree sensibili” delle città alle manifestazioni di protesta.
Nei fatti, la Direttiva richiedeva ai Prefetti di utilizzare in maniera illegittima il potere di ordinanza attribuitogli dal controverso art.2 del TULPS. Infatti, invitando le autorità prefettizie a stabilire dei divieti preventivi e generali si giungeva ad una indebita compressione della libertà di manifestare, che -in base all’art.17 della Costituzione- può essere limitata solo nel caso in cui ricorrano, in concreto, “comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”.
La Direttiva Maroni ha comportato lo sdoganamento, in epoca recente, dell’utilizzo dell’ordinanza prefettizia per limitare la libertà di manifestare.
Non a caso, la recente prassi ci consegna il diffuso utilizzo da parte dei Prefetti di tale potere, con il chiaro intento di criminalizzare e silenziare alcune specifiche lotte sociali.
Paradigmatico è quanto accaduto col Movimento NO TAV: tramite il potere di ordinanza prefettizio si è assistito ad una vera e propria militarizzazione del territorio della Val Susa, con l’istituzione di una permanente “zona rossa”. Infatti, il Prefetto di Torino, con il fine di fronteggiare le proteste di tale movimento, ha adottato – dal 22 giugno 2011 in poi – una serie di ordinanze finalizzate ad assegnare alla disponibilità delle forze di polizia l’area adiacente il cantiere dove si svolgono i relativi lavori per l’alta velocità, interdicendo a chiunque l’accesso e lo stazionamento nonché vietando la circolazione nelle zone limitrofe.
Il provvedimento è stato reiterato, con contenuto analogo negli anni successivi (ad esempio nel 2015; nel 2016; nel luglio 2018 e nel settembre 2018; nel marzo 2019) e, in totale, si contano 49 ordinanze dal 2011 al 2022. Già questo evidenzia la chiara violazione dei fumosi presupposti di attivazione del potere di ordinanza che richiederebbero l’esistenza di casi di “urgenza o di grave necessità pubblica”. Invece, proprio la concatenazione di tali provvedimenti da parte della Prefettura di Torino ha prodotto chiaramente “un superamento ed una violazione dell’orizzonte della temporaneità insito nella logica emergenziale e sua ragione giustificativa, dando luogo ad un ossimoro: la stabilizzazione dell’emergenza” (Algostino, 2019).
D’altronde, le diverse ordinanze pongono a fondamento del divieto di riunione e di circolazione nella “zona rossa” della Val Susa la presenza dell’attivismo da parte del Movimento NO TAV, dando luogo ad una presunzione di pericolosità delle stesse per l’ordine e la sicurezza. Nell’ordinanza prefettizia del luglio 2018, si afferma che tali limitazioni del diritto di riunione e di circolazione si rendono necessarie per “evitare azioni di disturbo e forme di contestazione”, evidenziando come sia possibile “prevedere” problematiche per l’ordine pubblico in considerazione di quanto accaduto in precedenti manifestazioni, “specie quando fortemente partecipate”.
Addirittura nell’ordinanza prefettizia del marzo 2019 si arriva a giustificarne l’adozione, affermando come le iniziative del Movimento No Tav (quali “apericene” o “cene”), anche se “non caratterizzate da profili critici per l’ordine o la sicurezza pubblica, sono sempre finalizzate a determinare pressioni sull’apparato di vigilanza dell’area di interesse strategico nazionale, oltre che a tenere visibile la presenza concreta dell’attivismo territoriale”. In questo caso, l’ordinanza trova la sua ragione giustificativa non nella necessità di fronteggiare eventuali e presunti “pericoli” per la sicurezza ma nell’affermato fine di invisibilizzare la protesta contro la TAV.
Appare evidente, dunque, come in Val Susa si stia assistendo ad un abuso, con fini chiaramente politici, delle ordinanze prefettizie: attraverso la realizzazione di una “zona rossa” permanente si inibisce la libertà di circolazione e, di conseguenza, di riunione, con l’obiettivo di neutralizzare un movimento di protesta.
Le tensioni con i principi costituzionali sono lampanti. Infatti, stabilendo attraverso un mero atto amministrativo una indebita limitazione del diritto di circolazione, questi provvedimenti violano la riserva di legge “rinforzata” prevista dall’art.16 della Costituzione che espressamente richiede come tali restrizioni possano essere stabilite solo “dalla legge, in via generale, per motivi di sanità o di sicurezza”. Inoltre, considerando che le limitazioni della libertà di circolazione sono esplicitamente poste per evitare le “azioni di disturbo” del movimento NO TAV, è palese il loro essere strumentali ad impedire la libertà di riunione, comportando un uso “per ragioni politiche” di tale divieto esplicitamente censurato dall’art.16 della Costituzione[2] e dei divieti preventivi e generalizzati al diritto di manifestare, in chiara violazione dell’art.17 della Costituzione.
Insomma, parafrasando Bricola (1977), possiamo dire che attraverso l’illimitato potere di ordinanza concesso dall’art.2 del TULPS ai Prefetti si giunge ad una vera e propria “manipolazione amministrativa delle norme”, producendo forme di “illegalità ufficiale” in grado di sovvertire il nostro sistema democratico. Infatti, ciò che è precluso allo stesso legislatore, in base ai nostri principi costituzionali, viene paradossalmente attuato dalle autorità prefettizie, spesso dietro esplicita richiesta del potere esecutivo.
Ovviamente, una volta che si è sperimentata la possibilità di praticare, impunemente, una limitazione prefettizia della libertà di manifestare, l’utilizzo di tali illegittimi strumenti si è espansa anche in altri ambiti, travolgendo ulteriori diritti fondamentali.
Quanto accaduto in materia di “sicurezza urbana” delle nostre città ne è l’esempio lampante.
L’art.2 del TULPS, il Daspo prefettizio “in bianco” e le “zone rosse” di Salvini
Le ordinanze prefettizie previste dall’art.2 del TULPS hanno trovato, da alcuni anni, un altro inedito campo di applicazione, ossia quello della “sicurezza urbana”.
Questo nuovo ambito è strettamente collegato ai nuovi strumenti messi a disposizione dal legislatore per tutelare il “decoro” delle nostre città e, in particolare, all’introduzione nel nostro ordinamento di una misura mutuata dal contesto calcistico: il c.d. Daspo urbano (art.9, 10, 13 e 13 bis del d.l. n.14/2017, decreto legge sulla “sicurezza” dell’allora Ministro dell’Interno, Minniti).
Non possiamo, in questa sede, soffermarci sulle molteplici forme[1] in cui si è declinata questa misura di prevenzione atipica, ma risulta importante evidenziare come si tratti di provvedimenti che comportano delle forti limitazioni della libertà di circolazione di determinate categorie di soggetti, selezionati non tanto sulla base della loro effettiva “pericolosità” per la sicurezza pubblica ma sull’essere considerati elementi di disturbo per il “decoro” delle città.
Emblematica, a riguardo, è la misura del c.d. “mini-Daspo” (ex artt.9 e 10, c.1, del d.l. n.14/2017), con cui si consente alle forze di polizia di emettere una sanzione amministrativa pecuniaria ed un contestuale ordine di allontanamento di 48h nei riguardi di coloro che, in determinate aree della città, compiano una serie di comportamenti ritenuti, per l’appunto, a nocumento del “decoro urbano”, ossia coloro che: impediscano l’accesso o la fruizione delle infrastrutture ferroviarie o di trasporto pubblico, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione previsti (ex art.9, comma 1 del d.l. n.14/2017); (ii) esercitino, in tali aree, attività di commercio o parcheggio abusivo; siano colti in stato di ubriachezza; compiano atti contrari alla pubblica decenza; esercitino attività di bagarinaggio (ex art.9, comma 2, del d.l. n.14/2017). Inoltre, l’art.9, comma 3, del d.l. n.14/2017 consente ai regolamenti di polizia urbana delle singole città di individuare ulteriori zone, tassativamente indicate da tale disposizione (es. scuole; università; complessi monumentali; presidi sanitari, aree interessate da flussi turistici), in cui estendere l’applicazione del mini-Daspo in presenza delle suddette condotte.
Il mini-Daspo è stato definito come una misura di prevenzione “atipica” ma, in realtà, è adottato in assenza di qualsivoglia valutazione sull’effettiva “pericolosità”, discendendo automaticamente dalla commissione di condotte che, al più, costituiscono meri illeciti amministrativi. Per tali provvedimenti si giunge, dunque, a vanificare il difficile ed insoddisfacente iter di adeguamento ai canoni costituzionali che ha riguardato le misure di prevenzione “tipiche”, che hanno come imprescindibile presupposto applicativo una verifica della pericolosità, in concreto, della condotta per la sicurezza pubblica. Si tratta di un presupposto strettamente connesso alla natura e alla funzione di tali misure: se non vi è pericolosità, non vi è nulla da prevenire e, di conseguenza, non potrebbero trovare applicazione tali strumenti. Con l’introduzione dell’inedita misura del mini-Daspo, invece, si legittima nel nostro ordinamento la presenza di una prevenzione “senza pericolosità”, che dà adito ad abusi e violazione dei diritti fondamentali dei soggetti colpiti da tali provvedimenti.
Non a caso, l’ordine di allontanamento si rivela una misura ferocemente classista e razzista, utilizzata contro i marginali dei nostri territori: senza dimora, mendicanti, venditori ambulanti, sex workers. Uomini e donne che – in assenza di condotte offensive – sono destinatari di provvedimenti limitativi della loro libertà di circolazione, finalizzati ad espellerli dai centri storici delle nostre “città vetrina”, disegnate ad uso e consumo dei turisti e dei cittadini “perbene” (Pitch, 2013).
Nelle nostre metropoli, abbiamo assistito al proliferare di “zone anti-degrado”, con una rapida estensione, da parte dei diversi regolamenti di polizia urbana, delle aree in cui poter applicare lo strumento del mini-Daspo. E, proprio laddove i consigli comunali non hanno accolto con tempestività questa possibilità, sono arrivati i Prefetti a imporre, d’imperio, l’utilizzo di questa misura.
Infatti, le ordinanze prefettizie previste dall’art.2 del TULPS assumono una estrema rilevanza proprio in materia di ordine di allontanamento per un’illegittima prassi che si è realizzata tra il 2018 e il 2019 e che appare precorritrice della recente Direttiva sulle “zone rosse”.
Ad inaugurare questa deriva è una figura nota, Matteo Piantedosi, che nel dicembre 2017, in qualità di Prefetto di Bologna decide, nei fatti, di esautorare il consiglio comunale bolognese, adottando un’ordinanza (poi reiterata nel maggio e nel dicembre 2018) che, fondando la ragione di “urgenza” nella necessità di tutelare alcune aree del centro storico nelle more dell’approvazione del nuovo regolamento di polizia urbana, estende a dismisura l’ambito di applicazione dell’ordine di allontanamento, dando vita ad un inedito e controverso Daspo prefettizio “in bianco”.
L’ordinanza dispone un divieto di stazionamento della durata di 6 mesi nei confronti di coloro che “impediscano l’accessibilità e la fruizione” di alcune zone del centro storico di Bologna con “comportamenti ritenuti incompatibili con la vocazione e la destinazione” di tali aree. Con una evidente presunzione di pericolosità, l’ordinanza continua affermando come saranno “ritenuti responsabili di tali comportamenti” : (i) i soggetti denunciati per reati in materia di stupefacenti; per reati contro la persona; per il reato di danneggiamento dei beni commessi nelle indicate “zone sensibili”; (ii) i destinatari di contestazioni per violazione della normativa che disciplina l’esercizio del commercio su aree pubbliche; (iii) chiunque, addirittura, sia identificato in compagnia di uno dei soggetti destinatari delle denunce o delle contestazionisuddette. Infine, si prevede l’ordine di allontanamento dei trasgressori dalle aree indicate, precisando come la violazione di quanto disposto dall’ordinanza potrà rilevare anche sotto il profilo penale (ex art.650 c.p. e 17 TULPS)
Tale provvedimento prefettizio fa scuola e, ad esso, segue una ordinanza di identico contenuto del Prefetto di Firenze, del 9 aprile 2019.
Dunque, le ordinanze prefettizie in questione giungono ad ampliare le categorie soggettive cui applicare il mini-Daspo, oltrepassando gli stessi limiti dettati dalla normativa di riferimento (art.9, del d.l. n.14/2017), che, peraltro, consente ai regolamenti di polizia urbana solo di estendere le “aree” (non le “condotte”) in cui utilizzare l’ordine di allontanamento. Invece, con tali provvedimenti si arriva a prevedere una presunzione di incompatibilità con la “vocazione e la destinazione” delle aree “sensibili” di specifiche categorie di soggetti, che dovrebbero addirittura non stazionare in tali luoghi, per non incorrere nell’ordine di allontanamento. L’analisi dei “tipi d’autore” colpiti da tale presunzione tacita di pericolosità per la sicurezza pubblica (rectius “urbana”) comporta delle conseguenze ancor più paradossali: da persone con a carico mere denunce anche molto risalenti nel tempo, passando a soggetti destinatari di meri illeciti amministrativi fino agli stessi “accompagnatori” dei denunciati, con il “Tätertyp che si estende alla logica amicale o parentale” (Riva, 2019).
Uno scenario degno di una vera e propria distopia securitaria.
Dal punto di vista giuridico, appaiono eclatanti le violazioni realizzate da tali ordinanze prefettizie: (i) nessuna reale ragione di “urgenza” è posta alla base dell’emanazione di tali provvedimenti, violando gli stessi presupposti giustificativi del controverso potere previsto dall’art.2 del TULPS; (ii) gli irragionevoli “divieti di stazionamento” impongono ai destinatari un obbligo di non fare che appare in contrasto con la riserva di legge “relativa” prevista dall’art.23 della Costituzione; (iii) il trasgressore del divieto di stanziamento va incontro, automaticamente, all’ordine di allontanamento, con una ulteriore restrizione della libertà di circolazione, che viola chiaramente la riserva di legge “rinforzata” prevista dall’art.16 della Costituzione.
Si tratta di tensioni con i principi generali del nostro ordinamento che sono state, in parte, confermate dalla Giustizia Amministrativa, la quale ha annullato l’ordinanza prefettizia di Firenze (sentenza n.823/2019) ritenendo non sussistenti i requisiti di “necessità e di urgenza” ed illegittimi i divieti di stazionamento ed i conseguenti ordini di allontanamento. In particolare, il TAR ha censurato l’irragionevole automaticità, prevista nel provvedimento, tra la mera denuncia per determinati reati e l’essere responsabile di “comportamenti incompatibili con la vocazione e la destinazione” di determinate aree, ricordando all’autorità prefettizia come non si possa incidere su libertà costituzionalmente garantite in base a presunzioni di pericolosità.
Peccato che tale pronuncia sia rimasta isolata e che, nel frattempo, le ordinanze dei Prefetti di Bologna e Firenze abbiano ricevuto il beneplacito dell’allora Ministro dell’Interno, Salvini, che, nell’aprile 2019, ha emanato una Direttiva (anche allora denominata sulle “zone rosse”) rivolta ai Prefetti, in cui si evidenziava come, qualora i Sindaci non avessero utilizzato le possibilità offerte dal d.l. n.14/2017 (come modificato dal d.l. n.113/2018), ciò potesse giustificare il ricorso ai poteri di ordinanza prefettizi, in “funzione anti-degrado e contro le illegalità”, come “già sperimentato con successo” nel contesto bolognese e fiorentino. Nei fatti, tale Direttiva chiedeva alle autorità prefettizie, diretta emanazione del Governo, di abusare del potere di ordinanza per spodestare i consigli comunali, qualora questi ultimi non avessero voluto potenziare l’utilizzo del Daspo urbano sui propri territori. Una impostazione autoritaria e dispotica, in grado di “violare il principio di sovranità popolare, di eludere la rappresentanza, di precludere spazio alla discussione politica” (Algostino, 2019), scavalcando le decisioni di quei Comuni che magari non avevano intenzione di cedere alle sirene securitarie.
Appare, dunque, evidente quanto pericoloso sia il potere di ordinanza prefettizio dall’art.2 del TULPS che, soprattutto quando viene sollecitato nel suo utilizzo da parte dell’Esecutivo, assume la chiara valenza di una falla autocratica nel nostro, già precario, Stato di diritto.
Quanto accaduto con la ennesima Direttiva sulle “zone rosse” del Ministro Piantedosi e con le conseguenti ordinanze dei Prefetti ne è un ulteriore esempio.
Un eterno ritorno: le zone rosse di Piantedosi
Ritorniamo, dunque, alla parte iniziale di questo contributo ossia la Direttiva sulle “zone rosse” emessa dal Ministro dell’Interno nel dicembre 2024 che, come l’eterno ritorno dell’uguale, fa seguito a due precedenti ordinanze dei Prefetti di Bologna e Firenze, entrambe adottate ad ottobre dello scorso anno.
Alla luce di quanto sopra evidenziato dovrebbe apparire evidente come, in materia di “sicurezza urbana”, siamo dinanzi ad uno schema consolidato, che si inserisce nell’ambito di una più generale strategia di governance dei territori. In particolare, la dinamica appare la seguente: (i) alcuni Prefetti effettuano delle “fughe in avanti” utilizzando l’illimitato potere di ordinanza previsto dall’art.2 del TULPS per potenziare l’utilizzo del Daspo urbano nei riguardi di una categoria sempre più ampia di soggetti e ben oltre i limiti previsti dalla vigente normativa, il tutto senza reali motivazioni in ordine all’aumento effettivo dei reati (i dati statistici sono banditi da tali provvedimenti) o, al massimo, derubricando a problematiche di “degrado” fenomeni sociali e criminali molto più complessi; (ii) il Ministro dell’Interno di turno, a quel punto, emette una Direttiva per sollecitare le altre autorità prefettizie a seguire l’encomiabile esempio dei propri colleghi, paventando la necessità di dover tutelare “l’ordinato vivere civile”, messo a repentaglio da balordi e soggetti molesti; (iii) le altre Prefetture iniziano una corsa a chi è più duro contro i “cattivi” che minacciano la sicurezza urbana, non risparmiandosi di motivare i propri provvedimenti in modo apertamente razzista e xenofobo.
Ad attivare, nel periodo recente, questo perverso circolo vizioso è stato, nuovamente, il Prefetto di Bologna che, l’8 ottobre 2024, ha adottato un’ordinanza quasi del tutto identica a quello emanata dal suo predecessore Piantedosi. Nel caso di specie, appare significativo evidenziare come l’ordinanza bolognese sembra trarre le sue origini da una serie di gravi omicidi a danno di giovanissimi cittadini stranieri avvenuti sempre nei pressi della stazione di Bologna: nel maggio 2024, un ventunenne tunisino è stato ucciso da un presunto connazionale diciassettenne mentre tentava di rubargli una bicicletta; nel settembre 2024, un senza dimora ivoriano di 26 anni, Mamadou Sangare, è stato accoltellato a morte, per (anche qui, presunti) regolamenti di conti legati a fatti di droga.
Avvenimenti che ci parlano di dinamiche sociali complesse che richiederebbero d’interrogarsi sui drammatici costi sociali delle nefaste politiche messe in campo, negli ultimi anni, con lo smantellamento del diritto d’asilo; la distruzione del sistema di accoglienza e il depotenziamento del welfare, che hanno prodotto una moltitudine di invisibili che popolano le nostre città e che, spesso, finiscono per essere facile manodopera per il crimine organizzato. Invece, questi avvenimenti vengono beceramente utilizzati per criminalizzare ulteriormente proprio coloro che sono stati posti ai margini, in nome della beneamata “percezione di insicurezza” dei cittadini “perbene”. Questo, infatti, è proprio quello che è accaduto con l’ordinanza del Prefetto di Bologna che parte evidenziando come nelle zone limitrofe alla stazione ferroviaria si sia “più volte segnalata la presenza di assembramenti di persone dedite a comportamenti illegali, quali lo spaccio di sostanze stupefacenti o tali da destare forti turbative all’ordinario svolgimento della vita civile”; continua sottolineando come tale situazione sia “costantemente all’attenzione dei mezzi di informazione”, determinando “apprensione e allarme nell’opinione pubblica” e arriva alla conclusione che si tratti di circostanze “non contrastabili con gli strumenti ordinari di controllo del territorio”, e che sia necessario “dotare temporaneamente le forze di polizia di strumenti di natura straordinaria che possano offrire un indispensabile ausilio per scongiurare un danno incombente sulla percezione di sicurezza”.
La ragione giustificativa dell’ordinanza è paradossalmente il “danno” che si sta producendo alla “percezione di sicurezza” dei cittadini. Dunque, le soluzioni sono quelle che possono agire sul piano di tale “percezione”, attraverso la consueta opera di “bonifica” del territorio: il provvedimento prevede, per 6 mesi, un divieto di stazionamento e un conseguente ordine di allontanamento dalle zone limitrofe alla stazione di Bologna di quanti “ne impediscano l’accessibilità e la fruizioni” attraverso “comportamenti incompatibili con la vocazione o l’ordinaria destinazione di tale aree”.
Anche in questo caso, si giunge ad una presunzione di pericolosità ritenendo, tout court, “responsabile di tali comportamenti” chiunque, già denunciato per il compimento di attività illegali nelle aree in questione (in particolare per i reati in materia di stupefacenti, percosse, lesioni, rissa, danneggiamento), assuma “atteggiamenti aggressivi, minacciosi o insistentemente molesti”. Il livello di discrezionalità lasciato alle forze dell’ordine è massimo: un atteggiamento “fastidioso” di un senza dimora presente in stazione potrà essere qualificato come “molestia” e, se la persona ha una mera denuncia anche molta datata nel tempo, si potrà giungere ad applicarli un divieto di stazionamento della durata di 6 mesi che, se violato, comporterà l’applicazione di un ordine di allontanamento del medesimo arco temporale, la cui trasgressione – a sua volta – è presidiata da una specifica fattispecie penale.
Il problema è sempre il medesimo: attraverso un mero atto amministrativo prefettizio si introducono delle restrizioni alla libertà di movimento di specifiche categorie di soggetti, estendendo i presupposti del Daspo urbano al di là dei limiti previsti dalla già controversa normativa e si ampliano le maglie del controllo para-penale che colpirà, in maniera selettiva, in particolar modo i soggetti razzializzati e marginali, rendendoli destinatari di una vera e propria spirale di criminalizzazione secondaria.
In ogni caso, ancora una volta, l’ordinanza bolognese fa scuola e, dopo pochi giorni (il 10 ottobre 2024), viene adottato un provvedimento del medesimo contenuto da parte del Prefetto di Firenze che, per 6 mesi, prevede divieti di stazionamento, in specifiche zone della città, nei riguardi di soggetti che mettono in campo i soliti comportamenti “molesti” e che siano stati già denunciati per determinati reati di cui, però, si amplia il catalogo, includendovi anche il furto con strappo, la rapina, l’occupazione di immobili, il porto d’armi. Come a dire che bisogna pur segnare un punto in più in quella gara tra i Prefetti finalizzata ad accaparrarsi la medaglia di miglior “governatore” della sicurezza urbana.
A distanza di pochi mesi, arriva la Direttiva del Ministro dell’Interno, Piantedosi, datata 17 dicembre 2024, che sollecita le autorità prefettizie a seguire le buone prassi bolognesi e fiorentine, adottando delle ordinanze funzionali a vietare l’indebita permanenza, nelle zone sensibili, di persone responsabili di attività illegali, disponendone l’allontanamento. Appare interessante evidenziare come il Ministro esplicitamente faccia riferimento, in tale provvedimento, allo strumento del Daspo urbano, precisando come il DDL sulla “sicurezza”, attualmente in discussione in Senato, stia ampliando i presupposti applicati di tale misura, consentendo di disporre il divieto di accesso nei confronti di coloro che risultino denunciati, nel corso dei cinque anni precedenti, per delitti contro la persona o il patrimonio, commessi nelle aree interne o nelle pertinenze delle infrastrutture ferroviarie e di trasporto pubblico.
Non può sfuggire come le ordinanze dei Prefetti di Bologna e Firenze, in materia di Daspo urbano, abbiano anticipato le modifiche legislative che ancora devono essere approvate dal Parlamento e che sono state apertamente censurate dal Consiglio d’Europa, già estendendo ai “denunciati” e, addirittura, ai “segnalati” per alcune tipologie di reati la possibilità di vedersi applicate tali misure. Lo strumento dell’ordinanza prefettizia appare, ancora una volta, funzionale a scavalcare gli organi democratici e ne sembra ben consapevole il titolare del Viminale, che invita i Prefetti ad agire proprio in tal senso.
Il risultato della Direttiva Piantedosi è stato il proliferare di ordinanze prefettizie sulle “zone rosse”, che hanno progressivamente stabilito delle vere e proprie presunzioni di pericolosità, con chiari riferimenti xenofobi e razzisti. Emblematica, a riguardo, è l’ordinanza del Prefetto di Milano, del 27 dicembre 2024, che trova la propria ragione giustificativa nella constatazione di come, alcune aree della città (stazione ferroviaria; luoghi della “movida”), siano caratterizzate dalla “presenza di soggetti molesti […] che creano degrado e una conseguente percezione di insicurezza della cittadinanza”. Tali soggetti sono esplicitamente individuati nelle “persone di giovane età e sovente di provenienza extracomunitaria (c.d. seconde generazioni)” nonché in quelle “non in regola con la normativa in materia di immigrazione”. Risulta chiara la matrice apertamente discriminatoria di tale provvedimento, che sembra invitare le forze dell’ordine a procedere con una pratica illegittima, già censurata dall’ECRI (“Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza” del Consiglio d’Europa), ossia la profilazione razziale delle persone presenti sul territorio, da sottoporre ad un surplus di controlli e divieti.
Non a caso, i presupposti applicativi delle misure coercitive si fanno ancora più sfumati: l’ordinanza milanese, che ha una durata di 3 mesi (fino al 30 marzo 2025), arriva a prevedere un divieto di stazionamento ed un conseguente ordine di allontanamento, da specifiche zone della città, nei riguardi dei “soggetti molesti” meramente “segnalati” (non più neanche “denunciati”) per determinati reati in materia di sostanze stupefacenti e contro la persona ed il patrimonio, precisando, ancora una volta, come la violazione delle disposizioni in essa contenute sia in grado di configurare un illecito penale.
Nuovamente un’ordinanza prefettizia arriva a prevedere ciò che è precluso alla stessa legislazione ordinaria: stabilire limiti stringenti alla libertà di circolazione di determinati gruppi sociali, che appaiano selezioni attraverso una chiara base razziale, con buona pace dei nostri principi costituzionali divenuti un mero simulacro (artt.3 e 16 della Cost.). Il tutto viene fatto dalla Prefettura milanese con una spregiudicatezza degna di chi sa di poter agire impunemente. Infatti, paradossalmente, è lo stesso Prefetto – nel comunicato stampa in cui annuncia l’adozione dell’ordinanza – ad affermare che c’è un drastico calo della criminalità nella città milanese (rispetto all’anno precedente: i reati di strada hanno subito un decremento del 10%; i furti con strappo del 17%). Naturalmente, tali dati statistici non sono menzionati nell’ordinanza prefettizia, che trova la sua illegittima ragione giustificativa nella necessità di evitare un “danno incombente alla percezione di sicurezza” dei cittadini, attraverso l’espulsione dal centro storico delle persone razzializzate e marginali.
All’ordinanza prefettizia di Milano fa seguito quella di Napoli (del 31 dicembre 2024, con durata trimestrale) e, l’8 gennaio, anche quella del Prefetto di Roma, sollecitato esplicitamente, nella Direttiva di Piantedosi, all’adozione di provvedimenti che, in vista del Giubileo, allontanino i soggetti indesiderati dai luoghi turistici.
Pulsioni autoritarie e derive illiberali
In conclusione, appare necessario tirare le fila dell’analisi sull’utilizzo del pericoloso potere di ordinanza prefettizio previsto dall’art.2 del TULPS, tratteggiando una questione più generale “di forma” e una più specifica sul “merito” di tali provvedimenti.
Dal punto di vista formale e, potremmo dire, di gerarchia delle fonti, appare evidente come l’art.2 del TULPS rappresenti una mina vagante del nostro sistema giuridico, in grado di sovvertire l’assetto costituzionale attraverso la sospensione amministrativa dei diritti fondamentali. Questa minaccia latente diventa ancor più palese quando l’utilizzo di tale “residuo assolutistico” viene sollecitato dal Viminale, favorendo l’accentramento dei poteri nelle mani dell’Esecutivo ed esautorando i luoghi di decisione democratica (siano essi i consigli comunali o il Parlamento). Una strategia autoritaria che sembra perfettamente in linea con le politiche ed i propositi dell’attuale Governo che, d’altronde, sollecita le autorità prefettizie ad istituire le “zone rosse” (in cui poter applicare una versione del Daspo urbano non ancora approvata dal potere legislativo) e commissaria interi territori dove esportare il “modello Caivano” (si veda il recente d.l. n.208 del 31 dicembre 2024), imponendo una gestione verticistica e militarizzata dei quartieri.
In tempi di torsioni illiberali, dunque, il Governo può fedelmente contare sul controverso potere di ordinanza del Prefetto, da impiegare utilmente per i propri scopi o, meglio, per realizzarli senza rispettare i limiti generali previsti dall’ordinamento. D’altronde, lo strumento amministrativo per la sua duttilità e per l’essere libero da impacci garantisti si rivela un ottimo alleato dei processi di securitizzazione. Non sarà un caso, allora, che le ordinanze prefettizie siano illegittimamente usate per silenziare chi esprime il proprio dissenso e per criminalizzare poveri, marginali e persone razzializzate. Le stesse categorie colpite, peraltro, da quel “diritto penale del nemico” che si è, progressivamente, consolidato nel nostro sistema giuridico e che vede nel DDL 1236 sulla “sicurezza” la sua massima espressione.
Dinanzi a tutto questo, la posta in gioco è evidentemente elevatissima.Infatti, da un lato, non preoccuparsi degli effetti di questi provvedimenti sui territori, comporta il non comprendere come tali politiche securitarie siano funzionali ad accelerare i processi di privatizzazione dello spazio pubblico; ad acuire le disuguaglianze presenti nel tessuto urbano; a favorire la stigmatizzazione e l’ostracismo di determinati gruppi sociali[2]. Dall’altro, legittimare o accettare passivamente queste pratiche di governo, in nome di un distorto diritto alla sicurezza, significa avvalorare il dispotismo governamentale; porsi dalla parte dell’involuzione autoritaria dello Stato; accreditare abusi e violenze istituzionali; acconsentire alla sospensione dei diritti e delle libertà fondamentali.
Bisogna, dunque, essere all’altezza del momento storico che stiamo vivendo, contrapponendo alle pulsioni autoritarie e liberticide una resistenza democratica diffusa. D’altronde, autorevole dottrina ci insegna come “allorquando i pubblici poteri violano i diritti fondamentali e i mezzi e le garanzie legali si rivelano inefficaci a sanzionarne l’invalidità […] allora il «diritto» torna ad essere «fatto», rapporto di forza, e prende avvio la rifondazione di un nuovo diritto. Ma anche quando non arriva alla rottura dall’esterno del diritto vigente, ogni lotta in difesa dei diritti violati o insoddisfatti è una lotta di resistenza” (Ferrajoli, 2000).
Bibliografia
Algostino Alessandra, “Sicurezza urbana, decoro delle smart city e poteri del prefetto”, 2019, nella rivista “Costituzionalismo”, Fasc.1/2019;
Franco Bricola (a cura di), “Il carcere riformato”, Bologna, Il Mulino, 1977;
Ferrajoli Luigi, “Diritto e Ragione. Teoria del garantismo penale”, Bari, Laterza, seconda edizione 2000.
Pitch Tamar, “Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza”, edizioni Laterza, gennaio 2013;
Ruga Riva Carlo, “Il prefetto, il brutto e il cattivo: prove atecniche di neo-ostracismo. Le ordinanze prefettizie sulle zone rosse e il diritto penale Google Maps”, 13 giugno 2019, sul sito della rivista “Questione Giustizia”.
Note
[1] Si vedano, solo a titolo esemplificativo, le ordinanze del Prefetto di Roma che furono emanate il 3 marzo ed il 22 aprile del 1977 finalizzate a vietare, rispettivamente per 15 e 45 giorni, la possibilità di svolgere manifestazioni, riunioni e cortei nella Capitale.
[2] L’art.16, comma 1, della Costituzione prevede che: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche”. Come notato dalla migliore dottrina, quest’ultima disposizione impedisce al legislatore di poter comprendere nel limite della “sicurezza” la sfera politica, inserendo delle restrizioni della libertà di circolazioni per fini politici (P. Barile, 1984).
[3] La disciplina del Daspo urbano, prevista dal d.l. n.14/2017 (come modificata dai d.l. n.113/2018; n.53/2019; n.130/2020; n.123/2023), si caratterizza per una complessa architettura. Tentandone una tassonomia, possiamo immaginare un genus che si articola al proprio interno in diverse species: l’ordine di allontanamento di 48h (art.9 e 10, c.1); il Daspo “semplice” da reiterazione delle condotte (art.10, c. 2); il Daspo “da recidiva” (art. 10, c. 3); il Daspo “antispaccio” (art.13); il Daspo “dai locali pubblici” (art.13 bis). Per maggiori approfondimenti sia consentito rimandare a F. Borlizzi, “Daspo urbano: uno sguardo sulle questioni giuridiche controverse e un’indagine empirica”, in Rivista “Antigone, semestrale di critica al sistema penale e penitenziario” n.1/2022.
[4] Gruppi sociali stigmatizzati e marginalizzati che rischieranno di essere anche più esposti agli abusi da parte delle forze dell’ordine. Non sarà un caso che a Milano, mentre l’autorità prefettizia adotta un’ordinanza apertamente xenofoba che punta il dito contro i giovani razzializzati, emergano nuovi ed inquietanti dettagli sulla morte, a fine novembre, di un ragazzo -appena diciannovenne- di origini egiziane, Ramy Elgaml.