Il 5 ottobre a Roma: bene così
Odiamo la retorica, la radicalità puramente fraseologica, lo sciocco trionfalismo, ma anche gli inutili piagnistei.
Mentre continuano i massacri a Gaza e in Cisgiordania; mentre i bombardamenti statunitensi-israeliani si allargano al Libano, allo Yemen, alla Siria; mentre nello scontro globale ogni cosa può diventa uno strumento di morte (persino un cerca-persone – il che significa: più siamo controllabili, più diventiamo uccidibili); mentre si procede a passi spediti verso l’economia di guerra e lo scontro tra NATO e Russia travolge ogni “linea rossa”, il ministro degli Interni vieta una manifestazione contro il genocidio in corso e a sostegno della resistenza palestinese.
È evidente a chiunque che accettare anche questo avrebbe significato un ulteriore passo verso quell’angolo in cui è confinato il conflitto sociale. Migliaia di persone – in buona parte giovani e giovanissimi – lo hanno capito. Per questo erano in piazza Ostiense, con il cuore a Gaza e gli occhi ben puntati verso quel dispiegamento di divise e mezzi il cui messaggio era inequivocabile: fine delle pantomime democratiche, in guerra non si manifesta. Ed erano in piazza nonostante l’allarmismo mediatico, i controlli addirittura prima della partenza dei pullman, i posti di blocco, i fermi e i numerosi fogli di via preventivi. Ci si poteva accontentare di essersi presi la piazza e di ascoltare i piagnistei sulla violazione della Costituzione, la liberà di espressione e via intristendosi? A nostro avviso, no. Di fronte a un tale concentrato di ingiustizia – quei cordoni di blindati e uniformi erano a protezione della guerra, dei massacri e delle lucrose collaborazioni tra il governo italiano e i dispensatori industriali di morte – era giusto che la rabbia tracimasse. La tecnica poliziesco-mediatica dell’accerchiamento – anticipazione plastica del DDL elmetto-manganello – è stata bucata dalla determinazione di giovani, sconosciute, compagni, che hanno affrontato con coraggio e generosità le manganellate, gli idranti, i gas lacrimogeni, permettendo che qualche corteo spontaneo avesse poi davvero corso (mentre gli estenuanti negoziati stavano letteralmente facendo girare in tondo dentro il recinto). Se la solfa dei “200 black bloc infiltrati” è la tecnica di divisione da sempre prediletta, riferita alla composizione di chi era nelle prime file ieri suona addirittura grottesca.
Basta un colpo di reni per uscire dall’angolo? Sicuramente no, ma è anche vero – come diceva quel tale – che le lotte sono fatte per un quarto di realtà e per tre quarti di fantasia e sentimento. L’accettazione del recinto l’avremmo accusata nei corpi e nello spirito, regalando al nemico (di classe e, ormai, di specie e della Terra) un’onnipotenza che non ha.
Ieri in piazza è circolata, assieme ai gas Cs, aria buona. Bene così.
Odiamo la retorica, la radicalità puramente fraseologica, lo sciocco trionfalismo, ma anche gli inutili piagnistei.
Mentre continuano i massacri a Gaza e in Cisgiordania; mentre i bombardamenti statunitensi-israeliani si allargano al Libano, allo Yemen, alla Siria; mentre nello scontro globale ogni cosa può diventa uno strumento di morte (persino un cerca-persone – il che significa: più siamo controllabili, più diventiamo uccidibili); mentre si procede a passi spediti verso l’economia di guerra e lo scontro tra NATO e Russia travolge ogni “linea rossa”, il ministro degli Interni vieta una manifestazione contro il genocidio in corso e a sostegno della resistenza palestinese.
È evidente a chiunque che accettare anche questo avrebbe significato un ulteriore passo verso quell’angolo in cui è confinato il conflitto sociale. Migliaia di persone – in buona parte giovani e giovanissimi – lo hanno capito. Per questo erano in piazza Ostiense, con il cuore a Gaza e gli occhi ben puntati verso quel dispiegamento di divise e mezzi il cui messaggio era inequivocabile: fine delle pantomime democratiche, in guerra non si manifesta. Ed erano in piazza nonostante l’allarmismo mediatico, i controlli addirittura prima della partenza dei pullman, i posti di blocco, i fermi e i numerosi fogli di via preventivi. Ci si poteva accontentare di essersi presi la piazza e di ascoltare i piagnistei sulla violazione della Costituzione, la liberà di espressione e via intristendosi? A nostro avviso, no. Di fronte a un tale concentrato di ingiustizia – quei cordoni di blindati e uniformi erano a protezione della guerra, dei massacri e delle lucrose collaborazioni tra il governo italiano e i dispensatori industriali di morte – era giusto che la rabbia tracimasse. La tecnica poliziesco-mediatica dell’accerchiamento – anticipazione plastica del DDL elmetto-manganello – è stata bucata dalla determinazione di giovani, sconosciute, compagni, che hanno affrontato con coraggio e generosità le manganellate, gli idranti, i gas lacrimogeni, permettendo che qualche corteo spontaneo avesse poi davvero corso (mentre gli estenuanti negoziati stavano letteralmente facendo girare in tondo dentro il recinto). Se la solfa dei “200 black bloc infiltrati” è la tecnica di divisione da sempre prediletta, riferita alla composizione di chi era nelle prime file ieri suona addirittura grottesca.
Basta un colpo di reni per uscire dall’angolo? Sicuramente no, ma è anche vero – come diceva quel tale – che le lotte sono fatte per un quarto di realtà e per tre quarti di fantasia e sentimento. L’accettazione del recinto l’avremmo accusata nei corpi e nello spirito, regalando al nemico (di classe e, ormai, di specie e della Terra) un’onnipotenza che non ha.
Ieri in piazza è circolata, assieme ai gas Cs, aria buona. Bene così.