Il nemico è in casa nostra!

Questo testo è stato scritto un anno fa prima della devastante aggressione israeliana al popolo palestinese ma analisi e meccanismi di risposta che possiamo mettere in atto qui e ora sono quanto mai attuali.

IL DISPOSITIVO- GUERRA


La guerra è sempre stata un’altra grossa valvola di sfogo, di
ristrutturazione e di consolidamento dell’economia capitalista. Ma il
dispositivo guerra, oggi più che mai, oltre a essere uno strumento per
il controllo delle materie prime, si configura come dispositivo primario
di sperimentazione tecnologica e sociale. Questo avviene nel quadro
della “gestione del disastro” e del controllo sociale che il caos ecologico
permanente impone al ciclo di ristrutturazione del Capitale, anche
in tempo di pace. Senza contare che le guerre, convenzionali e non,
tradizionali o moderne, rimangono lo strumento principale attraverso il
quale il Capitale sfrutta, opprime e cerca di contrapporre i popoli tutti.
Per queste ragioni la critica radicale anticapitalista e antiautoritaria
dovrebbe riconoscere nelle tecnologie applicate in campo militare la
punta di diamante di un sistema che finalmente mette le mani sul vivente
in un processo d’ibridazione tra essere umano e macchina sempre più
pervasivo. Critica che appare ancora più importante nel momento in cui
buona parte della “sinistra radicale”, piuttosto che mettere in discussione il
mito del progresso tecnico, abdica di fronte al dilagare del confinamento
fisico, sociale, intellettuale che il dispositivo-guerra (interna ed esterna)
pone in essere. Questa lettura porta con sé la presa di coscienza che, in
mancanza di una risposta conflittuale delle classi oppresse, molto presto
il sistema tecno-capitalista diventerà semplicemente insostituibile in
un ambiente totalmente e definitivamente compromesso e alienato alla
possibilità di una qualsivoglia autodeterminazione.
Quest’assemblea ha declinato il giudizio sulla guerra a partire dalla
consapevolezza di avere il “nemico in casa nostra”, ossia a partire
dall’individuazione dei nessi di causalità e delle linee di continuità
che sussistono tra disciplinamento del corpo sociale, governo
emergenziale e militarizzazione dei territori (sul fronte interno) e
aggressioni imperialiste sul fronte esterno.
In particolare, la guerra si configura come strumento di disciplinamento
mondiale dei paesi riottosi all’ordine imperialista occidentale (Nato
allargata a guida USA) e come strumento di disciplinamento interno
in nome del bene comune e “della difesa della democrazia”.

Con l’individuazione di un nemico interno, ad esempio i “putiniani”, i poteri, attraverso le testate giornalistiche principali, mirano anche in questo caso
a compattare la popolazione a proprio favore, criminalizzando chi osa
mettere in discussione la narrazione egemonica. L’obiettivo è silenziare
sul nascere ogni forma di dissenso e di opposizione all’economia di
guerra che viene imposta alle classi subalterne. I sacrifici per sostenere
il conflitto sono così fatti passare come facenti parte di contesti che non
si possono modificare, come dati di fatto a cui non ci si può opporre.
Opzioni criminali come quella di ricorrere all’utilizzo del nucleare quale
fonte energetica vengono così “normalizzate” e discusse come soluzioni
fruttuose e sicure alla cosiddetta emergenza energetica.
In questo scenario si ripropone lo stesso meccanismo dello scenario
pandemico, una lettura degli avvenimenti imposta dall’alto, un discorso
senza possibilità alcuna di critica, in cui chiunque metta in atto un
pensiero alternativo o anche soltanto un tentativo di riflessione viene
demonizzato, perseguito, stigmatizzato. Ma proprio per questo siamo
consapevoli che la guerra comincia a casa nostra. In città, montagne,
isole e mari c’è chi si dedica ad addestrare assassini in divisa, fabbricare
armi, studiare tecnologie sempre più interconnesse e convergenti
(quelle che la comunità scientifica riconosce come NBIC, nano-bioinfo-cognitive tecnologies) per le future guerre, per controllare le nostre
vite e sottometterle sempre di più. Sappiamo che è a casa nostra che
il nemico va combattuto, che la necessità è uscire dalla Nato, opporsi
all’invio di armi in Ucraina, ma anche smascherare tutto l’indotto delle
fabbriche di guerra. La fabbrica della guerra è capillare. Si tratta di
impianti industriali, vettori logistici, laboratori di ricerca, università. Un
esempio sul nostro territorio è la porzione di via Tiburtina che inizia
con gli insediamenti di Leonardo Thales Alenia (primo produttore ed
esportatore di materiale bellico in Italia) e confluisce nel Tecnopolo
Tiburtino. Decine di chilometri quadrati di territorio che accolgono
molte realtà (civili e non, grandi e piccole) colluse col mercato della
guerra e del controllo. Tra queste rientra la ELT, azienda che rifornisce
con tecnologie d’avanguardia forze militari e di polizia. I rispettabili
professionisti dell’ELT collaborano al compimento di devastazioni
e stragi in tutto il mondo e nel frattempo affinano in territori lontani
le tecnologie repressive da riproporre a queste latitudini. Software
per i mezzi blindati da combattimento, per il controllo dei droni da
guerra, robotica, intelligenza artificiale e algoritmi per il trattamento dei Big Data: strumenti che hanno lo scopo di sottoporre a un controllo
asfissiante le nostre vite anche in luoghi e in tempi di “pace”.
Oggi è necessario bloccare con ogni mezzo possibile chi sostiene
l’intervento militare, finanzia la guerra, vende armi. In seguito alle crisi
umanitarie, energetiche e climatiche lo stato di eccezione è divenuto
la norma della nostra epoca. Viviamo in un sistema in cui la libertà
viene identificata con la sicurezza, ma di fatto quello che accade è che
molti hanno deciso di barattare la propria libertà con la sottomissione
in cambio di una sopravvivenza sempre più ridotta ai minimi termini,
lasciando che i padroni perseguano indisturbati i loro interessi.

La variante dell’indisciplina pp. 18,21

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