Strade colore del sangue – Due voci da Gaza
Ghassan Kanafani era un militante del FPLP, fu ucciso a Beirut nel 1972 in un attentato del Mossad in cui perse la vita anche la nipote sedicenne.
Voglio oggi ricordare alcuni stralci della sua Lettera da Gaza del 1956 (che si può leggere integralmente qui).
[…] Questa Gaza, più stretta del respiro di uno che sogna un incubo terribile, con l’odore particolare dei suoi stretti vicoli, l’odore della povertà e della sconfitta, e le case con i protuberanti balconi… questa Gaza!
Ma quali sono gli oscuri motivi che attirano un uomo verso la sua famiglia, la sua casa, le sue memorie, come una sorgente attira un piccolo gregge di capre montanare? Non lo so. Tutto quello che so è che andai da mia madre, a casa nostra, quella mattina. Quando arrivai, incontrai la moglie del mio defunto fratello che mi chiese, piangendo, di far visita a Nadia quella sera, la figlia ferita ricoverata in ospedale, secondo il suo desiderio. Conosci Nadia, la bella figlia tredicenne di mio fratello?
Quella sera comprai un po’ di mele e mi preparai a fare visita a Nadia in ospedale. Sapevo che c’era qualcosa che mia madre e mia cognata mi stavano nascondendo, qualcosa che le loro labbra non potevano pronunciare, qualcosa di strano che non potevo cogliere. Volevo bene a Nadia con naturalezza, la stessa naturalezza che mi faceva voler bene a tutta quella generazione che era stata allevata sulle sconfitte e sulla rimozione, pensando che una vita felice fosse un genere di devianza sociale.
Cosa successe al momento? Non lo so. Entrai con calma nella stanza bianca. I bambini malati avevano qualcosa della santità; la malattia del bambino sembrava il risultato di ferite dolorose, crudeli. Nadia era sdraiata sul letto, con la schiena appoggiata su un grande cuscino, sul quale si spargevano i suoi capelli come una folta chioma. C’era un profondo silenzio che veniva dai suoi occhi spalancati, e una lacrima brillava nell’intensità delle sue pupille nere. Il suo viso era imperturbabile ma eloquente, come può essere la faccia di un profeta torturato. Nadia era ancora una bambina, ma sembrava più che una bambina, molto di più, e più grande di una bambina, molto più grande.
[…]
“Nadia! Ti ho portato dei regali dal Kuwait, diversi regali. Aspetto che lasci il letto, completamente guarita, verrai a casa e te li darò. Ti ho comprato i pantaloni rossi che mi hai chiesto nella lettera. Sì, li ho comprati.”
Era una bugia, generata dalla tensione della situazione, ma come la pronunciai sentii che stavo dicendo per la prima volta la verità. Nadia tremò come se le avessero fatto l’elettro shock, e abbassò la testa in un terribile silenzio. Sentivo le sue lacrime bagnare il dorso della mia mano.
“Dimmi qualcosa, Nadia! Non vuoi i pantaloni rossi?” Sollevò lo sguardo verso di me e fece come parlare, ma poi si fermò, strinse i denti e sentii ancora la sua voce, come se venisse da lontano.
“Zio!”
Tese le mani, sollevò il bianco copriletto con le sue dita e indicò la sua gamba, amputata dalla coscia.
Amico mio… Non potrò mai dimenticare la gamba di Nadia, amputata dalla coscia. No! Non dimenticherò mai il dolore che modellò il suo viso e si fuse per sempre nei suoi tratti. Quel giorno uscii dall’ospedale di Gaza con la mano che stringeva, in silenzioso scherno, le monete che avevo portato per Nadia. Il sole cocente riempiva le strade con il colore del sangue. […]
Molti decenni più tardi, in una intervista del 2014, la militante e artista palestinese Shahd Abusalama afferma:
Non credo più nella pace. È una parola che Israele ha usato così tante volte e di cui ha abusato così a lungo, al punto che ha perso ogni residuo di significato e attendibilità. Parlano di pace, ma lanciano bombe sulla Striscia; parlano di pace, ma continuano a colonizzare le nostre terre; parlano di pace, ma uccidono i nostri ragazzi. Non è questa la “pace” che vogliamo, non vogliamo la loro “pace”. Il mio popolo ama la vita, che sia chiaro. Ma la giustizia viene prima della pace. Non accetteremo mai il processo di normalizzazione. Non si tratta di due schieramenti uguali: noi siamo gli occupati, loro gli occupatori. E ogni mezzo utile a raggiungere la giustizia è necessario alla causa.
[…]
Ho vissuto a Gaza per tutta la mia vita, isolata dai palestinesi della Diaspora o di Cisgiordania. Come dicevo prima, Gaza è una prigione a cielo aperto, un ghetto a tutti gli effetti. Certo, Gaza ha delle caratteristiche uniche, ma non voglio concentrarmi su questo. Non ora. Per noi è molto difficile superare i confini e quando ci riusciamo dobbiamo affrontare i checkpoint, l’occupazione ha reso la nostra vita quasi impossibile. Voglio sottolineare una cosa: la mia identità non è soltanto gazawi, ma palestinese. Io sono palestinese. Non sono semplicemente una residente della Striscia, io vivo in Palestina. E questa identità, così messa a dura prova dall’occupazione, viene rafforzata proprio da ciò che dovrebbe distruggerla. Noi di Gaza e “loro” in Cisgiordania siamo un unico popolo. Così come sono parte integrante del popolo palestinese i discendenti dei rifugiati.
[…]
La mia Gaza è il campo in cui Israele pratica punizioni collettive e in cui deporta chi vuole, come vuole. I media occidentali spesso dicono che, non essendoci più un solo soldato israeliano sulla Striscia, non c’è neanche un’occupazione. Niente di più sbagliato, niente di più “normalizzante”. I loro soldati – posizionati sulle torrette al confine – sparano ai nostri contadini, le loro navi sparano ai nostri pescatori, i loro aerei volano sulle nostre teste minacciando continuamente di bombardare (e spesso lo fanno). […]
Con la Palestina nel cuore!