<Il lavoro che non c’è e che non ci sarà più>
Elisabetta Teghil
Il lavoro così come l’abbiamo conosciuto sta sparendo, il lavoro non ci sarà più così come l’ha sempre pensato la società lavorista quella in cui si viveva fino a non molto tempo fa, quella in cui il lavoro rappresentava il titolo normale e pressoché esclusivo di partecipazione alla vita sociale, quello che poteva definire una persona “è un grande lavoratore” oppure ”è uno scioperato, un nullafacente, un ozioso, uno sfaccendato”, quello che faceva, seppure nello sfruttamento capitalistico, l’operaio orgoglioso del proprio lavoro e della propria manualità nella consapevolezza di produrre ricchezza con le proprie mani, quello che smascherato con la teorizzazione del rifiuto del lavoro aveva permesso alla società tutta degli anni ’70 di inseguire desideri e sogni nel tentativo di riprendersi la vita.
Quel lavoro non c’è più e non ci sarà più.
Il lavoro ora è precario, saltuario, a termine, ad incarico, a progetto, addirittura scivola nel volontariato spesso gratuito senza neppure il rimborso spese, quello a tempo indeterminato non esiste più se non in sacche residuali che vanno a sparire oppure con la nuova nozione di tempo indeterminato che mente a se stessa come è solito fare il neoliberismo, la contrattazione è sempre più individuale e, di fatto, si può venire licenziati e licenziate in qualsiasi momento. Ormai i lavoratori/trici perdono quasi tutti i processi intentati contro il datore di lavoro e se avviene la reintegrazione dopo una sentenza del tribunale questa viene bellamente disattesa in mille modi. Gli orari sono molto variabili, i gruppi di lavoro non si conoscono, il rinnovo del contratto è in funzione della disponibilità e della dedizione, non c’è più trasmissione del sapere da una generazione all’altra, quella trasmissione di conoscenze che era anche trasmissione di valori. Il luogo di lavoro non è più momento di socialità, di rapporto, di crescita culturale nello scambio reciproco delle esperienze e di crescita politica.
Ma tutto ciò non è ancora sufficiente a rendere l’idea del cambiamento epocale che è avvenuto sotto i nostri occhi perché la caratteristica attuale del lavoro è di essere sempre più incerto, inafferrabile, volatile. Sono sempre di più le persone che lavorano per poco tempo e passano lunghi periodi alla ricerca affannosa di un altro posto oppure sono tantissime le persone che si sono rassegnate e non cercano più niente ma vivono come possono. Situazione aggravata dal fatto che la società neoliberista ha aggredito e aggredisce con una pervicacia e una determinazione degna di miglior causa le economie marginali attraverso campagne di vera e propria persecuzione: parcheggiatori abusivi, venditori con i loro teli distesi sul marciapiedi, suonatori e artisti di strada, piccoli artigiani che confezionano i loro oggetti ai margini dei mercati. Perfino chi rovista nell’immondizia alla ricerca di oggetti da sistemare e rivendere è demonizzato come gli untori di medioevale memoria. Tutto questo chiaramente in nome dell’igiene, della pericolosità sociale, del mancato pagamento delle tasse, degli oggetti non omologati e via discorrendo.
La robotizzazione e la tecnologizzazione stanno camminando a ritmi serrati, il lavoro viene sostituito sempre più dalla meccanizzazione. Da una parte è controllatissimo e i ritmi sono già dei ritmi robotici applicati agli umani, dall’altra sostituisce anche gli atti della vita quotidiana: i supermercati senza cassiere come sono già le banche, le automobili senza autista, gli sportelli degli uffici pubblici on line. Tutto questo emargina tra l’altro una grossa fetta della popolazione che non ha le capacità tecniche, i mezzi materiali, la preparazione adeguata.
Si sta costituendo il passaggio da una società in cui l’importanza dell’essere umano non era riconosciuta ad una società imperniata sull’inutilità dell’essere umano. L’essere umano è comunque insufficiente e carente, deve essere manipolato, modificato, ristrutturato, ricostruito o anche creato ex novo ad uso e consumo dei nuovi desideri e necessità dell’ attuale fase imperialista del capitale.
L’essere umano così come noi lo conosciamo è superfluo.
L’unico lavoro vero sarà quello altamente specializzato. L’iper borghesia ha vinto lo scontro all’interno della stessa classe borghese e ha ridotto la piccola e media borghesia ad una funzione di servizio. Saranno questi i nuovi lavoratori, pochi ed estremamente tecnicizzati, preparati ad usare in maniera adeguata i nuovi strumenti tecnologici e naturalmente a non pensare.
Ma le prestazioni richieste a questo tipo di personale specializzato saranno altissime, in riga con quello che il neoliberismo pensa debba essere il lavoro di chi lavora, dedizione assoluta, tempi e ritmi incalzanti, licenziamenti sempre incombenti, controllo serrato, perdita facile dei privilegi assunti, usura veloce del personale e altrettanto veloce ricambio.
E’ chiaro che mantenere questi ritmi e adeguarsi a queste richieste non è nelle possibilità di un essere umano quindi le droghe di svariatissimi tipi, da quelle tradizionali a quelle di nuovo conio travestite da medicinali, diventeranno di uso comune. Nessuno/a che accetti i ritmi del neoliberismo potrà farne a meno. L’usura sia mentale che fisica sarà velocissima.
L’essere umano diventa usa e getta.
Quindi la massa degli esseri umani inutili crescerà a dismisura. Infatti, da una parte il neoliberismo ha articolato strumenti molto efficaci nell’abbassare il costo del lavoro, dall’altra però si deve porre il problema della gestione di questo numero sempre crescente di esseri umani tagliati fuori dal mercato e pertanto impossibilitati ad essere consumatori.
I lavoratori così come li conoscevamo sono stati trasferiti nel terzo mondo, ma anche in quei paesi molto più velocemente di quanto possiamo pensare, la tecnologia eliminerà moltissimo fabbisogno di mano d’opera seppure si possa avere a prezzi stracciatissimi. La borghesia imperialista per ora ha risolto la problematica degli esseri umani superflui in quei luoghi con le guerre neocoloniali portate direttamente o per interposta persona, guerre religiose create ed incentivate, rivalità tribali innescate e alimentate. Lo sfruttamento intensivo dei lavoratori e delle lavoratrici trasferito nel terzo mondo e le guerre neocoloniali di predazione però non portano e non porteranno nessun giovamento alle popolazioni occidentali a differenza di quello che è accaduto nei precedenti periodi coloniali.
Il problema della fine del lavoro si pone in maniera urgente nei paesi occidentali e soprattutto in Europa. Negli Stati Uniti una massa di disperati rappresenta già una fetta importante della popolazione, ma la spoliticizzazione portata avanti con sistematicità da anni fa sì che l’insofferenza abbia i risvolti di accessi di follia.
La prima risposta dell’iper borghesia è naturalmente di stampo repressivo. Tutta la legislazione serrata sul controllo sociale che va dalla propaganda securitaria spietata al controllo dei comportamenti personali, dallo sdoganamento della delazione, con la costituzione di ogni cittadino/a controllore di se stesso e degli altri, alla persecuzione sistematica di ogni più piccolo dissenso che deragli dall’ accettazione entusiastica di questa società, non è altro che il dipanarsi di questa risposta che viene costruita da tempo e che vediamo dispiegarsi tutti i giorni sotto i nostri occhi con campagne di demonizzazione dello scontro sociale e con il terrorismo di Stato.
Allo stesso tempo la classe al potere sta studiando eventuali correttivi a quello che potrebbe essere un serbatoio di rivolta. Cosa fare di questa massa di poveri, che si trascinano in un’esistenza precaria e misera, senza nessuna possibilità di sbarcare il lunario? cosa fare di questo esercito di gente allo sbaraglio?
E’ in questo senso che vanno lette le varie ricerche e sperimentazioni sul salario sociale, sul salario minimo, sui contributi per la sussistenza, sul microcredito, sul reddito di cittadinanza.
Per ora le proposte in questo contesto sono tutte estremamente reazionarie e classiste e vengono legate a situazioni di disoccupazione, di attesa di un lavoro, di disponibilità a dare manodopera nel sociale con la pretesa da parte dello Stato che eroga i così detti benefici dell’adesione alla scala di valori neoliberista da parte di chi ne usufruisce.
L’unica configurazione auspicabile sarebbe il reddito di cittadinanza, per tutti e tutte e libero da ogni tipo di vincolo. E’ chiaro che si tratta di una soluzione che mira alla pacificazione sociale e all’addomesticamento del conflitto, non ha niente di rivoluzionario. E’ come la sanità pubblica, la scuola pubblica, i pubblici trasporti. Ma non per questo la dobbiamo osteggiare in favore di una società lavorista, dove il lavoro sarebbe quello che fornisce dignità all’essere umano, perché anche la contrattazione della società lavorista è uno strumento di pacificazione sociale.
Come si colloca la sinistra di classe in questo scenario? L’esperienza di oltre un secolo di lotte sociali ci ha fatto capire molto chiaramente che la condizione di vita, anche la più miserabile non è foriera di presa di coscienza.
Inoltre gli strumenti di lotta che siamo abituati/e ad usare sono assolutamente inadeguati. Cosa possono fare gli sfruttati e le sfruttate per scrollarsi di dosso l’idea del lavoro come riscatto e dignità e allo stesso tempo recuperare la coscienza di classe?