Processo contro 90 NO TAP e dichiarazione spontanea di una compagna
Nella mattinata di questo venerdì 15 gennaio, la Pm ha formulato nell’aula bunker del carcere di Lecce le richieste di condanna nei confronti di 90 No Tap, imputati in un processo che cita diversi episodi di lotta in un arco di tempo che va dal 2017 al 2018. I reati sono di vario tipo, da violenza e resistenza a pubblico ufficiale a violazione del foglio di via da Lecce e Melendugno, i luoghi dove più si è sviluppata la lotta contro la multinazionale del gasdotto. Le condanne richieste in primo grado vanno da un minimo di 2 mesi ad un massimo di 2 anni e 3 mesi.
Durante l’udienza una compagna ha esposto una dichiarazione in merito alle accuse che le vengono poste, qui di seguito ne pubblichiamo il testo.
Sono imputata, in questo processo, per aver violato ripetutamente l’ordine che mi vietava di essere presente sul territorio di Lecce e Melendugno. Alcuni poliziotti, in veste di testimoni, hanno sottolineato che deliberatamente, in spregio al loro servizio di osservazione, io trascurassi di nascondermi o di camuffare il mio aspetto. Le molte fotografie che mi ritraggono confermano questa osservazione. In effetti, ho sempre partecipato alle manifestazioni e ai vari momenti di protesta senza badare a quella prescrizione e senza nascondermi. E ho spesso preso la parola, come molti altri, per ribadire le ragioni di quelle mobilitazioni che in due anni hanno coinvolto un gran numero di persone. Non me ne vogliano i signori della questura, ma ritengo che le ragioni che mi portavano nelle zone interdette, rischiando le imputazioni che qui mi vengono mosse, fossero altra cosa che lo spregio per la digos di Lecce. Si tratta di ragioni che rinuncio ad esporre in tuttala loro ampiezza e profondità, anche perché ritengo che un’aula di tribunale sia la sede meno adatta allo scopo. Basterà dire che, non a caso, le ragioni a cui alludo sono tutte rappresentate nell’elemento mancante nelle cronache rese dai poliziotti qui testimoni, che tratteggiano uno scenario piuttosto semplificato, piatto, diciamo bidimensionale, in cui le forze dell’ordine fronteggiano un gruppo di facinorosi sullo sfondo di cantieri, cancelli, strade poderali, uliveti. Le mie ragioni, invece, sono tutte nella terza dimensione, quella dello sfondo. Si tratta di luoghi che hanno subìto lo sfregio indelebile di un’opera aberrante, il gasdotto TAP. Un’opera imposta dall’alto e sempre rifiutata dagli abitanti perché stravolge ecosistemi delicati, mette a rischio la salute umana, disturba l’economia locale. Quell’opera, in definitiva, rappresenta la voracità del capitale transnazionale di fronte al quale le comunità locali dovrebbero soccombere. L’impressionante mobilitazione di uomini in divisa a difesa del Consorzio Tap e contro i contestatori dell’opera ha reso palese a molti l’asservimento dello Stato a quelle, superiori, ragioni. La militarizzazione di un vasto territorio e la sospensione della libertà di movimento al suo interno, questo sì, in spregio alla popolazione, sono solo alcune delle ragioni che mi hanno consigliato di partecipare anziché desistere, di recarmi nei luoghi vietati, anziché rispettare i divieti che mi sono stati imposti. Così ho scelto di rispondere ad un mio personale imperativo etico, tralasciando l’ingiunzione dell’autorità e presentandomi nei luoghi preclusi.
Mio unico rammarico è, semmai, di non aver fatto abbastanza efficacemente.