La parola e la cosa.A proposito di progetto rivoluzionario
Editoriale
Come è già stato scritto da più parti, l’epidemia di Covid19 ha messo nelle mani dei padroni un formidabile “coltello” per accelerare il modo di produzione informatico. Storicamente il capitalismo ha prima privato gli umani dei propri mezzi di produzione e sussistenza, e solo successivamente ha potuto sfruttarne il lavoro. Si tratta di quella che Marx, deturnando polemicamente un’espressione dell’economista borghese Adam Smith, chiamava “accumulazione originaria” o “accumulazione primaria”. La divisione sociale tra sfruttati e sfruttatori, ragionava il pensatore tedesco, non si basa affatto sulla maggiore parsimonia che avrebbe permesso agli uni di possedere i mezzi di produzione e comprare il lavoro degli altri, possessori unicamente delle proprie braccia: a preparare la rivoluzione industriale furono almeno tre secoli di furto delle terre comuni e di leggi draconiane contro i poveri. Se oggi questa storia «scritta negli annali dell’umanità a caratteri di sangue e di fuoco» si sta ripetendo tale e quale in Africa (dove a partire dai primi anni Ottanta gli espropri della terra vengono operati dagli Stati locali su spinta della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale), il capitale non ha mai smesso di rinnovare la propria accumulazione prendendo di mira le “risorse” più diverse. La cosiddetta digitalizzazione, verso cui i governi indirizzeranno buona parte dei “fondi per la ripresa”, trova la propria fonte nell’esperienza umana, che per divenire “big data” dev’essere letteralmente vampirizzata dalle macchine dette “intelligenti”. In questa nuova opera di rapina organizzata del vivente, tutto ciò che non viene filtrato da una rete di computer e sensori – la solitudine della coscienza o l’imprevedibilità dell’incontro faccia a faccia – dev’essere sostanzialmente eliminato. Il tipo di propaganda mediatica che sta circolando in questo periodo è indicativo oltre che inquietante, e ci dice molto di quanto il capitale stia investendo – non solo in termini monetari o militari, ma anche culturali e simbolici – su un mondo a distanza, dove tra umano e umano, tra umano e natura, si collochi sempre un dispositivo informatico (“distanti ma uniti”, dice infatti la propaganda governativa). Tra criminalizzazione delle passeggiate, inviti alla delazione e costante disciplinamento poliziesco, i vari media di regime hanno annunciato l’inizio di una nuova èra, in cui il gesto della stretta di mano va a finire in un museo (come in una vignetta di un giornale straniero), gli amanti si masturbano davanti a una webcam, gli amici fanno “party” in rete ecc. In quest’opera di condizionamento di massa, ciò che più rileva è che il “distanziamento sociale” non viene affatto porto come consiglio per affrontare una situazione temporanea, o registrato come semplice dato di fatto legato a circostanze comunque transitorie. Al contrario lo si dà per scontato, come si dovesse vivere in “stato di emergenza pandemico” per l’eternità. Altro segnale di investimento propagandistico e ideologico è il modo in cui tutti i media hanno attribuito i diversi attacchi subiti dalle antenne 5G in varie parti del mondo a forme di complottismo più o meno deliranti. Alla base di questa operazione mediatica stanno alcuni studi scientifici particolarmente apprezzati negli ambienti steineriani, studi secondo i quali l’elettromagnetismo di reti e antenne indebolirebbe l’apparato immunitario dei viventi favorendo la propagazione di malattie. Non solo il fatto che queste ricerche abbiano attirato l’interesse di chi vede “cospirazioni” ovunque non squalifica affatto il loro valore; ma soprattutto, restringere ad esse le ragioni per opporsi al mondo “smart” (ovvero al tecno-totalitarismo in preparazione di cui il 5G è l’infrastruttura materiale) è un’operazione che si commenta da sola, spacciando il tutto per una sua (minima) parte. Non c’è affatto bisogno di vedere un legame diretto tra Coronavirus e 5G per avversare il modo di produzione informatico: per combattere un progetto che mira a privarci di tutto ciò che ci rende umani le ragioni non solo si sprecano, ma sono semplicemente assolute. Tocca anche riconoscere, come spesso accade, che la propaganda menzognera di regime ha anche un suo rovescio di verità. È purtroppo vero che un mondo come questo – con i suoi allevamenti intensivi, le sue devastazioni dell’ambiente naturale, la sua titanica produzione di nocività e, per chi può permetterseli, i suoi spostamenti “facili” tra i cinque continenti – produrrà sempre più epidemie, e più in generale delle catastrofi di cui gli Stati si arrogheranno la gestione militarizzata. Ma le “soluzioni” dello Stato e dei suoi comprimari tecnoindustriali, ovvero dei principali responsabili di tutte queste sciagure, non potranno che aggravarle. Per guardare solo a un aspetto, nel mondo ci sono circa 3 milioni di server, ospitati da mezzo milione di data center, diversi dei quali consumano ogni giorno tanta elettricità quanto una città di 30.000 abitanti. Anche senza pensare alla loro ricaduta diretta sulla salute, pensiamo a quanto questi mega-server già incidano sul surriscaldamento globale e cosa comporterà il loro incremento, quando la rete mira a coprire la totalità delle interazioni umane sul pianeta. Senza per forza rimarcare quanto sia patogena una vita senza rapporti diretti, o con rapporti ridotti al minimo, basterebbe già questo per capire come le “cure” del governo – il tracciamento tramite app che renderà gli smartphone ancora più necessari a fare qualsiasi cosa, la promozione del lavoro da remoto ecc. – siano ben peggiori del male.
La retorica di regime va rovesciata anche da un altro punto di vista. Nell’inaugurare i primi passi della “fase 2” – che mentre ha allentato un po’ le briglie ai passeggiatori solitari, ha sciolto completamente gli ormeggi alle industrie, “perché l’economia deve ripartire” – il premier Conte ha parlato di rischio calcolato. Dobbiamo anche noi assumerci fino in fondo questa prospettiva, ma dal nostro punto di vista. Se ci pensiamo bene, non solo vivere è sempre rischiare, ma è ontologicamente impossibile farlo senza interagire con gli altri e con la materia. Una vita in cui tutti fossero sempre tra le mura domestiche significherebbe semplicemente l’estinzione umana per fame e sete: per sopravvivere dobbiamo per forza uscire e avere contatti tra noi, almeno in una certa misura e secondo certe modalità. Rovesciare il discorso significa scegliere misure e modalità in autonomia. Ragionarne e trovarle adesso, prima che il guinzaglio governativo si accorci di nuovo col ricatto di nuove ondate epidemiche, è letteralmente cruciale. Come già hanno urlato alcuni facchini in lotta, bisogna dire con forza che “se possiamo lavorare, allora possiamo anche protestare”, spezzando il ricatto terroristico del manovratore che non vuole essere disturbato da “assembramenti”. Più in generale, bisogna affermare chiaro e tondo che quale sia il rischio da correre, e perché e come, ce lo calcoliamo da soli; perché ad essere in gioco è la nostra vita, e nient’affatto solo per il virus. Piano piano lo stanno cogliendo in diversi, come quei genitori, studenti, bambini ed educatori che hanno di recente protestato contro la didattica a distanza o le mascherine imposte ai più piccoli, con tutto il loro carico di disumanizzazione. Affrontare un’epidemia è senz’altro complicato. Nessuno, neppure i pretesi “esperti”, è in grado di fornire una visione “oggettiva” della situazione, e men che meno di come potrà svilupparsi. È quindi importante che nei diversi contesti – come quelli di lotta – ci sia un confronto anche sulle precauzioni da prendere, con rispetto e ascolto delle diverse esigenze e ragionamenti, senza dar niente per scontato. Ma come vogliamo vivere, e cosa rende una vita degna di essere vissuta, è e sarà sempre di più la vera posta in gioco. Pensare che questa sia solo una romanticheria improponibile e incomprensibile ai più, è dare per scontato che gli umani abbiano definitivamente barattato la vita con una sopravvivenza qualsiasi. Per fortuna, la realtà sta cominciando a smentirci. E i moti di rivolta scoppiati negli Stati Uniti – che hanno infiammato e stanno infiammando le strade e le notti in diverse città d’Europa e del mondo – ne sono un fulgido esempio. Non solo siamo di fronte a una generalizzazione di scontri e sommosse senza precedenti – le rivolte partite dai ghetti neri degli anni Sessanta furono decisamente più isolate –, ma a un movimento che sta crescendo in profondità. Mentre scriviamo è ancora in corso la “zona autonoma” di Seattle, la quale, se non ha ancora raggiunto la portata di Oaxaca, ha già superato, e di gran lunga, le dimensioni e i contorni degli esperimenti più radicali del movimento Occupy. Liberare una porzione di territorio – e non di un territorio qualsiasi, ma di una metropoli all’interno della più grande potenza militare del mondo – dalle forze statali e sperimentarvi forme e pratiche di autorganizzazione s’inscrive in un processo insurrezionale. Quanto tutto ciò spaventi il nemico – sia quello suprematista sia quello democratico – è reso particolarmente evidente dalle varie contromisure statali. Le dichiarazioni e le leggi adottate da Trump, innanzitutto, ma anche il conflitto fra i sindacati di polizia e i sindaci che hanno ordinato alle forze dell’ordine di ritirarsi per non gettare ulteriore benzina sul fuoco; le prese di posizione obbligate contro le violenze poliziesche da parte delle organizzazioni sindacali più potenti e asservite, o quelle provenienti dal mondo dello sport e della cultura: insomma, un rosario di condanne e di “repressioni lodative” che ben dimostra, in negativo, la posta in gioco. In una società storicamente e strutturalmente razzista, l’ennesimo omicidio poliziesco di un afroamericano, sommato alle gigantesche disuguaglianze sociali, ai milioni di disoccupati e allo spietato triage burocratico-sanitario su chi può essere curato e chi no, rischia di far saltare l’intera baracca. La legge di recente introdotta che commina fino a dieci anni di carcere a chi abbatte le statue ne è un chiaro indicatore. Quando migliaia di persone di tutti i colori se la prendono con la rappresentazione marmorea di un Jackson o di un Roosevelt – cioè con l’intera storia dello schiavismo a stelle e strisce – e contemporaneamente urlano di togliere tutti i fondi alla polizia, il lavoro dei recuperatori democratici comincia a farsi arduo, semplicemente perché non c’è un’altra storia da raccontare – che non sia quella della rivolta dei neri, delle “ferrovie sotterranee”, dell’abolizionismo radicale, della guerra di classe che ha mescolato, nei suoi momenti più alti, lingue e dialetti di mezzo mondo, dell’opposizione ai massacri bellici, del sabotaggio dell’apparato industrial-militare. Le sparate di Trump contro gli antifa, contro gli anarchici, contro il “terrorismo interno” vanno prese alla lettera perché indicano una strada ben precisa. Per riprendere l’espressione di Bakunin, ciò che lo Stato teme è il “movimento anarchico delle popolazioni”, che il rivoluzionario russo definiva anarchique (e non anarchiste, aggettivo riservato alla minoranza agente, al movimento specifico); quindi attacca chiunque sia dichiaratamente disposto a concorrervi. Le recenti operazioni anti-anarchiche in Italia, incentrate sempre di più sul reato di “istigazione” come collante delle “finalità terroristiche”, ci dicono in che epoca siamo entrati.
Il numero della rivista che avete tra le mani è decisamente corposo e piuttosto ambizioso. Oltre a proseguire nella riflessione sul rapporto fra guerra e tecnologie digitali, tra guerra, ristrutturazione economica e ruolo dello Stato, e a proporre una storia abbreviata della logistica navale e dei suoi cavi, abbozziamo dei ragionamenti sul concetto di forza e su cosa potrebbe essere oggi un progetto rivoluzionario. Aggiungiamo subito che un tale compito anche solo definitorio non può essere il frutto di qualche testa isolata, ma emergere, affinarsi e decantare in botti ben più capienti. Consapevoli dei nostri limiti, abbiamo voluto provarci lo stesso, perché il tempo stringe. E invitiamo a mettere in relazione quelle note di maggio con quanto sta accadendo negli Stati Uniti. Ci sembra che il rapporto tra rivolta, spazio pubblico, insurrezione e autonomia materiale si stia rivelando in tutta la sua concretezza.
Tra quelli che vi accingete a leggere, solo due articoli sono precedenti l’epidemia da Coronavirus: un testo sulla solidarietà dentro e fuori del carcere e un altro che ci aveva mandato un giovane compagno sulla questione del sessismo. Il secondo lo pubblichiamo perché ci è sembrato stimolante e perché ci piace l’approccio “fourierista” di interrogarci sulle relazioni amorose mentre tutto accelera e precipita. Il primo lo pubblichiamo perché non ha perso nulla della sua importanza dopo l’ondata delle rivolte che ha attraversato le carceri italiane (e mondiali) nel mese di marzo; anzi, il ritardo con cui si sta ponendo mano ai problemi sottolineati da Juan ci sembra strettamente collegato all’inadeguatezza – per usare un eufemismo – con la quale fuori si è reagito a quelle rivolte e alla strage con cui lo Stato ha cercato di soffocarle. A tutto questo dedicheremo in futuro ben altro spazio.
Non sfugge ormai a nessuno la crucialità del passaggio storico in corso. Non solo, sotto il precipitato dell’epidemia da Covid-19, i nodi stanno venendo al pettine, ma “i punti di applicazione” di una prospettiva insurrezionale si fanno letteralmente mondiali. Anche alle nostre – per il momento pacificate – latitudini, la quantità di gioventù che ha voglia di scendere in strada ci pare incoraggiante. Meno incoraggiante, anzi decisamente sconsolante, è la nostra capacità di trarre degli insegnamenti dai mesi di quarantena e dal successivo rientro nella “normalità”. Se non siamo del tutto scontenti di come abbiamo attraversato i primi, e francamente incoraggiati dal profluvio di azioni dirette che hanno scalfito e stanno scalfendo l’ordine a livello internazionale, la tendenza che osserviamo, ora che il guinzaglio statale si sta allungando, a riprendere piano piano le iniziative a cui eravamo abituati ci pare tanto comprensibile quanto avvilente. E se tra qualche mese Stato e tecnocrati decretassero nuovi lockdown, che faremmo? Trarre degli insegnamenti, ragionare sulle prospettive, darsi gli strumenti, prepararsi sono esigenze non più rinviabili. Se non c’è dubbio, ad esempio, che la digitalizzazione del mondo è una delle questioni decisive, che richiede chiarezza d’intenti, non possiamo non avere delle proposte su come collegarsi idealmente e concretamente con dei moti di collera che stanno nascendo e nasceranno per altri motivi. A partire da quali spazi favorire convergenze e praticare rotture? Come abbiamo sperimentato in prima persona, far ogni affidamento sulla dimensione collettiva di confronto e di organizzazione rischia di lasciarci inermi, se e quando il nemico decide di svuotare le strade. Ma anche la retorica dell’individuo isolato che fa e disfa contro venti e maree si è rivela per quello che è: pura retorica. Cosa rimane, in mancanza di un moto che tracimi gli argini del confinamento sociale che prosegue e si aggrava? Rimangono i rapporti di affinità costruiti in precedenza, uno scambio di idee, di intenzioni e di capacità che non si improvvisa. Anche qui, si raccoglie quel che si semina, e non c’è alcuna “emergenza” che possa suggerirci dei progetti che non abbiamo abbozzato prima. Il nemico non ci lascerà chissà quanto tempo per porvi rimedio. D’altronde, se le nostre teorie non sono completamente campate per aria, perché mai dovrebbe lasciarcelo?
Non ci servono né chiacchiere né proclami più o meno smargiassi. Serve una coscienza acuta di ciò che manca. Servono idee. Serve disponibilità a sparigliare le carte, a sognare ad occhi ben aperti e a rischiare.
La parola e la cosa. A proposito di progetto rivoluzionario
Premessa filologica
Un mondo sempre più «irrovesciabile». Nel testo della «Encyclopédie des Nuisances», il termine è «indétournable». Come noto, quello di détornement è un concetto-chiave dei situazionisti, che indica sia un procedimento artistico-letterario-teorico – il quale consiste nell’assemblare materiali già esistenti riorientandone il senso e l’uso – sia un più generale «rovesciamento di prospettiva». Se ogni movimento rivoluzionario ha sempre dovuto inventare nuove parole per alludere a qualcosa che ancora non esiste, una determinata carica poetica si sviluppa e decade in una guerra contro il tempo – poi, quando si cristallizza, diventa un ostacolo che impedisce di pensare di nuovo la realtà, e si trasforma in un linguaggio autoreferenziale. Avremmo potuto tradurre con «indeturnabile», ma il vezzo rischia oggi di nascondere il problema. «Irrovesciabile» è più immediato e non rinvia a un gergo da conoscitori di testi rivoluzionari, ma non mantiene tutte le sfumature. In francese détourner ha varie accezioni: ad esempio «stornare», «sviare» (un corso d’acqua, dei sospetti), «sottrarre» (dei fondi), «dirottare» (una nave, un aereo). Al di là delle sottigliezze lessicali, questi diversi significati esprimono piuttosto bene il modo in cui per tanto tempo i movimenti rivoluzionari hanno pensato e progettato il loro rapporto con i mezzi di produzione (sottrarli ai padroni e allo Stato, stornare il loro senso universale dai rapporti di produzione capitalistici, dirottarne socialmente l’uso). Un mondo «indeturnabile» significa quindi un mondo non riappropriabile, non dirottabile, non riorientabile. Come si capisce facilmente, questo non è un problema fra i tanti, ma il problema.
Il détournement della società del dominio viene posto, nei testi dell’EdN precedenti, secondo gli schemi marxisti-situazionisti, cioè seguendo la logica dialettica del superamento. Gli stessi “enciclopedisti” hanno rilevato, negli anni successivi, questa contraddizione (tra critica anti-industriale e visione marxista delle forze produttive come alleate del proletariato). Solo che, approfondendo la conoscenza della critica anti-industriale (Mumford, Ellul, Charbonneau, Anders…), hanno abbandonato sia il concetto di classe, sia quello di rivoluzione, formulando una prospettiva di secessione ancorata sul concetto di Natura – in quanto limite da contrapporre alla sragione tecno-mercantile e in quanto base etico-sociale per un’attività di rigenerazione sia del pensiero critico sia di nuovi legami comunitari. Dovendo giocoforza costatare come l’istinto di autoconservazione – che negli anni Ottanta si ipotizzava mobilitabile per la causa della rivoluzione a fianco del desiderio d’ignoto – venga ogni giorno mobilitato dal sistema della sopravvivenza per creare un orizzonte chiuso, che poi è il terreno su cui attecchiscono tutte le aggressioni tecnologiche. Queste correzioni posteriori vanno tenute presenti non solo per precisione storica, ma proprio per evitare di aprire porte già spalancate. La parabola degli “enciclopedisti” resta tuttavia istruttiva anche là dove corregge se stessa. Per chi aveva affidato le proprie speranze a un determinato «soggetto storico» (portatore di coscienza, di interessi universali ecc.), la scomparsa di quest’ultimo mina le possibilità stesse di una rivoluzione. Chi non ha mai creduto a un simile schema (per altro ereditato da una concezione storica borghese), invece, può pensare in modo diverso la rottura rivoluzionaria – cioè il possibile nella storia.
Perché, allora, se contengono tali zavorre, pubblicare quei testi di trent’anni fa? Perché ci interessano fin ad un certo punto limiti, errori e contraddizioni di questo o quel raggruppamento sovversivo. Quello che ci serve è altro – cioè una formulazione qualitativamente precisa dei nodi teorici e pratici che dobbiamo sciogliere. Tornare innanzitutto su alcuni passaggi storici ci sembra fondamentale per capire in che condizioni interveniamo oggi, e verso dove vogliamo andare. Qualcuno lo chiamava approccio filologico alle lotte, alle conquiste e alle sconfitte dei tentativi di emancipazione. Invece di rinnovare delle credenze (fossero pure “anti-industriali”), ci sembra più sensato scavare nella dimensione soggettiva e materiale della guerra sociale – per separare le pepite dalle scorie. Riprendendo una bella metafora usata dagli stessi “enciclopedisti” a metà degli anni Novanta: per togliere la mano dal vaso, bisogna mollare la presa di ciò che si era convinti di possedere.
Senza scorciatoie
Osservare la realtà senza scorciatoie ideologiche dà oggi le vertigini. Vogliamo abbattere un albero, sapendo che siamo seduti sui suoi rami. Non solo le forze produttive, ma più in generale le condizioni materiali di esistenza, «sono adesso mobilitate dalle classi proprietarie e dai loro Stati per rendere irreversibile l’espropriazione della vita e devastare il mondo fino a farne qualcosa che nessuno possa più pensare di contendere loro». Da questo punto di vista, si può dire che la profonda ristrutturazione avvenuta, a seconda dei Paesi, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, non avesse solo lo scopo di smantellare la “rigidità” della classe operaia, rendere più flessibile la produzione e abbattere i costi dello stoccaggio di semilavorati e prodotti finiti attraverso la catena globale della logistica e del just in time, ma anche e soprattutto quello di attaccare frontalmente le possibilità stesse di una trasformazione rivoluzionaria della società. Di rendere, cioè, sempre più irreversibile la società del dominio. La contraddizione è nota. Nel concentrare gli sfruttati nei luoghi di produzione e nei quartieri ad essi collegati, il capitale ne favoriva, indirettamente, l’autorganizzazione. Anche il rifiuto violento del lavoro salariato – quello che nei testi precedenti viene definito come il contenuto «moderno» della rivolta esplosa negli anni Sessanta – poteva attaccare e ripiegare a partire da determinate forme della vita collettiva, a loro volta non scollegate da un certo modello produttivo. Come hanno riconosciuto anni dopo alcuni Comontisti, teorici del proletariato extralegale e dell’inizio inevitabilmente teppistico dell’assalto rivoluzionario – «Contro il capitale, lotta criminale» – quelle stesse pratiche selvagge hanno cominciato a defluire insieme allo smantellamento di determinati quartieri e di una certa «comunità di classe», la stessa che conteneva al suo interno il riformismo, la richiesta di rappresentanza istituzionale e non pochi residui di stalinismo. Pensare che il «recupero» sindacale e politico fosse soltanto una sorta di agente esterno, nemico della spontaneità proletaria, è stata una delle illusioni contro cui si è schiantata parte del movimento rivoluzionario dell’epoca. Venuti meno – grazie soprattutto all’intervento repressivo dello Stato, senza il quale i padroni non avrebbero mai potuto avviare la «rivoluzione telematica» – luoghi, mentalità, capacità organizzative costruiti dentro la resistenza a quel ciclo del capitalismo, l’offensiva rivoluzionaria si è trovata hors sol, come le fragole nelle serre industriali. Che l’apparato produttivo fosse già in buona parte «irrovesciabile» era un assunto che pochi spiriti lucidi avevano fatto proprio a partire dagli anni Trenta, ma che non preoccupava granché i teorici dell’autonomia operaia, e che veniva in qualche modo rimosso persino dalla critica radicale. Basta pensare al persistere della tematica dei Consigli operai e della contrapposizione marxiana fra valore d’uso e valore di scambio relativa alle merci, ai servizi, alle tecniche, ai macchinari prodotti dal capitalismo. Sia il riferimento ai Consigli, sia quello a un preteso modo d’uso da scagliare violentemente contro l’astratta abbondanza mercantile, suggerivano che esistesse un significato umano universale da stornare dal suo involucro capitalistico. L’elogio da parte dei primi situazionisti dell’automazione ne è in qualche modo l’esempio più flagrante. Automazione a parte, la trappola era proprio l’idea che si dovesse contendere al dominio di classe il terreno dello sviluppo tecnico. D’altronde, ci si batte con quello che si ha sotto mano e che si eredita dal recente passato. «Tutti coloro che nel passato avevano voluto rivoluzionare la società avevano potuto considerare acquisito il fatto che l’autonomia operaia, l’autorganizzazione sui luoghi di lavoro praticata con determinazione, conteneva fin da subito lo scopo lontano (la riappropriazione dell’apparato produttivo), ne attualizzava la possibilità. E ogni lotta, anche strettamente rivendicativa nei suoi scopi espliciti, consentiva l’acquisizione e l’accumulazione di un’esperienza rivoluzionaria, era un momento della costituzione del proletariato in soggetto storico». Non era certo semplice – e ancora meno lo è oggi – pensare e praticare forme di autorganizzazione sapendo che ben poco di ciò a partire da cui ci si organizza materialmente può essere trasferito nella «società di domani». Il progetto di una società dei Consigli – la stessa «autogestione generalizzata» di Vaneigem ne era in fondo un’estensione qualitativa e quantitativa – è per certi aspetti l’ultimo progetto rivoluzionario nato in Occidente. Se per progetto rivoluzionario si intende ciò che si elabora dall’incontro tra la teoria-pratica di una minoranza sovversiva e quell’insieme di aspirazioni, valori, mentalità, creazioni ed esperienze di una parte della società. I Consigli, ad esempio, sono stati storicamente prima un’autocreazione proletaria e poi una teoria rivoluzionaria. Lo stesso si può dire per le collettività agricole in Messico, in Ucraina, in Spagna. In generale, la prospettiva rivoluzionaria diventa una forza materiale quando illumina ciò che una parte degli sfruttati sta già facendo e ciò che potrebbe fare. Infatti, «gli uomini non si mettono mai durevolmente in movimento per abbattere un’organizzazione sociale per mera detestazione di ciò che esiste: occorre che in una maniera o in un’altra possiedano una concezione positiva della vita che vogliono vivere». Senza questa «concezione positiva» non solo un movimento di rivolta generalizzata non dura, ma non riesce nemmeno ad arrivare al «secondo assalto» insurrezionale, cioè al passaggio che affonda sul terreno dell’irreversibilità – quando non si può più, nemmeno volendo, tornare indietro. I moti insurrezionali di cui è stato costellato il Pianeta negli ultimi dieci anni hanno, al riguardo, molto da insegnare. Quasi mai il loro colpo di inizio è lo sciopero generale. Se la paralisi dell’attività produttiva arriva, arriva come effetto di un’esplosione di collera immediatamente sociale, cioè come esigenza di coordinamento e insieme come riprova – l’unica possibile, del resto – di quanto sia esteso il malcontento. Se questa caratteristica rende più difficile il recupero da parte istituzionale, rende anche più fragile la conquista degli spazi e la tenuta nel tempo da parte del movimento. Il rientro nella normalità – che pur sedimenta sempre qualcosa per le future rivolte – avviene per la generale dipendenza dal sistema nella riproduzione delle condizioni materiali di vita (oltre che per la violenza statale, ovviamente); non tanto per i giochi politici. L’alternativa di un mondo senza Stato né denaro appare letteralmente inimmaginabile fintanto che, insieme allo scontro, non si profila concretamente un modo diverso di vivere. «L’immensità di questo compito di trasformazione, che ognuno avverte confusamente, è senza dubbio la causa più universale e più vera della prostrazione di tanti nostri contemporanei, che conferisce alla propaganda spettacolare la sua relativa efficacia».
Tornare indietro
Il ritorno del tema dei Consigli operai negli anni Sessanta aveva il senso, più che di una proposta pratica ormai fuori tempo, di un certo posizionamento. Contro la confisca riformista e burocratica della memoria storica, esso era la rivendicazione delle esperienze rivoluzionarie del proletariato, quelle «sconfitte» che rappresentavano il suo lascito più importante, laddove le «vittorie» andavano denunciate – ad Ovest come ad Est – come delle parodie più o meno sanguinarie, cioè come le peggiori disfatte. Si riscoprono e si rileggono fatti e parole del 1905 in Russia, del 1919-’20 in Germania e in Italia, del ’56 in Ungheria. Quando la contestazione giovanile del Maggio incontra e travolge il mondo del lavoro, tuttavia, emerge ben altro. Mentre arrabbiati e situazionisti invitano al «mantenimento delle occupazioni» nelle fabbriche, i giovani proletari se ne vanno al mare, senza alcuna intenzione di autogestirle. Ormai nessuno ha voglia di raccogliere quel Consiglio. Di lì in poi, sia nella teoria che nella pratica, all’aggettivo «operai» si sostituisce sempre più spesso quello di «proletari» («Ludd-Consigli proletari», ad esempio), per alludere al fatto che non vi è alcun “centro” a partire dal quale rivoluzionare la società, ma una condizione di spossessamento da rovesciare in tutti gli ambiti della vita individuale e collettiva. Quando riappare fuori dall’Europa – pensiamo alla rivoluzione iraniana del 1979, prima del suo stritolamento khomeinista –, la forma Consiglio (Shora) ha una connotazione più territoriale che produttiva. Lo stesso accade con la gigantesca sollevazione irachena del 1991 (organizzata ancora una volta in Shora) e con il movimento degli aarch nella Cabilia del 2001, esplosione insurrezionale che «cita all’ordine del giorno» un modo comunitario e organizzativo schiacciato dalle truppe francesi nel 1871.
La forma Consiglio – si pensi ai moti in Siria – non è affatto scomparsa dalla storia. Ma non ha oggi né una chiara composizione di classe, né un rapporto diretto con i luoghi di lavoro. Se riattiva qualcosa del passato, questo sembra più l’antico comunalismo – cittadino o rurale – che non gli istituti del vecchio movimento operaio. Le esperienze più durature – si pensi ad Oaxaca – si radicano là dove i vecchi legami comunitari non sono stati del tutto smantellati dal sistema capitalista. Per avanzare, insomma, i movimenti insurrezionali tornano indietro, fin dove trovano «una concezione positiva della vita che vogliono vivere». A sbarrare loro la strada è la violenza armata dello Stato. Quegli spazi, tuttavia, alludono proprio alla «costituzione di un punto di vista collettivo a partire dal quale diventa possibile condannare tutta l’innovazione tecnica autoritaria, senza più lasciarsi impressionare dall’insulso rimprovero di passatismo».
Mente locale
La tendenza «comunizzatrice» – «Théorie communiste», Gilles Dauvé e altri, ma le sue basi nascono già dopo il Maggio – da anni mette opportunamente in luce l’aura mitologica che circonda la forma Consiglio, la quale ci dice assai poco, di per sé, sui suoi contenuti. Non solo perché storicamente i Consigli sono stati recuperati dall’interno da parte della socialdemocrazia e del leninismo (molto più di quanto certe riletture rivoluzionarie non colgano); ma per un motivo più radicale, e cioè che i Consigli non escono dalla logica della gestione operaia del capitale, tutt’uno con l’idea che il comunismo sia la costituzione del proletariato in soggetto storico. Se quello tra proletariato e capitale è invece un rapporto di «implicazione reciproca», ne consegue che distruggere il capitale e abolire il proletariato sono due processi sincronici. L’universalizzazione della condizione proletaria, la quale ha fatto saltare tanto i luoghi di mediazione quanto le categorie produttive e sociali ad essa legati, pone oggi il problema della rivoluzione in termini immediatamente comunisti, senza alcuna ideologia della transizione. Ciò che questa tendenza avvolge a sua volta in un’aura mitologica è come e a partire da quali luoghi si passa dalle lotte rivendicative alla trasformazione comunista di tutti gli aspetti della vita. Gratta gratta, la logica è ancora quella secondo la quale il capitale, togliendo ogni ostacolo “corporativo” alla sua espansione, lavora involontariamente per la rivoluzione. Quindi si analizza, e si aspetta. Come se ciò che nel frattempo sta provocando la tecnologizzazione del mondo non intaccasse le basi stesse della sua sovversione.
«Poiché il territorio nella sua integralità è stato ricostruito dal nemico secondo i suoi bisogni repressivi, ogni volontà sovversiva deve cominciare con il considerare freddamente a partire da quali realtà vissute può rinascere una coscienza critica collettiva, quali sono i nuovi punti d’applicazione della rivolta suscettibili di portare con sé tutti quelli precedenti». Se è quanto meno dubbio che un simile progetto possa nascere «freddamente» – la pretesa situazionista del colpo di mano strategico è dura a morire… –, in questo ragionamento l’accento deve cadere proprio sui «punti di applicazione della rivolta». Il che non significa soltanto avere delle idee su dove intervenire quando le cose si scaldano – quando si innalza la temperatura morale di un’epoca, diceva Bloch –, ma anche fare, nel senso più letterale del termine, mente locale.
Il tipo di lettura che si dà delle trasformazioni in corso nel mondo del lavoro e nella società si traduce, in determinate circostanze, in scelte pratiche ed operative ben precise. È stato notato, sia per quanto riguarda la rivolta in Grecia del 2008, sia per quanto riguarda quella che ha sconvolto il Cile l’autunno scorso, che molte delle azioni dei compagni avevano un carattere “simbolico” (il palazzo governativo, la banca centrale), mentre una diversa analisi avrebbe potuto suggerire attacchi ben altrimenti significativi verso le infrastrutture fondamentali del dominio (energia e comunicazioni). Da questo punto di vista – ci ritorneremo in seguito – le azioni dirette che stanno scalfendo in giro per il mondo l’attuale “stato di emergenza” risultano decisamente più adeguate al tipo di ristrutturazione tecnologica in corso. Ma se questo è necessario per definire meglio una metodologia di azione, è di per sé insufficiente per un progetto rivoluzionario. I «punti di applicazioni della rivolta» non sono solo i gangli da bloccare, ma anche gli spazi a partire dai quali si comincia a vivere diversamente; cioè dove si dispiega, si articola e tiene il «secondo assalto» (quello che non è avvenuto né in Grecia, né nelle rivolte arabe, né in Cile). Si arriva sempre ad un «punto» – parola da declinare sia in senso temporale che in senso topografico – in cui la questione non si esaurisce con la quantità degli obiettivi colpiti, né semplicemente con la loro qualità, ma con il grado di irreversibilità che si riesce a raggiungere. E per questo non bastano le tecniche insurrezionali, servono le prime misure rivoluzionarie, per quanto circoscritto possa essere il territorio in cui le si sperimenta: cosa espropriare, dove e come metterlo in comune, come aggirare con la solidarietà internazionale l’assedio alimentare ecc. E siamo ben lontani, non diciamo dal “risolvere”, ma anche solo dal porci problemi di questo genere.
Come notavamo nel primo numero di questa rivista, nei nostri ambienti si tende ad usare quasi come sinonimi i concetti di sommossa, rivolta, insurrezione, rottura rivoluzionaria, mentre sono “cose” quantitativamente e qualitativamente diverse. Non si tratta di un problema di linguaggio, bensì di visione della realtà. Senza proporre qui una sorta di abbecedario per provare a capirsi un po’ meglio, continuiamo a fare mente locale. Provando a definire l’insurrezione non solo in termini di estensione – quella che si potrebbe chiamare rivolta generalizzata – ma in termini di profondità. Cioè una parte di territorio in mano agli insorti, dove lo Stato non è ancora in grado di intervenire. Questo «punto di applicazione» presuppone non solo un alto livello di scontro, dal momento che gli spazi di autonomia e di autorganizzazione vanno strappati al terreno nemico; ma anche un certo modo vivere (di decidere, di mangiare, di difendersi, di curarsi, di affrontare i conflitti interni ecc.). Il problema della durata di simili esperienze è sia materiale – nel 2001, il movimento argentino dei piqueteros non è stato sconfitto dalla repressione, ma dal fatto che dopo qualche tempo a Buenos Aires non c’era più niente da mangiare – sia simbolico. È legato, cioè, a che misure concrete vengono prese e a come le si comunica al resto del mondo. Barricate e fiamme – soprattutto nell’èra del consumo telematico delle immagini – sembrano una sorta di topos della sommossa (dalla didascalia soltanto si capisce se si tratta di Hong Hong, di Santiago del Cile o di Beirut), insufficienti di per sé a suggerirci la profondità degli eventi in corso. Barricate e fiamme, benché contengano sempre un valore teorico, possono essere mezzi per chiedere più democrazia, così come potrebbero essere l’inizio possibile di una Comune.
Toccare terra
«I sostenitori della critica sociale rivendicavano la negazione della politica, volevano che si prendessero come punto di partenza quei germi di rivoluzione che erano le lotte operaie, ma dimenticavano che i veri germi di rivoluzione non si erano mai sviluppati nell’epoca recente (in Francia nel 1968 come in Polonia nel 1980-1981) se non con la creazione di una prima forma di comunicazione liberata in cui tutti i problemi della vita reale tendevano a trovare la loro espressione immediata, e in cui gli individui cominciavano, compiendo gli atti richiesti loro dalle necessità della loro emancipazione, a costituire quel dominio pubblico dove la libertà può dispiegare le proprie seduzioni e divenire una realtà tangibile. In poche parole: non si può sopprimere la politica senza realizzarla».
Esistono almeno due tradizione di pensiero – che hanno influenzato la stessa teoria rivoluzionaria – sul concetto di politica. Una, che va da Machiavelli a Orwell, per cui la politica è l’arte del governo, cioè dell’inganno e dell’astuzia. Un’altra, che va da Aristotele ad Hannah Arendt e che ha avuto in Costoriadis uno dei rappresentanti contemporanei più conseguenti, per cui la politica è la cura comune degli affari comuni. Nella prima accezione, il totalitarismo sarebbe l’espressione massima della politica; nella seconda, i regimi totalitari – così come la presente tecnologizzazione del mondo – sarebbero dei giganteschi esperimenti di de-politicizzazione degli individui e delle società. La posizione di Marx al riguardo è ambivalente: la «comunità umana» dovrebbe realizzare la soppressione della politica come sfera separata, come regno borghese della mediazione fra individui atomizzati, cioè astratti; ma allo stesso tempo, secondo lo schema dialettico, la politica è un passaggio necessario – la conquista dei pubblici poteri da parte del proletariato – affinché al «governo degli uomini» si sostituisca la «amministrazione delle cose».
L’anarchismo delle origini ha contrapposto la rivoluzione sociale a quella politica, cioè la trasformazione di fatto al cambiamento per decreto; non solo perché emancipare una società dall’alto è qualcosa di inevitabilmente autoritario e foriero di un potere tutt’altro che transitorio, ma soprattutto perché è impossibile. Soltanto cominciando a liberarsi gli individui possono incamminarsi sulla strada della libertà. Malatesta, cui interessava di più la comprensione immediata delle formule che non la disquisizione linguistica, diceva che quella sociale è una rivoluzione che ha due anime, una economica (abolizione della proprietà privata) e una politica (distruzione dello Stato); due anime che non possono essere separate, ma che non coincidono. È l’insurrezione armata vittoriosa che apre la strada al comunismo, non viceversa. Ma all’epoca, campi, fabbriche e officine erano terreni che i proletari potevano ancora contendere allo Stato e ai padroni, benché già agli inizi del Novecento questo non significasse affatto ereditare il mondo, bensì poterlo ancora trasformare; e non solo nei suoi rapporti sociali, ma nelle sue stesse basi materiali (relazione tra città e campagna, tra attività umana e macchine, tra fatica e godimento, tra la scienza e le coordinate etico-comunitarie della sua applicazione ecc.). L’anarchismo, pur avendo una chiara collocazione di classe, non è mai stato operaista. Anzi, ha riposto spesso le proprie speranze proprio in quelle forme di vita e di lotta – le comunità agricole e le jacquerie – che i marxisti ortodossi consideravano reazionarie in quanto votate ad essere superate dallo sviluppo delle forze industriali. È proprio nelle campagne che il collettivismo anarchico delle origini è apparso come una sorta di rivelazione messianica, in quanto quel mondo contadino vedeva già nello Stato una gigantesca sanguisuga delle proprie fatiche e un ladro dei figli per l’arruolamento militare; un mondo, quello delle campagne, tutt’altro che liberato e libertario, ma che costituiva nondimeno una contro-società, orgogliosa dei propri saperi, della propria memoria e dei propri usi. (Si può pensare oggi, ma come rivelazione al contrario, all’incontro fra comunità mapuche e gruppi antiautoritari). Per questo il movimento anarchico non sentiva alcun bisogno di un dominio pubblico che non fosse tutt’uno con la dimensione economico-sociale. La distinzione arendtiana tra sfera privata, sfera sociale e sfera pubblica – distinzione che soggiace al ragionamento degli “enciclopedisti” – è stata marcata e aggravata dalle aggressioni che la società tecno-mercantile ha condotto contro ogni forma di autonomia individuale e collettiva. È vero che oggi – pensiamo a Gezi Park, ai Consigli siriani, ma persino ai gilet gialli – i movimenti di protesta, anche là dove assumono caratteri insurrezionali, si formano e si coagulano in uno spazio che non è quello della riproduzione delle condizioni di esistenza, né di un generico «territorio», bensì un «punto di applicazione della rivolta» che gli individui contendono direttamente alla gestione statale dell’ambito pubblico. Da lì, semmai, si organizzano per bloccare l’economia e la sua logistica, costretti dallo Stato a porsi il problema dell’autodifesa e della violenza. Quasi niente di ciò che precede la loro formazione, in termini di esperienza in comune e di memoria attiva, rappresenta una base da cui trarre nutrimento o una bussola per costruire una vita diversa. Sono movimenti inevitabilmente hors sol, a meno che non riescano a riattivare i luoghi della propria storia – quelle «radici» che sono «gocce del passato vivente» (Simone Weil) –, cioè a toccare terra. Ancora oggi, non solo l’anarchismo emerge con nuove energie in continenti per decenni tetanizzati dal marxismo patriottico, ma lo fa incrociando due elementi che il Progresso ha già dato per spacciati: la gioventù declassata delle metropoli e i pueblos. Sono questi ultimi che hanno fatto sì che persino un movimento degli insegnanti si trasformasse, spinto dal nemico, in uno spazio collettivo in cui il dialogo era permesso da un sistema federato di barricate. (A conferma di come i movimenti reali tornino sempre ab ovo, si può ricordare che quella dei «delegati di barricata con mandato imperativo e revocabile» era l’organizzazione insurrezionale proposta da Bakunin nel 1869). In Africa, alcuni compagni, dopo aver vissuto sulla propria pelle i disastri incrociati del colonialismo e delle rivoluzioni nazionali, teorizzano un anarchismo che riprenda e radicalizzi la tradizione del comunalismo pre-industriale.
Un casinò in fiamme
Gli effetti combinati della epidemia da Coronavirus e dei contraccolpi della globalizzazione – su cui agisce con peso crescente la corsa sfrenata ad accaparrarsi le terre e i metalli rari, necessari alla costruzione dei satelliti, alla digitalizzazione della produzione e della società, nonché alla cosiddetta transizione energetica – stanno aprendo scenari imprevedibili. Da un lato, stiamo assistendo a un’accelerazione verso un controllo totalitario senza precedenti, dall’altro la valorizzazione del capitale appare sempre più fragile, chiamando in causa direttamente lo Stato. Non solo condizioni materiali, salute e libertà stanno precipitando insieme, ma questo avviene attraverso un’esperienza di massa, e sul piano internazionale. Il potere sventola la bandiera della necessità, ma a regnare è la contingenza.
Proviamo a sostituire «nocività» con «epidemie»: «Nonostante tutti i suoi evidenti vantaggi come metodo di governo, la proscrizione della coscienza non ha quello di risparmiare le sue devastazioni alla direzione della società, che viene ad esservi essa stessa irreversibilmente corrotta. E quando tenta di porsi come garante della sopravvivenza dell’umanità, non fa che aggiungere al suo irrealismo abitudinario quello di un simulacro di guerra contro le nocività, un ultimo colpo da baro in un casinò in fiamme». A dare a tutto questo un’aria da finale di partita non sono le pretese «crisi insuperabili del capitalismo», bensì i limiti ecologici del Pianeta, che le fughe in avanti tecnologiche riescono sempre meno a mascherare.
In questo scenario, un progetto rivoluzionario non può prescindere da un’attenta analisi dei propri «punti di applicazione». E qui si torna alla questione dello spazio pubblico. Per una sorta di paradosso, il municipalismo libertario di Bookchin è uno dei riferimenti del «confederalismo democratico» sperimentato dalle comunità curde nel contesto di una guerriglia. Lasciamo da parte quanto ci sia di autopromozionale, per il PKK, in un simile riferimento. Ci interessa qui un altro ragionamento. Gli esempi storici su cui si fondava la proposta bookchiniana erano i clubs della rivoluzione francese, la Comune e la democrazia diretta dei Consigli. Più di vent’anni fa, qualcuno aveva fatto notare come non fosse possibile togliere quegli esempi di organizzazione federalistica dal loro contesto materiale e psicologico: il moto insurrezionale. Senza quella rottura – proseguiva il ragionamento – nessun spazio reale di dialogo si costruisce nelle città dello Stato. L’idea di una progressiva secessione dalla società del dominio attraverso municipi libertari via via federati fra loro non è solo un’illusione che antepone gli effetti alle loro cause, ma anche il terreno aperto a ogni tipo di cogestione istituzionale. Il fatto che Bookchin sia approdato alla proposta delle liste civiche da presentare alle elezioni comunali non è né un incidente di percorso, né un esempio flagrante di incoerenza personale: è la logica conclusione di chi pensava che il «modello insurrezionale» fosse un fantasma del passato, un’eredità ottocentesca che impediva di formulare e di praticare una politica libertaria al passo con i tempi. Ora, non solo quel fantasma è tornato ad aggirarsi per il mondo con sempre maggiore frequenza, ma è sotto il suo “incantesimo” che hanno preso forma le esperienze di democrazia diretta che vale davvero la pena di criticare (le altre si criticano da sole per l’irrealtà nociva in cui si dimenano). E la critica, come visto in precedenza a proposito dei Consigli operai, non può fermarsi alla forma (unanimità contro maggioranza, delegati revocabili contro portavoce permanenti ecc.), bensì scendere sul piano dei contenuti: i quali non sono tanto i discorsi, quanto le pratiche con cui si trasforma la vita, cosa si mette in comune oltre alle parole, il rapporto fra autorganizzazione della violenza e dialogo reale, gli ambiti sociali che vengono toccati e travolti dalla lotta. In breve, il grado di irreversibilità raggiunto da un movimento.
Che a pensare progettualmente «quel dominio pubblico dove la libertà può dispiegare le proprie seduzioni e divenire una realtà tangibile» sia soprattutto chi si tiene ben lontano dagli scossoni sociali che ne permettono la formazione, non è solo un paradosso. È un limite nostro, che certe formule magiche («distruggere il lavoro», «dinamitare l’esistente»…) concorrono a dissimulare. Ora, se vogliamo davvero tirar fuori la mano dal vaso, sarà il caso di andare più in là di quelle formule. E quindi pensare l’anarchismo non solo come metodologia insurrezionale – limitandosi a questo, non usciamo dall’ambito della forma – ma come progetto rivoluzionario. Come un insieme articolato di contenuti in cerca costante dei propri «punti di applicazione». La pratica dei gruppi di affinità e il loro coordinamento informale dicono come compagne e compagni si organizzano; nel migliore dei casi, suggeriscono in che modo stanno intervenendo in un determinato contesto, a partire da quali angoli d’attacco, per aprire quali brecce; ma di per sé – proprio perché un progetto ha bisogno di metodo, ma non è semplicemente un metodo – lasciano trasparire poco della vita per cui si battono; cioè, ad esempio, delle prime misure comuniste che cercherebbero di adottare in un contesto insurrezionale.
Tentativi incompiuti
Forse dimensione locale e dimensione internazionale non sono mai state così intrecciate. La cosa più urgente è abbozzare, a partire dai contesti concreti, un dialogo a distanza, la «creazione di una prima forma di comunicazione liberata in cui tutti i problemi della vita reale tendono a trovare la loro espressione immediata». Ad esempio, mettendo insieme, non solo sul piano indiretto delle azioni e delle forme di resistenza, ma anche su quello esplicito dei discorsi e degli appelli, il collegamento tra la “formattazione digitale” della società qui e il saccheggio delle risorse in altre parti del mondo, come anelli di un identico processo. Con la consapevolezza che soltanto una simile solidarietà internazionalista può creare le basi per contrastare il riarmo bellico in corso, verso cui Stato e capitalisti precipitano la società (dall’automazione al debito pubblico, dalla gestione delle frontiere al Green New Deal, tutto vi concorre). Tale dialogo a distanza ha bisogno sia dei tempi lunghi dell’autorganizzazione, sia di «gesti di perturbazione altamente esemplari». Serve, come cerchiamo di approfondire in altre pagine della rivista, una determinazione qualitativa del concetto di forza, intesa contemporaneamente come capacità d’impatto e come capacità di radicamento. In un mondo in cui l’«Astratto si oggettiva» ogni giorno di più, non si esce da questa condizione di «infermità sovra-equipaggiata» senza prendersi la terra. Certe “strutture di base” non si improvvisano durante gli scontri, ma vanno approntate prima. Anche la solidarietà con i lavoratori in lotta deve e può andare oltre il sostegno più o meno critico. Non limitandosi a contrastare il degrado delle condizioni di lavoro, ma creando gli spazi per giudicare collettivamente le tecniche e i prodotti stessi di quel lavoro. Attaccando, cioè, non solo la crescente miseria, ma anche quella «abbondanza avvelenata» che i movimenti contro le nocività hanno cominciato (parzialmente e contraddittoriamente) a denunciare.
Quello che la ristrutturazione capitalistica ha impedito negli anni Ottanta può tornare, nelle occasioni di rottura, come una pratica di emancipazione che richiama i tentativi incompiuti del passato.
«I movimenti di lavoratori che si dotano difensivamente di mezzi di organizzazione autonomi (coordinamenti, comitati di base ecc.) possono superare l’ambito di una lotta neo-sindacale, e in tal modo trovare aiuto, soltanto denunciando nei luoghi in cui si trovano le pseudo necessità economiche identicamente imposte a tutti. Se in un solo settore vitale della produzione (e quasi tutti lo sono, nella fragilità della sragione tecnicamente sovra-equipaggiata), dei proletari si affermassero violentemente come tali mostrando con un sabotaggio ragionato la loro superiorità umana sul macchinario della decadenza, e sapessero comunicare immediatamente la verità del loro atto, in risposta alle inevitabili calunnie, tutti i sofismi che servono ogni giorno a giustificare la vecchia corruzione mercantile si vedrebbero istantaneamente messi al loro posto». Per il momento, «è tristemente sorprendente che dei movimenti che hanno saputo diventare abbastanza potenti per farsi sentire, non abbiano letteralmente niente da dire contro il settore dell’economia in cui operano». Questo vale anche per l’ambito operaio in cui nell’ultimo decennio si è sviluppata la conflittualità più alta – quello della logistica. Nonostante i danni che scioperi e picchetti hanno inferto alla controparte, contendendo ai padroni il controllo delle condizioni di lavoro non si esce dalla lotta neo-sindacale (né dai dintorni dei magazzini); è denunciando anche ciò che producono quel lavoro e quella catena logistica che possono nascere nuovi spazi di comunicazione e sperimentarsi altre pratiche di solidarietà. Il tempo a disposizione per far diventare esplicito ciò che è implicito – ad esempio il rapporto fra la rapina neocoloniale, lo sfruttamento dei facchini e la Data driven society in costruzione – non sarà molto. Non solo per la dura repressione padronale e poliziesca che sta colpendo quelle lotte, ma soprattutto per il peso crescente dell’automazione con i suoi algoritmi, i suoi robot e i suoi smartwatch. L’accumularsi della resistenza e della consapevolezza è il crimine proletario contro il quale i padroni non badano a spese: le macchine costano di più, ma non si ribellano. Altro terreno su cui è necessario far nascere spazi pubblici di critica e di confronto è quello della salute individuale e collettiva. Anche qui, andando oltre la denuncia dei tagli e delle privatizzazioni dell’istituzione sanitaria, per mettere in discussione e attaccare sia le cause strutturali delle malattie sia la natura sempre più burocratica e iatrogena dell’industria della salute.
Quasi una premonizione
«Per quanto riguarda le nostre comunità, esse sono irrimediabilmente e sconsolatamente dipendenti, proprio come noi esseri umani, salvo quella piccola parte di persone, in costante diminuzione, ancora impegnate in agricoltura, anche se persino loro sono schiavi dei mutui. Tra le nostre città, probabilmente non ne esiste una che resisterebbe una settimana con la propria forza e nessuna riuscirebbe a evitare la più disperata bancarotta se fosse costretta ad autoprodursi il cibo. In risposta a questa condizione e alla correlata politica, l’anarchismo sostiene un’economia della sussistenza, la disintegrazione delle grandi comunità e il riutilizzo della terra». Così scriveva su «Mother Earth», nel lontano 1909, l’anarchica americana Voltairine del Cleyre (L’anarchismo e le tradizioni americane). Sono parole di sorprendente attualità, che confermano quanto gli spiriti meno incantati dalla sirene del progressismo avessero còlto con largo anticipo la tendenza del capitalismo a sradicare ogni forma di autonomia materiale dalla vita individuale e collettiva. Oggi, che gli agglomerati urbani hanno raggiunto dimensioni letteralmente smisurate e la stessa agricoltura è sempre più un ramo dell’industria, la «disintegrazione delle grandi comunità» è uno degli obiettivi primari che si deve porre un movimento rivoluzionario. Quando una minoranza, in costante diminuzione e sempre più dipendente dall’Apparato, è incaricata di sfamare il resto della popolazione, la meccanizzazione e l’artificializzazione dei processi di produzione del cibo sono tendenze tanto disastrose quanto inevitabili, a loro volta foriere di devastazioni ecologiche sempre più gravi. Tutto ciò che il sistema tecno-mercantile ci sottrare da sotto i piedi si accumula, secondo gli imperativi dell’estensione e della profondità, verso un cielo di sciagure pronto a rovesciarsi sulla Terra. Di conseguenza, parte integrante di una prospettiva di cambiamento radicale diventano i «punti di applicazione» attraverso i quali si può passare dai metodi decentralizzati di azione alle forme decentralizzate di vita. Forse mai nella storia il federalismo anarchico è stato così necessario e insieme tanto ostacolato da un accentramento di potere – ben più tecnico che politico – che si è incorporato negli ambienti materiali stessi.
Centomila, uno, nessuno
L’anarchismo ha oggi le sue carte da giocare. Mentre gran parte del cosiddetto movimento antagonista aspetta che le contraddizioni sociali esplodano da sole, anarchiche e anarchici hanno già preso l’iniziativa. La critica della tecnologia, mai abbandonata nel tempo, fa sì che ai suoi sostenitori non sfugga la posta in gioco nelle sperimentazioni condotte in nome dell’emergenza da Coronavirus. Se le condizioni economiche che padroni e Stati stanno apparecchiando per milioni di sfruttati saranno probabilmente la scintilla delle rivolte a venire, è alla luce del rifiuto dell’informatizzazione totale della società che quelle rivolte si renderanno irrecuperabili. Il dominio può rinunciare a privatizzare la Sanità e, costretto dalla violenza delle lotte, a ridistribuire in parte le ricchezze, ma l’espropriazione dell’esperienza umana da parte di processi di analisi e di produzione automatizzati rappresenta ormai cuore, arterie e vene del mondo dell’autorità e della merce.
Da questo punto di vista, il profluvio di azioni che stanno attaccando in giro per il mondo la digitalizzazione e le sue strutture è davvero incoraggiante. Non solo per la quantità degli attacchi, ma per la puntualità di questo neo-luddismo che conferma, con la semplicità dei suoi mezzi, la superiorità dell’essere umano sulla macchina. Se questa convergenza spontanea delle pratiche è possibile, non è soltanto per la critica in comune del tecno-totalitarismo, ma anche per la diffusione di metodi organizzativi decentrati e agili, che si rivelano ancora più preziosi nella misura in cui le forze statali presidiano gli spazi dell’azione collettiva. Ma, come dicevamo più sopra, se questi elementi sono necessari per una necessaria prospettiva insurrezionale, sono ancora insufficienti anche solo a tematizzare le inevitabili insufficienze di un progetto rivoluzionario.
Prendiamo il brano seguente, contenuto in un testo peraltro ricco di spunti (Riflessioni sull’anarchismo e la questione organizzativa in epoca d’epidemia – e non solo):
«L’individuo, sempre e comunque, deve essere in grado di articolare un progetto rivoluzionario. Dopo, se lo ritiene necessario ed utile, può cercare confronto e complicità in altri individui che si sono dotati del loro progetto rivoluzionario. Può anche, ovviamente, decidere di agire da solo».
Leggendo simili ragionamenti, ci chiediamo: ma cosa intendono questi compagni per «progetto rivoluzionario»? Se il concetto rinvia, come indica il suo senso storico, a una radicale trasformazione delle basi stesse di un ordine sociale, cosa significa la sua articolazione? Sul piano pratico-materiale, si tratta di quella dinamica che porta un moto insurrezionale in una fase irreversibile (quale che siano le sue conseguenze in senso qualitativo); sul piano logico-teorico, la tematizzazione rigorosa di forze, modi, passaggi, contenuti verso un mondo materialmente altro. Va da sé che nella prima accezione il singolo individuo non può affatto articolare un progetto rivoluzionario (persino da solo, se così gli aggrada…); e per fortuna, viene da aggiungere. Dal momento che l’articolazione concreta di un progetto rivoluzionario cambia non solo la vita dei rivoluzionari, ma anche quella di milioni di altri individui, meno male che la società non è diventata talmente informe e malleabile da poter essere rivoluzionata da un singolo essere umano… Ma siamo anche convinti che senza l’incontro fra un ideale e le ampie e gravi esperienze della sua elaborazione un progetto rivoluzionario non possa esistere nemmeno nelle teste (fossero pure le più illuminate). E, infatti, oggi un simile progetto non c’è, nemmeno a livello teorico. Può esistere una tensione; possono esserci delle idee chiare sul nemico, su come organizzarsi e su come intervenire. Tutto questo possiamo e dobbiamo chiedere a ciascuno di noi, per rafforzarlo mettendolo a confronto e coordinandolo con altri. Ma un progetto è un’altra cosa.
Sulla china
È proprio lì che ci troviamo. «Grande è la ricchezza di un mondo in agonia», scriveva Ernst Bloch. Per il momento, con l’iniziativa che è quasi interamente nelle mani di Stati e tecnocrati, questa «agonia» è ricca soprattutto di disastri e di coercizioni, il cui tessuto di silicio copre letteralmente la vista. Se quella di uscire progressivamente da questa «infermità sovra-equipaggiata», con l’accumulazione quantitativa delle lotte e delle forze, è un’illusione fuori tempo massimo, anche l’idea che gli scossoni delle rivolte riannodino improvvisamente i fili dell’esperienza umana e del giudizio critico risulta a suo modo consolatoria. Serve più che mai la lucidità di far proprie delle verità scomode. Ad esempio, che non c’è alcun progetto rivoluzionario bell’e pronto da ereditare dal passato; e che non esistono delle capacità umane meta-storiche su cui fare affidamento. Il dominio ha scavato a fondo. Non solo per estorcere sotto tortura i segreti della vita biologica, sfruttata fin nelle sue particelle sub-atomiche; ma anche per condizionare fin nell’intimo degli individui il senso della libertà. Nondimeno, l’ultimo decennio è stato tutt’altro che immobile dal punto di vista delle lotte, delle sommosse, delle insurrezioni. Le forme autoritarie di organizzazione fanno sempre più fatica ad imporsi nei movimenti, e lo spazio-tempo dentro il quale questi si sviluppano tende ad assomigliarsi sul piano internazionale. Resta probabilmente vero quello che diceva Gustav Landauer, e cioè che nelle epoche di rottura i rivoluzionari nascono per germinazione spontanea. Con la precisazione che se questo può valere per i rivoluzionari, non vale necessariamente anche per le rivoluzioni. E con l’aggiunta che la germinalità per sua natura non può essere progettata; può essere còlta, rafforzata, allargata.
Saranno le idee, le azioni e le prime misure rivoluzionarie a definire, in un dialogo a distanza, quei progetti che abbiano la ricchezza delle specificità locali e l’intensità universale di una chiamata alle armi. Non è di per sé l’estensione di un moto di protesta a renderlo contagioso, ma la sua profondità, il suo farsi esempio vivente, per quanto limitata sia la sua dimensione geografica. Forse ciò di cui c’è bisogno è proprio questo federalismo degli esempi rivoluzionari, in grado di risuonare e creare così le condizioni del proprio allargamento. Sarà la solidarietà internazionale ad allentare l’accerchiamento. Sarà la germinazione degli esempi a scongelare la storia di cui ogni slancio di libertà ha bisogno.
Nota
Un aspetto molto importante, stante la dimensione ecocida raggiunta dalla civiltà capitalistica, e che qui va almeno richiamato, è il rapporto fra rottura rivoluzionaria e cosmovisione. Una relazione altra tra esseri umani e natura non può che ricostruire quel nesso etico – ben presente nella filosofia del Rinascimento e ancora al centro sia delle comunità indigene sia di certe tradizioni che sopravvivono là dove la merce non ha ancora stabilito il suo dominio totale – che lega l’individuo al cosmo, l’attività quotidiana alle stagioni, ciò che si crea e quello che si eredita, la forza soggettiva e gli elementi impersonali di cui si compone, l’autonomia e il senso del limite.
Maggio 2020