“Disubbidienza civile”
Nel luglio del 1846 a Concord, nel Massachusetts, David Thoreau ricevette tramite un vigile comunale un’ingiunzione per il pagamento delle tasse. Rispose che rifiutava di versare soldi allo Stato dal momento che disapprovava la sua politica e che non voleva, in alcun modo, dare il proprio contributo alla guerra contro il Messico.
Per questo fu arrestato.
I suoi scritti, pubblicati postumi, saranno intitolati <Disubbidienza civile>.
Scrive Thoreau “…l’unico obbligo che rispetti, giustamente, consiste nell’agire, in ogni momento, in conformità con l’idea che mi faccio del bene.” Parafrasando il suo pensiero, poiché esistono leggi ingiuste, il vero posto del giusto è in carcere accanto alle vittime di un sistema iniquo. Thoreau afferma che pagherebbe le tasse volentieri per la manutenzione delle strade o per la scuola, ma si rifiuta di finanziare la guerra. E pensa che accettare in ogni caso una legge alla quale in ogni caso si deve obbedire è un segno di servilismo contrario all’indipendenza dell’individuo.
Nasce la <disubbidienza civile>.
Hannah Arendt svilupperà il concetto del diritto al dissenso che, secondo lei, dovrebbe essere seguito da una contestazione e da un rifiuto collettivo della macchina giuridica, burocratica e cinica, questo nel solco della tradizione di Gandhi che così scriveva “…la disubbidienza civile è un’infrazione a decreti privi di morale, stabiliti dalla legge”.
E’ interessante notare il senso della non-violenza gandhiana strettamente legata alla disubbidienza civile e al servizio di una causa, nel suo caso della lotta per l’indipendenza dell’India, mentre con un’operazione cinica viene ricordata solo la non-violenza di Gandhi omettendo strumentalmente il suo legame inscindibile con la disubbidienza attiva e dovuta.
L’operazione portata avanti in questi anni dalla socialdemocrazia per conto del sistema di propagandare concetti come legalità, rispetto dell’autorità, sacralità delle istituzioni e delle figure pubbliche, non violenza…riproposizione del concetto di patria, di nazione, di convivenza civile…ha ottenuto il risultato non solo di far perdere completamente la percezione della società divisa in classi, ma anche il significato di parole come “legge” che, lungi dall’essere qualcosa di neutrale, non è altro che la sanzione formale di un rapporto di forza, come “democrazia” che, a differenza di quanto ci propagandano, non è altro che la veste pubblica che si dà questo sistema…e ha quindi completamente annullato la capacità di mettere in pratica la <disubbidienza civile>.
Chi non può pagare la bolletta della luce si sente ed è trattato come un delinquente, rifiutarsi di pagare le tasse è addirittura foriero di una “scomunica sociale” quasi fosse un obbligo dettato da un dio al di sopra delle nostre capacità di comprensione, rifiutarsi di pagare il biglietto del treno al ritorno da una manifestazione No Tav provoca la calata degli agenti antisommossa e scenari di “pericolosità sociale”.
Dovrebbe diventare, invece, pratica quotidiana rifiutarsi di pagare il necessario per la sopravvivenza, rifiutare di pagare le guerre neocoloniali, l’apparato mastodontico di controllo e repressione che viene usato contro chiunque dissenta.
Mai come in questo momento storico in cui il neoliberismo, attraverso un legiferare continuo, invasivo e capillare, si arroga il diritto di intervenire in ogni aspetto della nostra vita, la <disubbidienza civile> assume connotati di presa di coscienza rispetto ai concetti di oppresso e oppressore, giustizia e ingiustizia sociale, riappropriazione della capacità di critica e di dissenso, piccolo seme per la presa di coscienza di genere e di classe.
Elisabetta Teghil da “il sociale è il privato”, 11 marzo 2012.