La lunga marcia del Nicaragua sandinista
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di Geraldina Colotti
Un giorno dopo l’altro, ha preso forma sui media italiani l’ennesima versione di comodo, che questa volta riguarda gli accadimenti in Nicaragua. L’ennesimo “racconto” a senso unico, ad uso consumo e consolazione di una certa sinistra imbelle e disincarnata. Preda della “paura delle masse” che non ha saputo guidare e a cui non sa più parlare, indignata contro “tutte le guerre” senza averne impedito neanche una, ossessionata dal pericolo del “socialismo autoritario” ma incapace di arginare l’autoritarismo vero, questa “sinistra” si abbevera a una sola fonte. Segue sempre lo stesso tipo di pifferai: le veline di polizia diffuse a livello globale.
E così, il passo truce della Conferenza episcopale nicaraguense diventa quello conciliante dei mediatori imparziali, il crocefisso al collo come simbolo di libertà e democrazia. Quello del popolo che grida: “Golpisti, assassini” ai vescovi che hanno benedetto le torture, si trasforma nel passo del paramilitarismo e della tirannia. Responsabile di tutto, la “coppia mefitica” Ortega-Murillo. Uno schema semplicistico, ancora più inutile di quello che vede a tirare le fila un solo attore – l’imperialismo Usa e le sue trame -, e non il coacervo di contraddizioni sociali, interne e internazionali, che muovono il contesto attuale.
Il 19 luglio di 39 anni fa, la rivoluzione sandinista entrò vittoriosa a Managua, dopo aver chiamato a raccolta speranze e fucili da ogni parte del mondo. L’ultima rivoluzione del secolo scorso, quello del grande Novecento, che proietta ancora i suoi “fantasmi” in questa Europa di zombi feroci. Fantasmi da seppellire o risorse per un nuovo futuro?
Nel solco di Cuba, una parte dell’America Latina ha scelto la seconda opzione, scommettendo di nuovo sul socialismo nel XXI secolo. Nell’Europa capitalista, sconfitti i punti più alti della lotta di classe, in primo luogo in Italia, hanno prevalso invece la rimozione, la perdita di riferimenti e di categorie marxiste per spiegare un mondo in frantumi che amplifica le contraddizioni.
Saperle guardare in faccia porterebbe prima di tutto a ridiscutere l’enfasi con la quale si è portato ad esempio e anzi assunto a modello strategico il compromesso tattico che ha consentito di battere le forze conservatrici a livello elettorale in alcuni paesi: dal Brasile, al Nicaragua e anche all’Ecuador. Alleanze istituzionali dai piedi di argilla, quando a far da contrappeso alla presenza dei settori capitalisti non cresce l’organizzazione del potere popolare. Un’organizzazione in dialettica tra il terreno economico e quello politico che miri a costruire nuova egemonia, togliendo sempre più spazio alle forze avverse. Si sa che negli ambiti propri dello Stato e della democrazia borghese, le destre e i loro cloni nella sinistra compatibile con il sistema hanno ben più facile gioco: sostengono i governi progressisti come la corda sostiene l’impiccato, per ricacciarli indietro, quanto più indietro possibile. Lo si vede in Ecuador, lo si è visto in Brasile, mentre non ha funzionato in Venezuela, grazie alla straordinaria vitalità del potere popolare.
Che cosa è accaduto invece in Nicaragua? Fino a pochissimo tempo fa, si è lodato il modello economico nicaraguense, dove tutti sembravano fare affari anche se ai settori popolari venivano al contempo mantenute coperture e garanzie. Con Ortega al governo e grazie all’adesione del Nicaragua all’Alba di Cuba e Venezuela, il paese ha ottenuto l’indice di crescita più elevato dell’America Centrale. Tra il 2005 e il 2014, il progetto Borgen ha ridotto la povertà del 30%. Il salario minimo annuale è aumentato dal 5 al 7% al netto dell’inflazione. Un modello che, a ben vedere, basava la propria solidità più su progetti di economia popolare che di stampo capitalista. A differenza del governo Lula che, in Brasile, ha ridotto il numero dei poveri erogando sussidi diretti alle famiglie meno abbienti, quello di Ortega ha puntato sugli investimenti pubblici per far crescere l’economia popolare.
In Nicaragua i lavoratori del settore privato sono circa il 15% del totale, mentre nel settore informale ve ne solo oltre il 60%. E a questo secondo settore sono andati oltre 400 milioni di dollari, in gran parte provenienti dal Venezuela e dall’Alleanza Bolivariana per i popoli della Nostra America. Finanziamenti diretti ai piccoli e medi agricoltori che hanno consentito al paese di produrre quasi il 90% degli alimenti necessari e di affrancarsi dai prestiti dell’FMI.
Prima con la rivoluzione sandinista e poi con il governo Ortega, si è ampliata la distribuzione della terra, sia a titolo di proprietà individuale che collettiva. Politiche che hanno favorito l’autonomia lavorativa delle donne, facendo scendere le disuguaglianze di genere al livello più basso dell’America Latina (12° posto su 145 paesi, subito dopo la Germania). Sulla scia di quanto è avvenuto con il chavismo in Venezuela, in Nicaragua si sono estese le coperture sanitarie e pensionistiche anche alle lavoratrici e ai lavoratori del settore informale: compreso ai lavoratori delle maquillas, le grandi fabbriche del tessile a sfruttamento intensivo situate nelle zone di libero commercio. Zone di sfruttamento create dai governi neoliberisti precedenti e purtroppo ancora in piena attività. Il governo Ortega, in questo come in molti altri ambiti della gestione politica, non è andato fino in fondo.
Ma proprio la riforma del sistema di Previdenza sociale che gli imprenditori avrebbero voluto imporre per risanare le finanze dell’ente, ha innescato le sanguinose proteste del 18 aprile, continuate anche dopo il ritiro della contestata riforma. Contestata da chi e perché? Certo da una parte dei settori popolari, che avrebbero dovuto contribuire – seppur con lo 0,7% – ai fondi per la pensione e la salute.
La decisione di Ortega – sicuramente poco discussa e affrettata – può essere letta, quindi, come un eccesso di sicurezza nelle possibilità di far pressione nel negoziato con il grande capitale: basata proprio sui dati della crescita economica – aumento del 38% del Pil tra il 2006 e il 2017 – , una crescita costruita principalmente dai piccoli produttori e favorita dalla spesa pubblica.
A saltare sul carro delle proteste, complice una martellante campagna di menzogne ben sostenuta dalle multinazionali dell’umanitarismo e dai loro microfoni internazionali, non sono stati però volti pacifici e puliti, in lotta per trasportare la bandiera sandinista verso una maggior democrazia con più giustizia sociale. Dietro le uccisioni, le violenze e le torture alle quali hanno assistito anche diversi alti prelati, non ci sono organizzazioni contadine e operai. Basta vedere le posizioni di molte organizzazioni contadine e indigene, conosciute a livello internazionale a partire dalla Via Campesina, che appoggiano il governo e dicono: “Nicaragua quiere paz”.
Le figure che guidano l’opposizione al governo Ortega appartengono alle classi dominanti, ai latifondisti, alle gerarchie ecclesiastiche, a quelle oligarchie scalzate dalla rivoluzione sandinista, ma sempre attive. I figli di alcune grandi famiglie hanno partecipato alla rivoluzione sandinista, ma poi se ne sono distaccati. Alcuni di loro oggi animano il Partito MRS, i cui orientamenti sono ormai lontani dal socialismo, promuovono le attività delle ong e delle associazioni, che attribuiscono a Ortega tutte le colpe, ma non si peritano di avvicinarsi sempre più alle posizioni dell’estrema destra nordamericana.
Gli studenti delle università private del movimento 19 aprile sono d’altronde stati ricevuti ed elogiati dai rappresentanti dell’anticastrismo di Miami, sempre in prima fila nel rinnovo dei finanziamenti Usa per “promuovere la democrazia” in certi paesi come Venezuela, Cuba e Nicaragua: Ileana Ros Lehtinen, Marco Rubio, Twed Cruz, e si sono anche riuniti con i rappresentanti del partito ARENA, la destra salvadoregna.
Gli ex sandinisti che scrivono sui quotidiani graditi a una certa “sinistra” europea, mostrano peraltro chiaramente il loro indirizzo, rivolgendo appelli costanti a quei settori dell’imprenditoria che hanno appoggiato il governo Ortega come garanzia di stabilità: il loro – spiegano – sarà il cavallo vincente, supportato dai dollari dell’amministrazione Trump.
Per quale canale arrivino quei dollari, lo spiega un’accurata inchiesta di Global Research. Dal 2014 a oggi, la National Endowment for Democracy (NED) ha stanziato oltre 4.400 milioni di dollari per costruire un’opposizione in Nicaragua, più di 700.000 solo nel 2017. Finanziamenti rivolti soprattutto alle Ong, con l’obiettivo di creare una cassa di risonanza internazionale e influenzare l’opinione pubblica utilizzando a questo fine argomenti apparentemente più di sinistra di chi si presenta come “vero sandinista”.
Secondo Global Research, ricevono borse di studio della NED l’organizzazione femminista Azalea Solis e l’organizzazione contadina di Medardo Mairena, mentre gli studenti del movimento 19 aprile viaggiano e soggiornano con i soldi di Freedom House, altra emanazione di USAID e NED. Una rete di circa 2000 giovani. Oltre al gruppo mediaticoConfidencial (quello di Chamorro), la NED finanzia l’Istituto di studi strategici e politiche pubbliche (IEPP), il cui Direttore esecutivo, Felix Maradiaga, è un altro dirigente dell’MRS molto vicino agli USA.
L’elenco di Global Research è lungo e getta una luce ulteriore sulla propaganda di guerra di certe grandi holding umanitarie (compresa Amnesty International), già vista in opera contro il Venezuela bolivariano.
Lo schema messo in atto è sempre quello delle “rivoluzioni colorate”, che funziona anche contro la polizia nicaraguense, fino a ieri acclamata come un esempio di vicinanza al popolo e di rispetto dei diritti umani. A differenza degli altri paesi centroamericani, il Nicaragua è finora stato portato ad esempio anche per l’alto livello di sicurezza e la bassa tassa di omicidi.
Ora, il copione utilizzato presenta tratti identici a quello visto in opera nelle proteste del 2014 e del 2017 in Venezuela (leguarimbas): video truculenti costruiti ad arte, morti messi sul conto di una parte sola, aggressioni e attacchi attribuiti a “gruppi paramilitari” al soldo della “coppia Ortega-Murillo” che si vuole cacciare dal governo come pre-condizione per dialogare. “Vogliono cambiare le cose? Lo facciano attraverso il voto”, ha detto Ortega, che nel 2016 è stato riconfermato per un terzo mandato con il 72,4% dei voti e il 66% di partecipazione. Il governo sandinista ha proposto subito un Dialogo nazionale con la mediazione della chiesa cattolica, e si è detto pronto a esaminare tutte le proposte. Intanto, è stata creata una Commissione parlamentare per la verità e la pace e una Consulta indipendente del Ministerio Publico.
Delle scelte politiche, bisognerà discuterne a fondo. Ma senza ingerenze straniere. Nel Foro di San Paolo, che si è svolto a Cuba, Ortega ha ricevuto il sostegno degli altri paesi dell’Alba e dei movimenti popolari che hanno denunciato i piani degli Stati uniti contro l’integrazione latinoamericana.