Senza amore, con rabbia.
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Una delle meraviglie meno tenute da conto dalla maggior parte delle persone è quella di avere un corpo integro. Me ne accorgo quando esco di casa, lo vedo nella noncuranza con la quale chiunque, intorno a me, ne dispone – in modi che mi sono da molto tempo preclusi, e che trovo a volte insensatamente rischiosi.
Dall’inizio di maggio il mio corpo ha smesso di nuovo di funzionare, disabilitando una parte essenziale del nostro stare al mondo, quella del nutrirsi, e procurandomi dolori intensi mai provati prima. Ovviamente, come sempre succede quando si parla di me, non si è trattato di un episodio acuto e facilmente diagnosticabile, qualcosa da affrontare tramite un’operazione o una terapia pesante ma relativamente breve e soprattutto collaudata… ancora oggi, dopo tre mesi, non ho una risposta certa a quello che sto vivendo.
E’ cominciato in sordina, per diventare nel giro di qualche settimana un’ordalia che mi ha travolta e contro la quale non sono riuscita ad opporre alcuna resistenza. E mentre l’equilibrio che ero (faticosamente) riuscita a costruirmi intorno cadeva a pezzi, mentre guardavo infrangersi la normalità rassicurante delle piccole cose che mi rendevano felice nel quotidiano e assistevo impotente al mio corpo che, un’altra volta, dichiarava guerra contro se stesso – subendo la nausea, le coliche, l’impossibilità a mangiare quasi ogni alimento, la debolezza ingravescente, l’ago della bilancia scendere in picchiata come mai prima di ora; mentre cercavo un appiglio qualsiasi che mi tenesse a galla, tra l’ennesimo prelievo di sangue e la breve passeggiata vicino a casa – fatta più per mantenere una parvenza di normalità che altro, che mi costava (e mi costa) una fatica immensa – vi guardavo. Vi guardavo ridere, correre, mangiare un trancio di pizza per strada; vi guardavo vestit* bene per una serata o caricare le valigie in macchina per le vacanze. Vi guardavo e vi invidiavo, invidiavo tutto di voi.
Nella mia esperienza di malata cronica, benché “invisibile”, i confini del mio benessere sono sempre stati assai ristretti; qualcosa di cui sono sempre stata dolorosamente consapevole, sebbene negli anni sia riuscita a tenere a bada la situazione, a volte così bene da sentirmi relativamente normale. Non mai del tutto, questo no; però alla fin fine se questo dannato corpo disfunzionale che ti è toccato in sorte non fa troppo i capricci, tutto sommato ce la fai… ad essere almeno un pò felice. Ed illuderti che forse, se ti impegni, potrai andare avanti così per sempre, o quasi.
Ma quando, nel giro di qualche settimana, la tua quotidianità si trasforma da ciò che ti definiva come persona – la politica, le persone e i pelosi amati, le passioni piccole e grandi… e pure, incredibile a dirsi, il lavoro – ad una girandola orrenda fatta di dolori, mutua, paura, esami, visite, altri esami, poche inconcludenti risposte, incertezza, pianti, sguardo perso al soffitto per un numero imprecisato di ore e la sensazione sempre più violenta di perdere qualsiasi controllo su di te, di non riuscire a frenare questa caduta in picchiata verticale, della quale non comprendi la genesi e temi l’epilogo… in quei momenti vi immagino e sì, vi invidio con tutto il mio cuore.
Non mi sento una guerriera, come alcun* malat* cronic* si definiscono. La maggior parte delle guerre non si scelgono, si subiscono; e l’eroismo non dovrebbe esistere, perché nessun* dovrebbe trovarsi a vivere determinate esperienze – ed è sottile la distinzione tra eroismo e disperazione. Quello che desidero, ancora oggi che il mio corpo non smette di aggredire se stesso, è quello che avete voi; anche solo una parte, quella piccola parte che fino a pochi mesi fa mi sembrava di aver conquistato e dava un senso alla mia vita, permettendomi di essere qualcuno… non solo carne sofferente.
Quel benessere minimo che non mi permetteva di sentirmi mai “normale” – se normale significa qualcosa, e soprattutto se significa qualcosa per me, cosa di cui dubito – ma di mettere tutte le mie energie nel cercare di immaginare e lottare per un mondo assai diverso da quello in cui viviamo; e anche, in fondo, di trovare una precaria quanto preziosa dimensione di felicità.
Oggi scrivo per me e per chi, come me, si trova a vivere in un corpo disabile, nel senso più ampio possibile che si possa dare a questo termine – disabilità fisiche e psichiche, visibili e invisibili. Oggi scrivo per dare voce alla rabbia, alla disperazione, alla vulnerabilità, all’amarezza. Alla voglia di mollare tutto, alla voglia di strapparmi di dosso questo involucro difettoso che non ho scelto.
In un mondo che glorifica le/i martiri quando le/i martiri sono altr*, completamente incapace di vedere i propri privilegi; in un mondo nel quale devi sempre performare, anche nel dolore: devi essere eroic*, forte, indomit* e coraggios*. Dove devi guardare in faccia le difficoltà e superarle, costi quello che costi, devi essere un esempio, un faro nel buio della notte.
In un mondo come questo io rivendico il mio diritto ad essere fragile, ad essere stanca, ad essere arrabbiata. Rivendico l’invidia che provo per voi, per i vostri corpi così funzionanti da farvi pensare che sia qualcosa di normale poter fare quello che si vuole quando lo si vuole… da farvi credere che la vita sia questione di volontà, e non di possibilità, e che le possibilità non sono per tutt* le stesse.
Lo faccio per me, ma non solo per me. Perché so che siete lì fuori, compagn* di sventure, di corpi sofferenti senza colpa alcuna (e che abbiate pelle o penne o setole o squame, per me non fa differenza). So che come me, conoscete bene quei momenti in cui la vita è la fuori, e voi siete intrappolati in questa bolla che annienta ogni cosa, a cercare di sopravvivere. E trovo ingiusto che vi si chieda, che ci si chieda, di essere sorridenti, coraggios*, indomit*. Come se proprio noi, all’apice della nostra vulnerabilità, dovessimo dimostrare a chi sta bene che l’afflizione, in fondo, non fa poi così paura.
Invece è così, piaccia o meno: sofferenza, angoscia e perdita di sé fanno tremendamente paura, dovreste temerle anche voi che ancora non le avete nemmeno viste in faccia. Noi siamo qui, e le fissiamo negli occhi: e anche se ognun* non può che affrontare da sol* i propri demoni, forse se ci prendeste per mano qualcosa cambierebbe.