Vivere in un corpo malato-Riflessioni sull’abilismo
Da tempo – all’incirca da quando, qualche mese fa, abbiamo tradotto la Teoria della Donna Malata su Les Bitches – ho cominciato a desiderare di fare coming out della mia condizione di malata cronica. Eppure ho continuato a procrastinare questo scomodo appuntamento con me stessa, distogliendo l’attenzione e proiettandola su altri argomenti, meno intimi e perciò meno delicati da trattare. Persino adesso, mentre scrivo, le parole – solitamente amiche e alleate – si fanno sfuggenti e capricciose, e il cursore lampeggia per un tempo fastidiosamente lungo, mentre cerco di dare una forma compiuta ai miei pensieri.
Molti di coloro che sperimentano la malattia, non come accidente – inevitabile eppure passeggero – ma come compagna di vita, riconoscono un prima e un dopo: il ricordo di un passato nel quale si era “normali”, organismi apparentemente totipotenti, e un presente fatto di compromessi e limitazioni, preoccupazione e dolore. E vergogna.
Il mondo nel quale viviamo elargisce i propri privilegi non solo a chi è maschio, bianco, eterosessuale, benestante, di cultura accademica, eccetera eccetera. L’Uomo paradigmatico, il tipo ideale è intrinsecamente normoabile. Il corpo rappresenta la “macchina meravigliosa” che gli permette di esprimere tutta la potenza del suo essere, il mezzo attraverso il quale si erige sul mondo e ne succhia la forza vitale.
Persa questa caratteristica, il corpo – diventato ostacolo – si fa patetico involucro mal confezionato, gli occhi che lo incrociano sulla propria strada si allontanano in un misto di pena, imbarazzo e terrore. E lo sguardo che più spesso incontriamo ogni giorno è il nostro, nello specchio. Il corpo malato è un fantasma terrificante.
Ho odiato a lungo il mio corpo. Un corpo che, esteriormente, non ha mai mostrato i segni della malattia, e che dunque se da un lato mi ha permesso di performare la normalità – ed evitare, quindi, sguardi di compatimento e discriminazioni evidenti – dall’altro mi ha reso la vita, spesso, intollerabile.
La malattia cronica porta con sé le sue inseparabili sorelle: Frustrazione, Stanchezza e Sofferenza. Ricordo il prima: non c’era cosa che sentissi di non poter fare, viaggiavo, facevo festa per giorni senza sosta, studiavo per notti consecutive… il mio corpo era il tramite perfetto della mia curiosità per il mondo e della mia eccedente vitalità.
Ed è vivido nella memoria anche il momento in cui la prima delle mie scomode compagne di vita si è palesata, il senso di smarrimento, il cosmo che capovolge il suo asse e ti fa scivolare giù, in un crepaccio sdrucciolevole e senza appigli. Il rifiuto, la rabbia, il patteggiamento, la depressione e forse, un giorno, l’accettazione. Perché scoprirsi malat* cronic* è vivere un lutto, la perdita del proprio senso di integrità.
La quotidianità si deve riadattare intorno a limiti un tempo sconosciuti, nuovi rituali quasi mai piacevoli vanno obbligatoriamente rispettati, l’energia (un tempo pressoché infinita) scema, e quando si tenta di “forzare” il proprio limite, se ne pagano le conseguenze con tale gravità da arrivare, prima o poi, a rinunciare anche ad attività considerate estremamente appaganti e fortemente desiderate.
Ho lasciato indietro così tanto di me e di ciò che mi dava gioia, da non tenerne nemmeno più il conto.
E poi c’è il dolore: il dolore cronico non è come quello acuto, ha una qualità diversa. Spesso non è lancinante – almeno, non continuamente – ma è come una goccia paziente che scava, scava, scava, fino a far vibrare ogni corda del tuo essere, a diventare il fulcro di ogni sensazione, il velo che si frappone tra te e qualsiasi altra cosa, un flusso incessante che scorre nelle terminazioni nervose rendendole ipersensibili e costantemente irritate.
La vita in quei momenti è fuori di te, e tu resti intrappolata in un aldilà di sofferenza. Provi a resistere, a distaccartene, a restare aggrappata al mondo, ma la maggior parte delle volte è un’illusione: alla meglio è come uscire ogni tanto da un mare scuro e profondo e prendere un respiro affannoso, per poi sentirti trascinare nuovamente nelle profondità del male. Alla peggio, ti senti soltanto affogare.
La mente diventa la tua peggiore nemica: perché di fronte ad un male terribile ma acuto esiste sempre la speranza della guarigione ad iniettarti la forza di lottare, mentre nelle patologie croniche la consapevolezza che non riavrai mai il tuo “prima”, unita all’angoscia per il deterioramento inesorabile che ti aspetta nel futuro e alla stanchezza della condizione presente possono renderti cronicamente depressa e disperata.
Eppure in qualche modo devi funzionare. Sei obbligata a funzionare, anche se il corpo – e, di conseguenza, la mente – si rifiuta di collaborare. Devi performare la normalità: se puoi, e finché puoi, nascondi la tua condizione. Il che si rivela, al tempo stesso, un bene ed un male: perché se da un lato ti evita pietismi e sguardi imbarazzati, dall’altro fa sì che le persone abbiano un certo tipo di aspettative da parte tua.
E’ incredibile come un bel viso, un vestito grazioso e un aspetto giovane rendano le persone incredule rispetto alla disabilità e alla malattia cronica. Se hai un aspetto gradevole, NON PUOI essere malata, dunque probabilmente sei ipocondriaca.
E anche tu, quando ti guardi allo specchio, non riconosci in quello che vedi i segni della patologia: eppure c’è, anche se non si manifesta esteriormente te la senti addosso come uno spirito maligno che ti morde vorace brani di carne, incatenata come Prometeo ad un corpo condannato ad una sofferenza perennemente rinnovata.
Essere in buona salute è considerato perlopiù scontato: alla richiesta di nominare un privilegio personale, la risposta più probabile sarà “essere maschio”, oppure “essere bianco”, o ancora “essere eterosessuale”… quasi nessuno dirà “essere sano”, tanto questo privilegio è invisibile a chi ne gode. In questo senso, mi sembra di scorgere fruttuose analogie con il fare parte della categoria definita “umana”: il privilegio più grande, invisibile e scontato, quello che primo tra tutti ci rende, almeno teoricamente, “non sacrificabili”. Non a caso, l’oppresso si scopre sempre “animalizzato”, meno che umano e pertanto non degno di tutela.
Il nostro corpo, che nella concezione dualistica che permea il pensiero occidentale è in posizione di inferiorità rispetto alla mente/spirito, si scopre tanto più animale perché imperfetto e impermanente eppure irriducibile e vitale, alla costante ricerca di un fragile equilibrio per continuare a prosperare, ancora un giorno, forse un’ora o un solo minuto… per traghettarci nel mondo, per usare al meglio il tempo che abbiamo, per lasciare una traccia positiva del nostro passaggio e per godere.
Perché il corpo animale desidera, sopra ogni cosa, vivere