In memoria di Luca Varani
Erano le sei e un quarto circa. Spiluccavo pastarelle in piedi. Scorrevo il rinfresco come il fotogramma ignorabile di un film mediocre, attingendo a vassoietti di carta rosa antico adagiati sui banchi verdi dell’androne di scuola. Ero arrivato da poco. Avevo trascinato con me il mio ragazzo, nell’idea semplice e ingenua di farlo più partecipe della mia quotidianità. Una festicciola prenatalizia m’era parsa un’occasione adatta, per distensione e convivialità, così c’eravamo incamminati da casa mia per percorrere il chilometro e mezzo che percorro ogni giorno, per approdare nel parcheggio e poi salire le scale che mi portano sui banchi. Gli altri, alunni e professori, si apprestavano a brindare.
Nel bel mezzo dell’estate appena precedente, a latere di due anni di abbandono scolastico, depressione immobilista e vari mesi di psicoterapia, insorse una improvvisa epifania. Non m’importava un bel niente di diventare grafico pubblicitario! Con un’impulsività a me sconosciuta mi precipitai a fare la cosa giusta, dare il via al mio rinnovato progetto di vita. L’afrore estivo di metà luglio era palpabile, in un senso molto poco aulico: potevo tastare fiotti di sudore scendermi sul volto. Aspettavo sotto il portico della mia futura scuola il coordinatore della mia futura classe, che avrei scoperto essere poi il mio professore di italiano e storia nel corso serale di elettronica che mi aspettava alla partenza nelle ultime giornate settembrine. Venne il mio primo giorno di scuola, non il primo in assoluto, ma certamente il primo che davvero desidero ricordare. Sulla via di casa non riuscivo a trattenere lacrime di commozione, per aver deciso che direzione dare alla mia esistenza, ma soprattutto per aver trovato una volta in vita mia una classe in cui non sentirmi, per una volta, l’eterno escluso.
Ero lì, ed era la mia prima vera festa coi miei primi veri compagni e compagne. Non solo quelli con cui condividevo l’anno, ma tutti quelli che in giro per i corridoi potevo incrociare almeno un istante al giorno, o quasi. Nella condivisione cruciale del frangente nanoscopico dell’incontro, esiste un affetto implicito ed etereo, che ti lega indissolubilmente a qualcuno di cui non sai nulla che forse neanche saluti, ma che esiste in quello spazio e in quel momento, e del quale in fin dei conti t’importa. Quando decisi di iscrivermi feci fatica a trovare un articolo, una testimonianza, qualcuno che menzionasse queste benedette serali, e mi domandavo come fosse possibile che una esperienza tangibile della pubblica istruzione fosse tanto soggetta a un pubblico e sostenuto processo di rimozione. La mia ultima memoria a riguardo riguardava una mia insegnante delle medie, intenta a minacciare un altro suo allievo. «Se non t’impegni, finirai alle serali, e poi a lavorare!». Ecco che lei con queste parole evocava l’idea uno spazio mefistofelico, destinato ai disobbedienti, ai pigri, agli emarginati. A suo tempo archiviai l’informazione in uno spazio recondito della mia testa, ignorando il tutto. Poi mi ricordai. Capii. Le scuole serali sono un luogo della liminalità, che esiste e non esiste, dove la realtà si confonde con il sogno, a volte vivido e sereno, a volte irrazionale e surrealista; così, imprevedibilmente, la fraseologia punitiva della mia docente di allora era al contempo verità e bugia. E sì, in effetti non si può negare che un luogo simile possa essere destinato almeno in parte ai reietti, poiché senza dubbio destinati piuttosto spesso, per le più disparate ragioni di reddito e di vita, ad avere un percorso formativo pieni di buchi, discese, salite, stop, semafori. Ma in questa strada che non conosce nessuno esiste simultaneamente l’ordinario e lo straordinario, il perfezionismo e la tranquillità oziosa, e molte altre contraddizioni e sfumature che amo e proteggo. Questo, almeno, è ciò che penso fra me e me, mentre sono leggermente brillo. Ad un tratto, questo tipo mi versa un bicchiere di spumante, senza che io gliel’abbia chiesto. Accetto, sorrido, ringrazio. Chiacchiero, rendo manifesta l’esistenza del mio ragazzo, seduto sui gradini che portano al primo piano. Non è che la notizia desti chissà che stupori e continuiamo a scambiare due parole. Mi manca il coraggio di chiedergli come si chiama. È così strano pretendere un’identità da una persona con la quale hai già coltivato semi di confidenza, sembra di domandare il nome al parente che viene a pranzo ogni domenica, con tutti gli imbarazzi e gli screzi del caso. In questo momento so come ti chiami e non avrei voluto saperlo così.
È tutto così assurdo. Certe cose sembrano accadere solo al cinema, in un telefilm, in un romanzo pulp, in ogni caso in una bolla immaginaria così lontana da qui. Viviamo in una periferia, in periferia cose brutte capitano, non più spesso che altrove, ma forse con più silenzi stampa strozzati; però capitano, al massimo si finge che non lo facciano. Eppure nulla sembra realistico. Com’è possibile immaginare in fondo che il ragazzo che ha frequentato la mia stessa scuola – a poca distanza dalla via di questo quartiere dove gli anziani fanno la spesa e i commessi non hanno mai il resto – possa essere davvero stato la vittima di una violenza così sadica e gratuita? Perché è successo? Quale vuoto infinito può guidare un coltello solo per sentire che effetto fa? Quello di una generazione frustrata dall’incapacità di incidere davvero su qualcosa nel mondo. Forse. Chissà. Tanti giornali scrivono scemenze, congetturano per attirare clic, mettono il naso nella vita privata, creano pruriti scandalistici dove c’è soltanto una tragedia. Si spera che i posteri possano perdonarci, per questa volontà necrofila di rimestare nella vita altrui ed esporla in pubblica piazza, per questa inabilità a rispettare il dolore, e a volte, semplicemente, tacere.
di Louis Lorenz