Primum placere: Il destino comune di donne e cagne
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Circa due settimane fa, una delle cagne del mio branco familiare mi ha lasciata.
La mia relazione con lei è sempre stata ambivalente: le volevo bene, ma non era esattamente il prototipo del cane amorevole, appiccicoso e interattivo che, per quanto ne riconosca gli aspetti a volte morbosi ed un pò ossessivi, mi gratifica intensamente a livello emotivo. Io la definivo un “can-gatto” poiché mi pareva cercare una connessione con me soltanto in funzione del soddisfacimento dei suoi bisogni primari – e questo la dice lunga sui pregiudizi che ho verso i felini.
Non conoscevo le sue esperienze dei primi anni, avendola adottata già adulta in canile: perciò non so dire se il suo comportamento fosse dovuto al carattere o alle esperienze (o più probabilmente, ad entrambi). Era un cane distaccato, non solo da me, ma visibilmente dal resto del “suo” branco canino.
Eppure con loro aveva stabilito una relazione chiara e reciproca: era la più vecchia, quella arrivata prima, li aveva cresciuti tutti segnandoli con “il marchio” (un morso dato ad ognuno dei cuccioli entrati nella mia casa, proprio sul naso). Loro la rispettavano con deferenza; più spesso – soprattutto quando impegnati in giochi sfrenati – la ignoravano, ma sempre attenti a rispettarne gli spazi personali: le invasioni corporee non venivano tollerate.
Lei viveva nel suo mondo, nel quale, subito dopo il soddisfacimento dei bisogni primari di nutrimento e sonno, erano di importanza capitale due attività da me francamente detestate: abbaiare a qualsiasi cosa si muovesse nel raggio di chilometri, e annusare con una lentezza snervante (per la sottoscritta) qualsiasi traccia odorosa lasciata dai suoi simili (in realtà, forse, da qualsiasi essere vivente).
Ho sempre saputo di non provare, per lei, quello che provavo per gli altri miei cani; e la cosa, almeno inizialmente, l’addebitavo a questi suoi atteggiamenti ‘sgradevoli’ e poco gratificanti (ma per chi?).
Era palese che lei stesse bene, anzi benissimo. Era perfettamente calata nella sua quotidianità fatta di piaceri che nulla avevano a che fare con me e spesso, con chiunque, umano o cane.
C’è da dire che a volte, ma solo quando lo decideva lei, mostrava per qualcuno di noi un guizzo d’affetto: una corsetta amichevole, una zampata di richiesta d’attenzioni, un’espressione sorridente che ha sempre mandato me – e pure gli altri cani – in brodo di giuggiole… ma non avevi il tempo di goderti questa apparente connessione, che subito la interrompeva, per tornare persa nei suoi interessi solipsistici.
La cosa mi ha sempre fatto provare un’intensa frustrazione: perché era così diversa dagli altri, loro così amorevoli, così dipendenti, con gli occhi perennemente fissi nei miei a chiedermi “Cosa pensi? Che si fa? Mi vedi, sono qui! Io ti vedo! Giochiamo?”. Così, lentamente ma impercettibilmente, il confine invisibile tra “noi” e “lei” (ma in realtà dovrei dire più correttamente tra me e lei) si faceva sempre più profondo.
Le volevo bene, questo sì, ma non allo stesso modo.
Pensavo che la cosa fosse reciproca, che anche lei mi volesse bene, ma non certo come gli altri cani del mio branco. Eppure, col passare degli anni, aumentava in me un senso di disagio: mi rendevo conto che quello che faceva di diverso dagli altri, era il suo vivere per sè stessa. Lei NON MI GRATIFICAVA, non si prestava a soddisfare le aspettative che avevo nei suoi confronti, perlomeno non del tutto. E la sua imprevedibilità, il suo decidere se e quando acconsentire ad un rapporto con me – se e quando ascoltarmi, se e quando giocare o mostrare affetto, se e quando deliberatamente ignorarmi – era così frustrante, da allontanarmi emotivamente.
Lei non aveva bisogno di me, non mi amava in maniera così totalizzante? Nessun problema, avevo un branco di cani amorevoli al limite della devozione cieca con il quale soddisfare le mie aspettative.
Il tempo, la vecchiaia – e la malattia che l’ha accompagnata – hanno scalfito la sua scorza dura e indipendente: pian piano ha cominciato ad essermi più vicina, a cercare più coccole e attenzioni, a guardarmi più spesso e con occhi più dolci. E ammetto che, per quanto non fosse bello vederla diventare fragile, da un certo punto di vista ero contenta. Finalmente entrava in relazione con me come mai aveva fatto prima.
E ho iniziato a temere seriamente la sua morte, in maniera intensa e irrazionale: ora sì, era diventata il MIO cane, il cane che avevo desiderato da sempre, ora ero libera di sperimentare quello che non ero riuscita a fare per tanto tempo, un amore simile a quello che sento per gli altri membri del branco.
E lei, puntualmente, mi ha lasciata. Da fragile e bisognosa quale era negli ultimi mesi, ha ripreso le distanze di un tempo – questa volta per sempre.
Io sono rimasta qui, affranta e confusa. I miei pensieri hanno preso forme inusuali, e mi hanno portato a calcare percorsi inaspettati.
Ho cominciato a vedere me stessa riflessa in lei, e poi ancora a vedere ogni donna riflessa in lei, e in me ogni uomo, anzi no, l’Uomo: quello bianco, eterosessuale, ricco, misura di tutte le cose, ecc.ecc.
Quello che aveva rovinato dall’inizio la nostra relazione erano le mie aspettative nei suoi confronti: il mio volerla incasellare in un’idea predefinita che mi portavo dentro, l’idea di come un cane debba essere, e poi l’idea ancora più fondamentale di quale rapporto dovesse instaurarsi tra me e lei. Lei doveva adorarmi, doveva aver bisogno di me, doveva gratificarmi: certo, poteva avere un qualche suo piccolo spazio personale, una sua peculiarità, ma erano sicuramente aspetti secondari rispetto a ciò che io VOLEVO da lei.
E lei, lei non aveva corrisposto alle mie aspettative: pur amandomi, “a modo suo” (ovvero senza dipendenze di mezzo), aveva sempre prima di tutto salvaguardato i suoi spazi, il suo modo di essere. E quanta fatica avevo fatto ad accettarlo, se mai l’avevo fatto. Solo alla fine, sentendosi più fragile, aveva acconsentito ad abdicare parzialmente alla sua libertà, ed io? Ne ero stata contenta!
Proprio io, donna e femminista, dovevo saperlo bene: lei non era nata per me, per soddisfare le mie esigenze, per compensare le mie mancanze. Era un essere unico e perfetto in se stesso, libero di scegliere in ogni momento se e come amarmi, e in che misura. E così ho pensato a quante volte, nella mia vita quotidiana, mi sento investita di aspettative non mie. A quante volte vedo le altre donne sforzarsi di resistere a questa richiesta continua di attenzioni, o affannarsi per soddisfarla.
Quante volte dobbiamo esistere solo per il piacere dell’altro. Quanto spesso ci sentiamo sbagliate e inadatte. Quanto spesso siamo investite dai cliché che ci riguardano e che la società patriarcale, da quando nasciamo, ci dispensa a piene mani. Quanto spesso diventiamo cagne agli occhi altrui, perché troppo indipendenti o troppo intraprendenti, comunque sempre troppo distanti da “quello che dovremmo essere” – un dover essere che cambia non solo a seconda delle latitudini e dei cicli lunari, ma anche, febbrilmente, di ora in ora e di incontro in incontro.
Noi donne, remissive e dipendenti o ringhianti e mordaci, siamo cagne: e come per i cani, di qualsiasi sesso e dimensione, ci si aspetta da noi di essere lo specchio di chi abbiamo di fronte.
Uno specchio passivo ma gratificante, uno specchio compiacente e mai invadente, uno specchio che rifletta credenze ed esigenze di un altro essere vivente, che, per nessun valido motivo – se non la consuetudine e più spesso la forza – accampa diritti su di noi e millanta un valore aggiunto che deriva solo dal potere che è in grado di esercitare sulle nostre vite.
Quando siamo più di questo, quando siamo assertive, autodeterminate, quando viviamo per noi stesse – o almeno ci proviamo – diventiamo un fastidio, una frustrazione e francamente anche un pericolo: non sia mai che altre seguano il nostro esempio!
Certo, questo la dice lunga anche su chi detiene il potere: che forse ha la forza brutale dalla sua, quella che spezza le schiene e le volontà, o quella della consuetudine creata a misura dei suoi desideri, ma non ha la forza interiore, quella che non piega gli altri esseri ai propri desideri e ne rispetta l’esistenza nella consapevolezza della reciproca unicità. E’ una forma di debolezza anche questa, ma di quelle che divorano vite, una fragilità avida e pericolosa, ben diversa da quella di chi la subisce.
Ora lei se ne è andata, e non c’è richiamo che tenga: non tornerà, e anzi il suo ricordo si affievolirà giorno dopo giorno, fino ad aver bisogno di fissare una sua foto per ricordare sensazioni che ora sento vive nella mia pelle.
Ma quello che mi è rimasto di lei, il suo lascito più grande, è un monito a me in quanto donna in un mondo patriarcale – e, allo stesso tempo, in quanto umana in un mondo specista: primum non placere, ma vivere… e lasciar vivere.