Miseria e arroganza del suprematismo

Miseria e arroganza del suprematismo

Dal blog dakobaneanoi, un interessante intervento di Dilar Dirik, giustamente impietoso nel mostrare le miserie della whiteness e dei suoi privilegi.
Buona lettura!

L’immaginazione di alcuni esponenti della sinistra che vanno in Rojava dai paesi a capitalismo avanzato e si aspettano di trovare lì una rivoluzione senza macchia, perfetta, priva di contraddizioni, liscia e compiuta – e buttano via tutto quando non appare come se la sono raffigurata nelle loro versioni imbiancate che servono solo a rinforzare la loro struttura ideologica – illustra molto bene una questione più ampia della sinistra in Occidente: essa è troppo d’élite per conoscere le realtà sociali di base (perché la maggior parte di queste persone interessate non sono affatto “la base”: sono ontologicamente borghesi, a prescindere dalla loro presunzione), troppo positivista per cogliere le profonde questioni sociali che hanno molto più a che fare con le speranze e i dolori  storico-emotivi delle persone che con le strutture teoriche, e troppo pigra per sforzarsi e provare la fatica di mobilitare quello che astrattamente chiamano “il popolo”.

Il maggior problema  della sinistra bianca è quello di essere più occupata a parlare di radicalismo in modo inaccessibile, con compagni di lotta che godono degli stessi privilegi e dello stesso vocabolario, piuttosto che risolvere veramente i nodi gordiani della società.

In particolare, il maschio bianco istruito ha il lusso e il privilegio di poter visitare ogni luogo di rivoluzione, di appropriarsene a suo piacere e di criticarlo, senza clausole e senza mai sentire la necessità di guardare nel proprio cortile. [Non potrò mai perdonare l’arroganza della donna che, dopo aver trascorso tre giorni in Rojava, ha detto con disinvoltura “Sono andata in Afghanistan nell’anno X ed erano molto meglio organizzati di voi, ragazzi”].

Con un gigantesco senso di proprietà senza responsabilità, può unirsi a livello internazionale, separarsi a livello locale, e viceversa.

Egli non ha alcuna identità, come invece la hanno le persone che vivono attraverso le rivoluzioni: trascende etnia, nazionalità, genere, classe, sessualità, fisicità, ideologia.

È l’incarnazione del difetto, lo status quo, non può vivere o conoscere il significato della devianza. Non sa che la maggior parte delle lotte inizia con una richiesta di riconoscimento, di un posto nella storia, perché è lui a scriverlo. Così egli spesso non riesce a cogliere le motivazioni rivoluzionarie al di là della teoria.

Ecco perché rinuncia così facilmente alla solidarietà con le lotte per un purismo ideologico che è forse una delle più grandi espressioni del suo privilegio – può permettersi di essere ideologicamente puro in modo dogmatico, teoricamente coerente, perché il suo interesse per una lotta non è questione di vita o di morte, non è questione di sopravvivenza, ma di mero interesse personale.

Avendo incontrato molte di queste persone nell’ambito della solidarietà per il Rojava, la maggior parte delle quali è completamente ignara del danno emotivo che sta creando, mi sembra che il fascino che esercitano su di loro l’anarchismo, la democrazia radicale, il femminismo, ecc., spesso abbia più a che fare con il rifiuto dell’autorità per proteggere le proprie anguste libertà individuali che non con l’organizzare davvero una società che sia politicamente consapevole.

Quanti fra questi credono davvero che una madre di dieci figli che non sa leggere possa avere una maggiore consapevolezza politica di loro? Quanti darebbero fiducia a questa donna perché diventi responsabile delle decisioni? Quanti di coloro che rifiutano la leadership di Öcalan in modo così dogmatico in realtà mettono se stessi e “il popolo” sullo stesso livello? Quanti avrebbero la pazienza e lo spirito di sacrificio per dedicarsi completamente ad una comunità, al punto da essere disposti a morire per quella?

Se pensano che mentalità vecchie di migliaia di anni e l’oppressione interiorizzata scompaiano con alcuni consigli e assemblee, chiaramente partono da premesse sbagliate – un modo di pensare meccanico imposto ad un essere vivente organico come la società. 
Ed è per questo che, proprio come hanno velocemente adottato il Rojava in modo (forse inconsciamente) paternalistico, altrettanto rapidamente se ne liberano; perché chiarire gli errori, le carenze e gli ostacoli che le rivoluzioni affrontano – e non sarebbero rivoluzioni se non facessero degli errori –  richiederebbe uno sforzo e un lavoro che non sono disposti a fornire, perché le gelide conferenze con torta e caffè sono luoghi più convenienti per gli sproloqui radicali che non l’inferno chiamato Mesopotamia.

Poiché nelle lotte reali della vita non ricevono la gratificazione immediata che la loro interiorizzata mentalità capitalistica richiede, possono lasciar cadere molto rapidamente i momenti storici della rivoluzione e rimanere a filosofare fino alla morte, senza mai raggiungere qualcosa che sia degno di essere chiamato cambiamento.

Naturalmente, se ne andranno dal Rojava perplessi, sperando di fare almeno qualche dollaro spacciandosi per esperti critici, mentre queste madri con dieci figli, mobilitate politicamente, continuano ad essere la vera minaccia per lo status quo.


Dilar Dirik (20 settembre 2015)

Questa voce è stata pubblicata in Internazionalismo e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.