“Bronx” di Torrevecchia

Riceviamo da Noemi Fuscà

“Bronx ” di Torrevecchia

I fatti avvenuti al “Bronx” di Torrevecchia nelle tre settimane appena trascorse ci impongono una riflessione sull’attuale situazione delle case popolari e sugli spazi d’intervento politico che si prospettano. Come è stato già scritto, non ci riconosciamo in tutto ciò che avviene nel mondo delle case popolari, ad esempio vendite e svendite di alloggi, fatte per lo più da piccoli speculatori che gestiscono un vero e proprio racket, non appartengono al nostro DNA. Pensiamo tuttavia che gli inquilini delle case popolari, con o senza titolo, siano un soggetto sociale che non possiamo, specialmente in questo momento, ignorare.
Da un lato, infatti, la lotta per la casa non si esaurisce nella rivendicazione di un diritto per tutti e tutte, ma ha dimostrato, sebbene con alcune parzialità, di essere anche una delle più efficaci forme di attacco alla produzione di valore nella metropoli di cui disponiamo; dall’altro quello che abita le case popolari, è un soggetto sociale, portatore di una conflittualità inespressa, con cui non entriamo in contatto nei percorsi delle nostre lotte.
Per entrambi questi motivi, rapportarsi con quanti vivono una particolare precarietà abitativa, quella che troviamo nelle case popolari, non è solo una possibilità ma anche un’esigenza. In quest’ottica non ci interessa ricercare la purezza delle dinamiche sociali, ma contraddizioni e potenzialità.
Se tante delle pratiche istintive, in qualche modo storiche, messe in campo dagli abitanti del “Bronx” non ci convincono, altrettante le abbiamo scoperte compatibili se non identiche alle nostre; riuscire a misurarsi con le contraddizioni forti che in questo contesto esistono può forse essere l’unico argine al proliferare di situazioni di razzismo e clientelismo come quelle che abbiamo visto a Tor Sapienza.
L’intervento su di un soggetto complesso come quello che abbiamo individuato, rende necessario definire i margini in cui intendiamo agire e di conseguenza abbiamo bisogno di una grande chiarezza, nei rapporti con gli inquilini, rispetto ai nostri intenti. Questo vuol dire anzitutto marcare la distanza da istituzioni, partiti politici e sindacati, ma anche da quelle situazioni, politicamente incompatibili con il nostro agire, più “ingombranti” su questi territori, quali l’Unione Inquilini e le presenze fasciste; in parte l’abbiamo già fatto, ma inevitabilmente questo dovrà essere un lavoro costante. Segnare nettamente questa distanza è essenziale per la creazione di forme di autorganizzazione popolare capaci di relazionarsi alle istituzioni in autonomia e senza chiedere elemosina, misurando nella pratica della lotta i passi verso l’affermazione di una prospettiva politica antagonista.
Dobbiamo quindi coinvolgere gli inquilini in questa differenza, senza illusioni e senza paure, non pensando di poterli semplicemente inserire nelle nostre lotte ma cercando di mettere le basi perché si possa creare un rapporto dialettico con essi.
Occorre quindi fissare chiaramente alcuni punti:
1. L’occupazione di appartamenti popolari, pratica individuale e storica di borgate e periferie romane, non ci appartiene: non appartiene al nostro agire politico occupare appartamenti che andrebbero assegnati ad altre persone che necessitino anch’esse un tetto sopra la testa. Tuttavia, la dimensione e la frequenza di questa pratica ci impongono di considerarla per quel che è: un fenomeno sociale radicato e con ampi margini di politicità inespressi. In sostanza, per quanto sia una pratica che non rivendichiamo a priori, non ci sentiamo neanche di poterla condannare tout-court. Infatti, se l’occupazione di case popolari può presentare caratteristiche di egoismo sociale verso il basso, non possiamo neanche ignorare che le assegnazioni concesse con il contagocce negli ultimi anni e la lentezza di una burocrazia che risponde ad interessi che rifiutiamo siano state le cause di questa situazione, nella quale chi appartiene alla classe sociale medio-bassa è disposto a tutto pur trovare un alloggio, trovandosi così in una naturale opposizione alle istituzioni che è potenzialmente politicizzabile.

Rivendicare casa per tutti e tutte vuol dire quindi, anche, lottare per la creazione di nuove case popolari tramite il recupero e la requisizione del patrimonio già esistente, opponendoci così ad un modello di città basato sulle speculazioni immobiliari e sugli alienanti quartieri-dormitorio sul GRA; riuscendo a riappropriarci di quote di reddito e di spazi e tempi di vita. Non possiamo non notare come, in questa ottica, la pratica della vendita/occupazione delle case popolari abbia un aspetto sociale importante, da non sottovalutare: è stato il mezzo con cui una generazione è rimasta legata ai quartieri di origine e ai relativi legami sociali da cui altrimenti sarebbe stata espulsa; questi legami hanno una loro storia che inizia spesso proprio con lo sgombero dalle baracche e l’espulsione verso nuove periferie. E’ una pratica concepita dall’occupante stesso come ri-appropriativa e, quindi, potenzialmente politica. Infine, sulla questione dell’art. 5 è possibile costruire un’unità d’intenti pratica e immediata con tutto il panorama delle occupazioni.

2. Diverso è il discorso della vendita e del racket delle case popolari: questa è, invece, una pratica para-mafiosa, che dobbiamo rifiutare e condannare pubblicamente e con forza.

3. È importante ribadire e far (ri)emergere una prospettiva di classe, quindi antirazzista, antisessista e antifascista, nel settore sociale che vive nelle case popolari. Per questo verso al “Bronx” la situazione era potenzialmente esplosiva – la famiglia sgomberata è italiana e la casa è stata assegnata ad una famiglia egiziana-, tuttavia non sono emersi particolari problemi a declinare la mobilitazione su una dimensione antirazzista, nonostante i vari politici legati alla destra provino, per ora senza successo, a trovare spazi di agibilità in questo contesto. È stato determinante in questo senso porre il RIFIUTO DELLA GUERRA TRA POVERI come cardine di tutto il discorso. Tra gli abitanti del Bronx l’espressione “guerra tra poveri” è utilizzata da tutti, questo perché se ne sono sentiti spesso vittime. Il terreno su cui è possibile affermare e diffondere una prospettiva antirazzista è quello del rifiuto della divisione tra razze, che passi attraverso il riconoscimento reciproco, la solidarietà e la complicità fra gli abitanti delle case popolari e gli occupanti migranti delle occupazioni: questo avviene nelle lotte, nelle strade e nei picchetti.

Fatte queste premesse, pensiamo che la nostra proposta sulle case popolari debba articolarsi su pochi punti chiari e facilmente comprensibili. Questi punti non vogliono essere una ricetta precotta da applicare ad Ogni percorso cittadino, ma un primo punto di partenza per l’apertura di un dibattito cittadino sul tema.

A) REGOLARIZZAZIONE DI TUTTI GLI OCCUPANTI E I MOROSI CHE NON POSSONO ACCEDERE AL MERCATO PRIVATO DEGLI AFFITTI.
Questo ci permette di superare il primo problema politico che ci siamo posti, quello della difesa di una pratica non propriamente nostra; allo stesso tempo, ci solleva dal compito di essere noi i soggetti che indagano, analizzano e decidono sulla legittimità di ogni singola situazione e di ogni singolo occupante. Rimandiamo la palla nell’altro campo: noi vogliamo casa per tutti e tutte. Nella nostra proposta politica deve quindi esserci la divisione netta tra noi e le istituzioni: da parte nostra la rivendicazione del diritto alla casa per tutti e tutte; alle istituzioni la gestione dell’aspetto burocratico e di polizia della questione. A noi spetta unire, a loro lasciamo il compito di dividere e giudicare.

B) OPPOSIZIONE A QUALUNQUE IPOTESI DI DIMINUZIONE DEGLI ALLOGGI POPOLARI, AUMENTO DEGLI STESSI TRAMITE IL RECUPERO AD EDILIZIA POPOLARE DELL’INVENDUTO E DELL’INUTILIZZATO. Questa posizione ci permette, integrando la prima proposta, di ribadire il nostro obiettivo: casa per tutti e tutte. Non ci interessa come i singoli abbiano trovato una soluzione alla loro emergenza abitativa fin ora; ci interessa spostare tutto su un piano di lotta. Questa posizione politica, come accennato tra le problematiche, ci permette di esprimere la nostra opposizione alla vendita delle case popolari, disinnescando, al contempo, il rischio di una divisione nel soggetto sociale che vive nelle case popolari: tra chi potrebbe accedere alla vendita a riscatto e chi non è nelle condizioni economiche di farlo. Combattiamo la stessa divisione tra chi occupa un immobile abbandonato e chi è nell’impossibilità economica di pagare un canone di affitto; tra chi è cittadino italiano e chi straniero. Il percorso politico da intraprendere è quello della riappropriazione e della rivendicazione di un piano casa che recuperi l’esistente, che non speculi e non cementifichi la nostra città; si tratta di fare un passo, forse lungo, che vada nella direzione opposta a quella della proprietà privata e che voglia distruggere il potere che il mattone ha sempre avuto in questa metropoli.

C) NO ALLA GUERRA TRA POVERI, NO AL RAZZISMO. I NEMICI SONO I PADRONI, IL NEMICO È IL CAPITALE.

DAJE FORTE
COMPAGNI/⁠E DELL’EX51

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