Smontare narrazioni tossiche. La prostituta nigeriana
In un intervento presentato nel 2005 al convegno “Il mito del buon italiano tra repressione del ribellismo e guerre civili” che aveva come oggetto i crimini sessuali del colonialismo fascista nel Corno d’Africa, Nicoletta Poidimani analizzava come la rappresentazione delle donne africane, somale, eritree etiopi, ma anche libiche, a partire dal colonialismo liberale di fine ottocento è stata volta al loro appiattimento sull’identità sessuale, per di più connotata da ipersessualità. Tale rappresentazione, culminante nel mito della Venere nera, è stata autorizzata anche all’inizio del fascismo per legittimare lo stupro coloniale e per convogliare forza-lavoro maschile in quei territori.
Venere nera, anni 30
Il mito della Venere nera, calda, sensuale, lussureggiante, feconda, selvaggia, con una ipersessualità che attendeva solo di essere appagata dal maschio bianco, è durata fino alla proclamazione dell’Impero, quando la formazione di una identità imperiale italiana impose la necessità di rimuovere i pericoli per la contaminazione della purezza della razza bianca, contaminazione rappresentata dai figli meticci che nascevano in seguito alle relazioni di concubinaggio, note come madamato. La Venere nera, lungi dal perdere i suoi connotati ipersessuali, comincia allora ad essere rappresentata come minaccia, alla quale il regime fascista contrappone, quale argine alla lussuria, la bianca purezza della donna italiana, morigerata madre e moglie.
Se da un lato il colono doveva dimostrare di saper mantenere il controllo di sé per non insabbiarsi, da un altro l’ ardua impresa gli veniva facilitata dal massiccio trasferimento in colonia di italiane, alle quali spettavano compiti di tutela della razza non solo a livello biologico, ma anche sotto il profilo morale.
L’Italia non ha ancora fatto i conti con il suo passato coloniale, non ha ancora provveduto a decodificare e smontare comuni miti propagandistici quali quello del fardello dell’uomo bianco, degli italiani brava gente e della Venere nera, che rappresenta l’acme di una propaganda sessuata in cui si intrecciano politiche sessuali e politiche razziali. Questa mancanza di riflessione, di metabolizzazione e dunque di superamento di narrazioni coloniali, altamente tossiche, fa sì che queste riemergano anche sotto mentite spoglie. E’ il caso della prostituta nigeriana vittima di tratta, il casus per eccellenza impugnato dalle abolizioniste della prostituzione per muovere gli animi e le pance verso la necessità di combattere una piaga rappresentata, guarda caso, proprio dalla donna nera ai bordi delle strade. La prostituta nigeriana è una narrazione tossica perché raccontata sempre dallo stesso punto di vista, nello stesso modo e con le stesse parole, omettendo sempre gli stessi dettagli, rimuovendo gli stessi elementi di contesto e complessità ( Wu Ming).
In diverse ci siamo domandate più volte perché le abolizioniste chiamino in causa sempre “la nigeriana”. Da un lato, forse, le ragazze di Benin city avranno suscitato un forte impatto emotivo su un pubblico che ha poca dimestichezza con la complessità e finisce così per semplificare al massimo riducendo ciò che è complesso e polimorfo ad una sola casistica. Ma da un altro, la prostituta nigeriana è una cornice nella quale, mutate le mutande, riemergono molti di quegli elementi della propaganda coloniale con la quale continuiamo a non voler fare i conti: l’ ipersessualità, la condizione per così dire “selvaggia” perché carente di civiltà e di istruzione, la povertà e, non da ultimo, la pelle nera. E’ soprattutto quest’ultima, la pelle nera, dunque il dato razziale, che connota il frame della prostituta nigeriana: una donna nera – a prescindere dalle tonalità dell’incarnato e dalla nazionalità, l’importante è che sia non bianca – povera, indifesa, diciamo pure sprovveduta perché, partita da un paese povero verso l’Eldorado occidentale in cerca di fortuna, si ritrova impigliata nelle maglie dello sfruttamento sessuale e da queste non riesce a districarsi. Del resto, è una vittima. Nella retorica abolizionista, il frame della prostituta nigeriana vittima di tratta essenzializza la condizione delle prostitute che provengono non solo dall’ Africa, ma più in generale da fuori dei confini europei. E sono tutte rappresentate come vittime, riproducendo così continuamente vittimità, in maniera non dissimile dalle immagini di quei volti tumefatti che dovrebbero servire a combattere la violenza maschile sulle donne e invece la rinforzano. Del resto, è così che funziona il discorso neoliberale, che mentre simula di volta in volta la denuncia della violenza di genere, del maschilismo, del razzismo, dell’omofobia, in realtà li sta rinforzando, essenzializzando e rinchiudendo in un frame la donna, il/la migrante, la puttana, il frocio e via discorrendo. Basti pensare alle performance razializzate e orientaliste di Molly Crabapple per farsene un’idea.
La prostituta nera, appiattita sull’identità sessuale, povera, incapace di agire e reagire e quindi bisognosa di tutela, è senza dubbio il retaggio coloniale della rappresentazione essenzialista, ipersessualizzata, razializzata e genderizzata delle donne africane, così come la missione di salvataggio morale, abbracciata con irremovibile fermezza dalle abolizioniste nostrane, rappresenta il lascito della missione moralizzatrice e civilizzatrice delle donne bianche che in epoca fascista si trasferivano nelle colonie per evitare che la razza si insabbiasse. Un vero e proprio passaggio del testimone, l’uomo bianco passa il suo fardello alla femminista bianca. Non sarà allora un caso che anche le parole strillate con tanta foga dalla retorica abolizionista siano prese a prestito direttamente dal vocabolario coloniale. Tratta e abolizionismo sono infatti termini in relazione con la schiavitù e non appartengono ai movimenti per la conquista dei diritti civili delle prostitute. Elisabeth Bernstein, nel saggio The Sexual politics of the New Abolitionism, sottolinea come dagli inizi del XX secolo, proprio in seguito ai processi di trasformazione capitalista innescati dalla seconda rivoluzione industriale, comincia a proliferare la narrazione della schiavitù sessuale intrecciata a retoriche nazionaliste basate sulla razza, alla difesa della proprietà privata e alla nozione biblica del peccato. La battaglia contro la schiavitù sessuale viene così condotta dalle donne del ceto borghese per dar sfogo alle frustrazioni causate loro dagli standard della doppia morale. Oggi, continua Bernstein, la nuova ondata abolizionista è parte integrante dell’agenda sessuale del neoliberalismo, che rappresenta le diseguaglianze sociali in termini di devianze individuali, finge di cercare soluzioni rafforzando il sistema legislativo e carcerario e si appella alla beneficienza delle classi privilegiate, evitando rigorosamente di mettere a tema l’empowerment degli/delle oppresse e proteggendo così da ogni accusa le strutture economiche e sociali che sono causa di oppressione, sfruttamento, schiavitù.
Le abolizioniste finiscono così per essere uno strumento nelle mani dello stato neoliberale. In linea con le vecchie prassi colonialiste, continuano ad attingere risorse umane dall’Africa per costruire e utilizzare una narrazione tossica con cui colpire dritto alla pancia, ma si guardano bene da analisi e lotte di sistema. E’ questa una delle molteplici forme in cui si concretizza il neocolonialismo. Ne è riprova il fatto che le abolizioniste non si applicano con altrettanta passione alla denuncia e alla lotta contro la tratta di tutt* i lavoratori e le lavoratrici. Per esempio, quelli schiavizzati nel mercato ittico asiatico che fornisce pesce a catene americane ed europee come Walmart e Carrefour, oppure gli operai e le operaie nelle fabbriche dei suicidi delle Apple, o, ancora, gli schiavi e le schiave del caporalato in molte campagne italiane. Non sono, forse, anche queste forme feroci di sfruttamento?
Ma c’è di più. Il frame della nigeriana vittima di tratta viene utilizzato per confondere le acque ed assimilare tutta la prostituzione allo sfruttamento sessuale. E’ questa una mistificazione della realtà, operata scientemente per conseguire i propri obiettivi. Ad esempio, invisibilizzare e sottrarre agibilità politica e sociale ai movimenti che da anni lottano per i diritti delle prostitute, come il comitato delle lucciole, delegittimando le prostitute medesime. Oppure, distogliere l’attenzione dal fatto che lo sfruttamento della prostituzione è già reato in Italia. In particolare, l’articolo 3 della legge 20.02.1958 n 75, conosciuta come Legge Merlin, punisce con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 258 a euro 10.329 chiunque induca una persona a recarsi nel territorio di un altro Stato o comunque in luogo diverso da quello della sua abituale residenza, al fine di esercitarvi la prostituzione ovvero si intrometta per agevolarne la partenza; chiunque esplichi un’attività in associazioni ed organizzazioni nazionali od estere dedite al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione od allo sfruttamento della prostituzione, ovvero in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo agevoli o favorisca l’azione o gli scopi delle predette associazioni od organizzazioni; (articolo 3 commi 6 e 7). Dal momento che la cosiddetta tratta è già reato e purtuttavia non cessa di esistere, ne consegue che provvedimenti legislativi isolati e slegati da un approccio sistemico, che sovverta i dispositivi economici e sociali che producono sfruttamento e oppressione, rappresentano dei correttivi di sistema completamente inutili.
Pertanto, ci si chiede e si chiede: poiché lo sfruttamento sessuale è già reato, quale altro provvedimento legislativo viene invocato dalle abolizioniste? Si tratta forse del divieto di disporre liberamente del proprio corpo, eredità, questa, tanto delle frustrazioni delle abolizioniste di inizi secolo XX quanto delle istanze moralizzatrici e razziste delle matrone di epoca fascista, raccolte dal neoliberalismo?
Ancora una volta, sono le donne del continente africano ad essere sfruttate, ridotte a mera identità sessuale e abusate nei loro corpi come pretesto per costruire una narrazione tossica che pretende di essere rappresentativa di tutta la realtà, ma che è invece una mistificazione utile a perseguire una serie di obiettivi in linea con gli interessi di chi usa quel frame, nessuno dei quali, però, contempla l’empowerment delle prostitute medesime, l’uguaglianza, la giustizia sociale e la conquista di diritti.
In questo accanimento repressivo e disciplinatorio, si potrebbe almeno smettere di sfruttare le donne d’Africa fino all’osso, sfoggiando l’espressione candida della femminista bianca che regge sulle spalle il fardello della civiltà?