Il carattere politico dello spazio urbano
Elisabetta Teghil, intervista a cura di Lidia Martin
Zapruder N 35 “Voci” pagg.128-135
Elisabetta Teghil, femminista, da sempre si occupa dell’intreccio delle oppres- sioni di genere/razza/classe con particolare attenzione a come si rappre- sentano in questa società. E’ architetto, non architetta perché «se la lingua […] è convenzione e istituzione, ma anche biologia ed evoluzione, ma anche ontologia ed identità, davvero è sufficiente osservare le raccomandazioni
che prescrivono aggiustamenti grammaticali che rendano giustizia all’ignorato genere femminile? Oppure è questa una soluzione tipo “pari opportunità”, quella sorta di “leggi speciali” per donne, dove il doverle concepire significa che si continua ad agire a valle e non a monte. Cose che effettivamente cambiano assai poco, modificano l’apparenza ma non la sostanza» (Dumbles – feminis furlanis libertaris, La lingua come istituzione, in Coordinamenta femminista e lesbica, a cura di, Il personale è politico, il sociale è privato. Contro la violenza maschile sulle donne, Roma, 2012, p. 32).
Autrice di Ora e qui. Lettere di una femminista, Bordeaux, 2011; Il sociale è il privato, Bordeaux, 2012 e Coscienza illusoria di sé, Bordeaux, 2013. Scrive abitualmente sul blog coordinamenta.noblogs.org, ed ha una rubrica fissa, La Parentesi di Elisabetta, nell’ambito della trasmissione I nomi delle cose su Radio Onda Rossa.
Questo numero di «Zapruder» esplora il complesso rapporto tra capitale e città, quale è secondo te il ruolo che il capitale gioca all’interno delle aree urbane e dei conflitti che in esse si sviluppano?
Prima di tutto dobbiamo intenderci su quale fase dell’attuale modo sociale di produzione stiamo vivendo, il neoliberismo è lo stadio del capitale, nella sua dinamica auto-espansiva, caratterizzato dalla guerra fra le nazioni e fra le multinazionali per la ridefinizione dei rapporti di forza, che vede all’offensiva le multinazionali anglo-americane e i loro rispettivi stati. I popoli del terzo mondo, in questo processo, sono destinati ad essere schiacciati e a rivivere le pagine più nere del colonialismo. Le condizioni del capitalismo, al massimo livello di sviluppo, vengono assunte a modello ideale di ogni altra forma passata e contemporanea, europea e non europea, borghese e non borghese, di sfruttamento e di alienazione di lavoratori e lavoratrici.
E quali sono le conseguenze sulle strutture urbane?
Ogni ideologia produce teoria e, quest’ultima, si traduce in linea politica. E la linea politica del neoliberismo si traduce in un programma di distruzione delle strutture capaci di contrapporsi al primato del
mercato. Il programma neoliberista trae alimento dalla forza politico-economica di coloro dei quali esprime gli interessi che, forti delle posizioni economiche e politiche, non rischiano di pagare le conseguenze delle loro scelte, ma, anzi, di trarne grandi vantaggi.
Se pensiamo al fatto che per la prima volta nella storia la maggioranza della popola- zione mondiale vive in città, però – contrariamente a quanto i cantori del capitalismo hanno professato – le metropoli non si stagliano con ardite strutture in vetro e acciaio, ma sono caratterizzate da tre dimensioni principali: le banlieues, città dormitorio, dove tornano alla fine della giornata quelli e quelle che hanno fatto i “servizi” in “città”; gli slums, dove vivono i dannati della terra, nello squallore, in rifugi di cartone catramato, convivendo con escrementi e sfacelo in un ambiente contaminato da rifiuti e scarichi industriali, vere e proprie baraccopoli fetide e sovraffollate; e le bidonvilles, che sono peculiari di quelle città dove un popolo di reietti, mancando di un tetto, dorme sui marciapiedi e sotto i ponti. Queste tre dimensioni– banlieues, slums e bidonvilles – sono presenti anche nel cuore dell’occidente, compreso lo stato del capitale, gli Usa, e nella sua capitale, a cento metri dal centro del potere, la Casa bianca.
Quello che le qualifica è che i rifiuti urbani e gli umani inutili si ammassano
insieme.
Tutto questo non è dovuto al caso, non è il frutto di errori non previsti, ma il risultato maturo del capitalismo che, nella sua imprescindibile dinamica auto espansiva, distrugge le economie marginali e di sussistenza. Le popolazioni contadine del terzo mondo affollano le loro città, i popoli del terzo mondo fuggono nei paesi occidentali, i popoli occidentali, sempre più impoveriti, sono ammassati alle periferie degli agglomerati urbani.
E le conseguenze sociali?
La stagione neoliberista ha trasformato la guerra alla povertà in guerra ai poveri e li ha criminalizzati. I poveri/le povere vengono rappresentati come una massa indistinta il cui principale tratto è la pericolosità sociale.
Fare chiasso per strada, chiedere l’elemosina, lavare i parabrezza delle auto ai semafori, mangiare seduti per terra, dormire in bivacchi di fortuna, puzzare sugli autobus… viene fatto percepire come un pericolo e come tale da sanzionare penalmente.
E da controllare. Nei riguardi dell’esterno, attraverso la blindatura delle frontiere; all’interno con una pletora di sistemi e di schedature che invadono le piazze, le vie, i luoghi di lavoro, le abitazioni. Anatole France alla fine dell’Ottocento scriveva che se una legge avesse vietato ai ricchi e ai poveri di dormire sotto i ponti avrebbe svelato l’inconsistenza della presunta neutralità delle leggi e si sarebbe chiarito chi le faceva e chi ne era il destinatario, dal momento che i ricchi di dormire sotto i ponti non ne avrebbero mai avuto bisogno.
Questa ipotesi oggi è diventata un incubo, con un proliferare di ordinanze comunali che vietano o sanzionano il dormire sulle panchine, per strada, sotto i portici, il mendicare e via dicendo.
Il primo obiettivo è il nero/la nera, il clandestino/la clandestina, l‘immigrato/ l’immigrata senza permesso di soggiorno, ma i veri destinatari sono i poveri e le povere, che non sono solo i mendicanti di una volta, ma anche chi è stato espulso, o si trovi in eccedenza e ai margini del mercato del lavoro. Costoro vivono in veri e propri campi di confinamento a cielo aperto, senza fili spinati e sbarre, ma con precisi confini invalicabili.
Uscire da lì significa essere indesiderabili, percepire su di sé il marchio del
monatto.
La città degli dei è ormai divisa dalla città degli umani.
Un tempo non lontano, frotte di ragazzi e di ragazze della periferia calavano nel centro delle grandi città e si illudevano di condividere quei luoghi seppure di sbieco. Ora no, si incontrano nei centri commerciali, sui muretti dell’Ikea, a mangiare uno scadente panino-italiano… il loro destino è una miseria senza prospettive e/o il carcere.
Un tempo la città era piena di graffiti e di scritte, chi voleva la domenica andava alla partita e magari litigava, magari dopo aver inveito contro l’arbitro e il sistema. La sera, poi, si andava alle feste, ai concerti, in giro per la città, si beveva e si fumava in compagnia a qualsiasi ora, ci si sedeva sui gradini, i ragazzi di borgata scappavano dai ghetti dormitorio, le ragazze imparavano a rimorchiare chi desideravano anche per una sola notte.
La città adesso invece è ordinata, è pulita, è silenziosa. I neri li hanno portati nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) e rispediti con i ponti aerei al loro paese. I graffiti non si vedono più perché c’è sempre qualche zelante agente che ti insegue e magari ti spara. Gli ultras, perché si chiamano così i tifosi che vanno con le bandiere e gli striscioni e magari vedono la partita in piedi, vengono schedati, perquisiti, fotografati, ripresi. Scritte non se ne vedono più perché deturpavano la città e la proprietà privata.
Questo mi ricorda un passaggio del tuo post Femminismo materialista. Sogni, disincanto, fessure: «Siamo rinchiuse in una gabbia di segni ideologici e culturali della società patriarcale e borghese, una gabbia che hanno costruito per noi e l’hanno chiamata “normalità”», ma come è stata costruita questa “gabbia” nei luoghi urbani?
Le città cambiano sotto i nostri occhi senza che ce ne accorgiamo.
E’ la grande capacità del sistema di far accettare i cambiamenti presentandoli separati, ad uno ad uno, cercando di impedire sempre la visione totale e la comprensione del progetto.
E, così, ci siamo ritrovate a percepire come “normale” che i poveri siano espulsi dai centri urbani, per il decoro! Che i Rom siano tradotti in luoghi sperduti, perché non sanno adeguarsi alle nostre regole! Che le città cambino i connotati, che l’ambiente urbano si trasformi certe volte, sì in maniera eclatante, con nuovi viadotti, centri commerciali o sostituzione di interi ambiti… ma, di solito, quasi impercettibilmente.
Una volta si diceva che gli esseri umani, travolti dalla quotidianità, non alzavano mai gli occhi al cielo, dovremmo invece trovare il tempo di guardarci intorno e vedere le trasformazioni che avvengono in città giorno dopo giorno: l’architettura del nostro habitat è lo specchio di scelte politiche ed economiche. Ci sono troppi recinti, sbarre, paletti, Ztl, telecamere, indicazioni di divieto, cartelli con ordini, indicazioni da seguire, zone off limits, luoghi per pochi eletti… la distanza tra le abitazioni dei ricchi e dei poveri è di nuovo diventata incolmabile, il lusso dei palazzi del potere è sfrontato, l’architettura definisce in maniera visibile la città proibita e quella della restante parte degli esseri umani.
Si fa passare per nuova, scientifica e neutrale, la vecchia e sempre utilizzata politica di pulizia/polizia classista che stabilisce l’equivalenza fra l’agire fuori dalla norma e l’essere fuori legge e prende di mira quartieri, soggetti, strati sociali etichettati per principio. La povertà e l’emarginazione hanno una gestione poliziesca.
Intere aree geografiche, ambienti e ceti diventeranno colonie interne.
Una volta si diceva che una società andava giudicata dal suo sistema carcerario, ora è la società che è proiezione del carcere. Il controllo non si cala più dall’alto, ma pervade da dentro e investe tutti i momenti della vita. I diseredati vengono trattati come potenziali terroristi e chi se ne deve e se ne farà carico sono gli eserciti e la Nato. Quest’ultima ha già studiato, attraverso il progetto Urban operation in the year 2020, come affrontare le sommosse e i disordini e le rivolte che ha messo in preventivo. Da questo punto di vista Gaza, con il suo milione e settecentomila abitanti, è una metafora di come saranno gestiti gli agglomerati urbani. Come in tanti altri paesi del terzo mondo, vengono messe in atto e sperimentate tecnologie di controllo, forme di repressione e utilizzo di forze militari speciali affiancate da quelle mercenarie. Si testano, alla periferia dell’impero, quelle forme dure e devastanti di violenta repressione che domani saranno impiegate nelle baraccopoli urbane in occidente. E in questo contesto acquisterà sempre maggiore importanza il ruolo di media, dei think tank, delle prefiche della non-violenza, delle vestali della legalità e degli addetti alla guerra psicologica, spesso travestiti da blogger e da troll.
Tutto verrà fatto accettare attraverso nobili motivazioni: lotta alla mafia, all’evasione fiscale, agli ultras, alle bande giovanili, alla droga… ci dovremo abituare alla presenza dei militari nelle città, ai droni che sorvolano il cielo urbano, ai continui posti di blocco, ai lampioni intelligenti, alle telecamere che riprendono tutto e tutti e al controllo ambientale di case e posti di lavoro.
Tutto sarà lecito contro terroristi, sobillatori e rivoltosi. Tradotto in parole povere, contro i cittadini e le cittadine.
La povertà è terrorismo, il dissenso è tradimento, la dimensione privata è inutile. Questo scenario è più vicino di quanto possiamo immaginare, stante la guerra senza esclusione di colpi che le multinazionali si stanno facendo per la ridefinizione dei rapporti di forza.
Dove leggi la sconfitta?
Come dicevo, un tempo le città erano luoghi di lotta collettiva e di solidarietà.
Gli effetti del nuovo modello produttivo si sono proiettati anche sul tessuto urbano. Oggi il sistema del lavoro genera rapporti per cui si lavora inten- samente e sotto una forte pressione, ma non c’è più solidarietà fra lavoratori/ lavoratrici, sia in fabbrica che in ufficio, così anche nella città le relazioni tendo- no a cambiare e a diventare superficiali e indifferenti.
La città che, prima dell’avvento del neoliberismo, inglobava il lavoro, gli spazi pubblici cerimoniali e quelli informali, oggi è completamente venuta meno. I codici di condotta che informano il mondo del lavoro si sono trasformati profondamente. Il primo passo è stato la standardizzazione dell’ambiente urbano. In parallelo con l’emergere di una “architettura involucro” abbiamo assistito all’equivalente standardizzazione dei consumi: una rete globale di negozi in cui si vendono prodotti identici in spazi tutti uguali. Le città non offrono più nulla di inedito e l’omogeneizzazione degli spazi pubblici disperde interi patrimoni di storia comune e di memoria collettiva. L’omologazione dei consumi estingue i riferimenti locali, così come il nuovo mondo del lavoro cancella la memoria interiorizzata e condivisa delle lavoratrici e dei lavoratori. Non c’è più una conflittualità indirizzata verso il datore privato o pubblico, così come nella città è venuto meno ogni tipo di impegno civile, addirittura la semplice curiosità umana verso gli altri/le altre.
Le fabbriche, nel bene o nel male, non sono più incardinate nel territorio.
Oggi le imprese ostentano indifferenza per il luogo in cui si trovano.
Le amministrazioni locali e le comunità non ottengono alcun ritorno dalla presenza delle imprese, le quali non si assumono nessuna responsabilità rispetto al territorio, anzi, approfittano di questa mutata situazione geo-economica per ottenere enormi vantaggi, di ogni tipo, minacciando di spostare le sedi.
Sono stati distrutti in nome della globalizzazione, declinazione del verbo neoliberista, i meccanismi politici atti a spingere le imprese a dare un qualche corrispettivo per i privilegi di cui fruiscono nel territorio.
E il degrado della vita quotidiana, che investe tutto e tutte/i, non poteva che manifestarsi fortemente nei quartieri periferici e popolari. La socialdemocrazia, in tutte le sue articolazioni, con riferimento a questo problema, ha adottato la parola d’ordine “partecipazione dei cittadini/e”. Ed è tutto un proliferare di associazioni di quartiere, che promuovono incontri con e nei Municipi, durante i quali gli abitanti dovrebbero portare le loro esigenze perché vengano ascoltate. Le griglie territoriali funzionano in modo che gli abitanti non siano più in riferimento allo status sociale o alla collocazione di classe e, in un mare di parole tanto vuote quanto fuorvianti come “concertazione” e “cittadinanza”, si occultano le condizioni di vita materiali in favore del dialogo e, dunque, della depoliticizzazione dei problemi sociali.
È quell’uso di un “politicamente corretto” funzionale al sistema di dominio patriarcale e capitalista che hai spesso criticato (ne Le Patriarche e Che fine ha fatto Baby Jane? per fare solo gli esempi più recenti)…
Sì, e in questo modo la povertà viene presentata come una questione personale e locale. Gli individui che la subiscono sono colpevolizzati ed invitati a riformare, non si sa bene come, sé stessi/e, piuttosto che ad analizzare e combattere i meccanismi strutturali che la determinano.
E’ il trionfo del qualunquismo.
Questo approccio ha per effetto di rendere invisibile tutto quello che la storia dei quartieri poveri e periferici deve a quello che succede negli altri universi a partire dai quartieri bene e, soprattutto, al mondo del lavoro, oggetto di un duro attacco che ne ha disfatto e ricompo- sto, in termini peggiorativi per lavoratori e lavoratrici, le condizioni di vita. Così vengono completamente omesse le scelte economico- politiche, lo smantellamento dello stato sociale, l’ampiezza delle discriminazioni di classe, l’impunità dell’apparato repressivo. E’ in questo
contesto che si alimenta il mito, tutto falso, dell’insicurezza dei cittadini e si dissimulano le cause delle effettive difficoltà in cui versano i lavoratori tutti, logorati politicamente e socialmente da decenni di “riforme” neoliberiste.
La questione sociale non esiste e, se esiste, la responsabilità viene data alle famiglie, incapaci di affrancarsi dalla miseria e di fornire un quadro educativo di riferimento, naturalmente borghese, ai loro figli. È il ritorno alla cultura vittoriana con l’equazione classi/quartieri popolari uguale delinquenza.
Da qui l’allargamento della platea dei comportamenti, anche personali, resi penali e l’inasprimento delle pene e l’arruolamento di tipo poliziesco dei servizi sociali.
I quartieri periferici oggi sono letti, trattati e spazialmente determinati come quartieri pericolosi.
Da qui l’aumento esponenziale degli addetti all’apparato repressivo che ha visto crescere in maniera iperbolica il rapporto tra forze dell’ordine e popolazione. Questa è una società che rinuncia a costruire posti di lavoro, ma crea nuovi commissariati, aumenta gli istituti penitenziari e fa crescere in maniera esponenziale i costi per le polizie e l’esercito.
Il fatto che tutte le componenti socialdemocratiche siano d’accordo su questa lettura del problema, sulla diagnosi e sulla soluzione, in sintonia con il credo neoliberista, ha provocato un discredito della parola “sinistra” nei quartieri popolari e consegnato tanti, troppi giovani dei quartieri periferici al fascismo. E, questo sì, è un crimine.
In chiusura, con lo spirito “attivista” che di solito ti contraddistingue, dimmi quali possono essere «le fessure» e le vie di uscita?
La risposta cammina su due gambe: prendere le distanze dai partiti socialdemocratici, che sono diventati la destra moderna, reazionaria, clericale e con punte fasciste, e dalle loro iniziative, da chiunque vengano promosse, sotto questa o quella sigla coniata al momento, tutte permeate di connotati interclassisti e al servizio degli interessi neoliberisti, e rimettere al centro del nostro impegno l’iniziativa politica incardinata su una lettura di classe e di genere della società e attraverso pratiche diffuse, critiche e creative.