Cie e dintorni….

di Elisabetta Teghil

La così detta sinistra e le sue organizzazioni-satellite hanno scoperto i CIE.

Cosa teorizzano questi benpensanti? che i CIE sono illegali, dimenticando che
sono una legge dello Stato, e che sono una violazione del diritto internazionale,
come se non ci fossero in tutti i paesi europei.

Ma,poiché sono teorici di valore, passano da un convegno all’altro dove si
parlano fra loro e teorizzano, altresì, che i CIE sono il frutto del razzismo.
Che ci sia il razzismo nelle istituzioni è indubitabile,che combattere il
razzismo sia importante e doveroso ci trova d’accordo,ma leggere i CIE come
semplice espressione del razzismo non è solo riduttivo, il che non sarebbe
grave, ma è soprattutto fuorviante perché non smaschera la funzione essenziale
dei CIE come momento del controllo sociale.
I CIE sono frutto di una legislazione che ha moltiplicato all’infinito le
fattispecie di reato, decine di comportamenti che fino a poco tempo fa erano
permessi, oggi sono perseguibili penalmente. E non è finita qua. Si continua a
legiferare in questa direzione.
Non saranno più perseguiti i fatti,ma le idee. Diventerà reato l’istigazione
alla violenza e all’odio di classe.

Tutte le telefonate sono registrate,la corrispondenza e l’accesso ai computer
idem, l’inviolabilità della persona fisica è un principio astratto, quotidianamente disatteso, la libertà di espressione è sottoposta a censura preventiva.
I principi sanciti dalla rivoluzione francese e da quelle del ’48 a cui questa
società dice di ispirarsi,sono diventati carta straccia.
E’ in questo contesto che si vanno a inserire i CIE e introducono il principio
che si è internati/e non per aver commesso un reato, ma solo per una condizione.

 

Ma l’analisi e le iniziative che la così detta sinistra e le organizzazioni
collaterali portano avanti, non sono il frutto di un’errata lettura, ma
tutt’altro. Non possono e non vogliono parlare del controllo sociale che
soffoca questa società perché, di questo controllo, sono partecipi.
Per questo strumentalizzano l’antirazzismo che è un tema nobile, su cui
tutte/i abbiamo il dovere di impegnarci e lo strumentalizzano per lavarsi la
faccia e per utilizzarlo pro-partito, senza toccare il tema centrale che è
quello delle scelte neo-liberiste a cui concorrono e che hanno trasformato
questo paese nella fattoria orwelliana.

I CIE, già Cpt, sono nati per internare,quindi, non persone che hanno commesso dei
reati, ma che non hanno il permesso di soggiorno.
Anche durante il fascismo c’erano dei campi d’internamento, da non confondere
con quelli di concentramento, dove venivano rinchiuse persone non per aver
commesso un reato, ma ritenute pericolose socialmente: antifascisti, rom,
omosessuali, a cui si sono aggiunti, dopo le leggi razziali gli ebrei. Per gli
idolatri della legalità, le leggi razziali erano una legge dello Stato e perciò
andavano rispettate. Vedete com’è facile con una legge inserire categorie,
etnie,professioni di fede e di politica fra quelle da emarginare e perseguire
legalmente? I campi di internamento erano ubicati lontano dai centri abitati,
venivano gestiti da civili insieme a polizia e carabinieri. Ogni tanto la Croce
Rossa  faceva le ispezioni e qualche volta consigliava qualche piccolo
miglioramento qua e là.
Pensavamo di non vederli più e invece dobbiamo fare i conti con i CIE.
I CIE colpiscono i /le più deboli, scappati/e dai loro paesi oppressi da
borghesie corrotte e depredati delle loro ricchezze dalle multinazionali.
Nei CIE si riproducono le forme di soprusi e vessazioni proprie della società
e verso le donne si riproducono i ricatti e le oppressioni e le violenze
tipiche del genere.
Qualcuno/a politicamente corretto/a ci dirà che abbiamo ragione, ma che nel
momento che ci si ribella, si passa dalla parte del torto.
Poi, ci sono quelli/e che confondono l’aggredito con l’aggressore e che
parleranno di violenza senza distinguere fra chi la esercita e chi la subisce.
Poi incontreremo quelli/e che ci parleranno di giornali e direttori/e amici da
sensibilizzare, come se questi/e non sapessero. Sanno tutto e bene.

La rappresentazione e i ruoli sono sempre gli stessi,però,fra trent’anni,
metteranno una targa ricordo nei CIE, faranno qualche convegno e scriveranno
qualche dotto libro.
Questa è una società basata sullo sfruttamento dell’essere umano sull’essere umano e,perciò, ha bisogno dei CIE,delle telecamere, delle intercettazioni telefoniche, delle
cimici ambientali, di una legislazione invasiva.
Rispetto a questo progetto, partiti, onlus, ong, media, polizia, magistratura sono
tutti chiamati a partecipare.
Siamo tutti/e in libertà vigilata e condizionale. Siamo liberi/e di dire e di
fare quello che vogliamo purché  omologate/i al pensiero unico di
conservazione di questa società.
Per chi esce fuori dal coro le parole democrazia, libertà di opinione e via
dicendo non valgono.
C’è tanto dolore, tanta disperazione, tanta miseria,tanta ingiustizia e tutto
questo non è riconducibile a dinamiche personali, non l’ha voluto dio, non è il
giusto castigo per i meno bravi e i meno capaci, ma è il frutto di una società
che dà per scontata la povertà e la miseria e ha trasformato la vita degli
esseri umani in una corsa alla sopravvivenza, a chi ce la fa. Neanche fosse la
società degli umani come la società animale descritta da Darwin .
Ai tanti/e esclusi/e se ne aggiungono sempre nuovi/e, ma non siamo di quelle
contente di essere sulla barca, non rimaniamo indifferenti a chi sulla barca
non è mai salita/o o ne è stata/o cacciata/o.
I CIE non sono un raffreddore o qualche cosa di patologico, ma fanno parte di
questa società.
Una volta si diceva che per giudicare un paese bisognava conoscerne il sistema
carcerario, oggi hanno trasformato la società in un carcere a cielo aperto.
Forse è per questo che molte/i sono indifferenti all’impegno contro i CIE.
Forse per questo c’è tanto accanimento contro chi lotta contro i CIE: perché ne
ha scoperto la natura intrinsecamente funzionale a questa società.

 

C’è qualcuna che sostiene che il paragone fra i CPT- CIE e i campi di internamento di fascista memoria sia eccessivo ed improprio.

I campi di internamento alla fine degli anni ’30 furono introdotti in Italia non per persone che avevano commesso reati, ma per persone che avevano un determinato status.

Infatti, i primi ad esserci rinchiusi furono i nomadi italiani. Allora Rom e Sinti stranieri non ce n’erano.

Non a caso,la regione con il maggior numero di campi di internamento e la prima dove furono istituiti fu l’Abruzzo,dove la comunità di nomadi italiani era più numerosa.

A questi, nel corso degli anni,si aggiunsero tanti altri italiani la cui unica colpa era quella di appartenere ad un’etnia .

Fra questi, occorre ricordare anche gli slavi che abitavano in Italia.

L’Italia votava alla Società delle Nazioni (l’ONU di allora) tutte le mozioni a tutela delle minoranze e sottoscriveva tutti i più nobili protocolli a tutela delle stesse,salvo disattenderli sistematicamente.

In questo notiamo che non c’è nessuna differenza fra ieri e oggi.

Però, faceva un’eccezione per la minoranza di lingua tedesca,guarda caso,per via dell’alleanza con la Germania.

Anche in questo caso non c’è nessuna differenza. I diritti umani, l’asilo politico, i protocolli internazionali sono subordinati ad alleanze ed interessi.

Battezzati con i Rom, i campi di internamento cominciarono a proliferare in tutta Italia; ce ne furono anche per sole donne,naturalmente con direttore donne.

Anche allora,commissioni di vario tipo visitavano i campi, prime fra tutte quelle della Croce Rossa che,almeno allora,si asteneva dal gestirli direttamente.

Trovavano sempre tutto in ordine, non si scandalizzavano della loro esistenza (ma,già, non era il loro compito) ma,proprio perché va detto tutto,una volta, in un campo,consigliarono l’aumento della razione quotidiana di spaghetti e, in un altro, un cambio di lenzuola di più al mese.

Tante persone lavoravano per e intorno ai campi: dalla polizia che andava a prendere a casa o per strada le persone da internare e svolgeva opera di controllo, al personale,spesso civile,dal direttore/direttora a tutte le altre figure e alle ditte che fornivano il necessario per il funzionamento degli stessi.

Però una differenza c’è. La storia non è ragioneria ,ma qualche volta i conti bisogna farli.

Nella nostra democratica repubblica, nei CIE, c’è un numero considerevole e spaventoso di pestaggi,all’ordine del giorno,numerosi casi di morte,sempre rubricata come naturale,di suicidi e di gesti dolorosi di autolesionismo.

Dopo la guerra,gli operatori dei campi di internamento, chiamati a rispondere del loro lavoro ( continuano a chiamarlo così!) si sono prodigati a raccontare quanto erano buoni e quanto bene avevano fatto.

Qui c’è una differenza: gli attuali operatori, già adesso,senza aspettare domani, ci raccontano quanto bene fanno e quanto sono buoni.

Si,è vero, i CIE non sono come i campi di internamento. Sono molto peggio.

E nessuno/a dica non sapevo, non immaginavo, non credevo.

Non ci sono zone neutre: o si è contro o si è complici. E chi è contro,ognuno/a nel suo ambito e con le modalità che gli/ le sono più congeniali, faccia qualche cosa.

 

Chi è rinchiusa/o nei Cie non ha più una storia personale, non conta l’età,il lavoro che faceva,i traguardi personali raggiunti e le speranze coltivate, e perde il diritto alla parola, tanto che il cucirsi la bocca è una manifestazione esplicita di questa condizione.

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Quando ci si entra, non si ha più una propria biografia. Il percorso individuale non conta più niente,anzi,è necessario,per sopravvivere,rinnegarlo.

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Mai,come in questi anni,la così detta “sicurezza urbana” è diventata il motivo dominante delle retoriche mediatiche e politiche.

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