“Diversity management: una critica anarcofemminista e trans”

Da “I Nomi delle Cose”

Quell* che non hanno il genere, ma hanno la classe,

la rubrica di Denis ogni ultimo mercoledì del mese

“Diversity management: una critica anarcofemminista e trans”

Nell’ambiente queer radicale, si problematizza il diversity management,
in quanto strumentalizzazione neoliberista che opera l’assimilazione
frocia nel capitalismo, simulando quindi una liberazione che di
liberante ha ben poco. Tuttavia vengono individuati alcuni lati
positivi, rappresentati principalmente dall’inclusione di marginalità
varie, in particolare le persone trans, nel mondo del lavoro salariato
(evviva).

Intendo mettere in dubbio l’efficacia di questa presunta inclusione.

Mi risulta che i progetti di diversity management abbiano risultati
tangibili rispetto ad un numero ridotto di persone trans. Individuo i
motivi di questa inefficacia principalmente nell’estrazione di classe e
nell’esperienza relativa alla propria identità di genere (le quali
tuttavia si influenzano, almeno in parte, vicendevolmente) e
nell’intersezione di esperienze ulteriori di cui parlerò più tardi.
Questi progetti includono sì transessuali e transgender, ma soffrono di
una miopia assassina. Spesso le posizioni disponibili richiedono
determinati titoli di studio, di un livello indubbiamente superiore
rispetto al semplice diploma di terza media, che è in qualche maniera
ancora accessibile più o meno a chiunque. Non è possibile ignorare la
difficoltà per una persona trans di accedere a tali titoli.

Le scuole, che oggi come oggi non sono nient’altro che diplomifici,
anche se dal mio punto di vista – cioè di qualcuno che sostiene l’idea e
la pratica di pedagogia libertaria – lo sono sempre state (e non sarebbe
neanche l’unica critica che si potrebbe porre loro,  ma non è il punto
su cui mi concentro oggi), rappresentano il ponte (neanche troppo ben
fatto) nell’abisso senza fondo del mondo del lavoro. E allora, verrebbe
da dire? eh.

L’omotransfobia nelle scuole, fomentata e/o attuata tramite bullismi,
innocenti battutine, ragazzate che casualmente finiscono in qualche
suicidio (e poi si sa che la colpa non è mai di nessuno, e che uno si
suicida per i suoi problemi: mai per quelli che gli causano gli altri) è
una nebbia che si taglia col coltello.

Questo ha sul/la giovane trans un effetto negativo di proporzioni
maggiori all’effetto subito dal/la giovane omosessuale; non parlo di
bisessuali perché anche loro subiscono un’ostracizzazione ulteriore, sia
da parte degli omosessuali sia da parte degli eterosessuali, anche se è
lapalissiano che non necessariamente hanno a che fare con questioni
riguardanti il proprio genere. Se l’omosessuale (e in misura maggiore
il/la bisessuale, le cui speranze di integrarsi nella comunità di
giovani omosessuali – e di conseguenza lenire la propria solitudine –
sono ridotte, per i motivi di cui sopra) si ritrova ingabbiat* dalla
costrizione di dover nascondere la propria vita affettiva e sessuale, la
persona trans si ritrova ingabbiat* in quella di non poter esprimere
neanche sé stessa.

Non è possibile vivere e viversi serenamente dovendo occultare parti
importanti della propria identità, e la mancata possibilità di poterla
esprimere acuisce la sofferenza della disforia di genere in quanto tale,
ma non solo. Condizioni sociali di questo tipo fanno sì che
all’esperienza della disforia finiscano per sommarsi altre esperienze,
quali: depressione, traumi di vario tipo, ansia e quant’altro, che
inficiano in maniera notevole non solo il rendimento scolastico, ma la
volontà (e la fattibilità) di proseguire il proprio percorso di studi.
Possibilità ad ogni modo in partenza limitata, se non addirittura
negata, dalla classe sociale della propria famiglia (nel caso, in età
giovanile, di un contesto scolastico meno ostile alle diversità); e, in
età adulta, dalle condizioni economiche peggiori inevitabilmente
derivanti dalla discriminazione transfobica in contesti lavorativi che
non necessitino particolari qualifiche. Condizioni che non permettono di
proseguire gli studi, acquisire qualifiche ulteriori, ed ampliare quindi
le possibilità di assunzione. Il tutto in quello che dimostra de facto
di essere un loop infinito di oppressione classista e transfobica.

Esistono anche problematicità ulteriori. Una donna trans è più
svantaggiata rispetto alla controparte FtM, a causa della logica
sessista e transmisogina per la quale una «donna» che diventa uomo
aumenta il proprio prestigio sociale, mentre un «uomo» che diventa donna
squalifica sé stesso. E se entra in gioco la variabile razza?
nell’attività di genderizzazione della razza operata dalla società, un
uomo straniero agli occhi dei media italiani, bianchi e occidentali, è
sinonimo di «ladro», «stupratore» e più genericamente «criminale» e
«violento», mentre una donna straniera è una figura debole e delicata,
ed è sinonimo di «badante», «prostituta» (che nella variante
dell’attivismo abolizionista diventa magicamente «vittima di tratta»
sempre e comunque, come se non fosse mai esistita nella storia
dell’umanità tutta un’emigrazione dedita alla ricerca di lavoro, sia
esso sessuale o non).

In tutto ciò, una donna trans straniera racchiude in sé ogni fonte di
discriminazione possibile. La parola trans in molte persone evoca
immaginari relativi alla prostituzione, ma il connubio «trans straniera»
ne evoca in chiunque, tanto che si potrebbe dire che la donna trans
straniera sia in qualche maniera il motivo dell’appioppamento
dell’etichetta «prostituta» alla comunità MtF nel suo complesso, e la
diffusione di un certo sentimento razzista e anti-prostituzione fra
molte trans bianche sembrerebbe confermare. Dove cercare l’origine di
questo ruolo? In molte cose, direi, ma soprattutto nella morbosità che
vede nel corpo trans razzializzato una molteplicità di «stranezze» che
ne potenziano la carica erotica (mi riferisco sopratutto alla
«sessualità esotica ed animalesca» che viene attribuita alle straniere
in generale, che viene analogamente attribuita alla figura della donna
trans non operata, bianca e non) e nella mancanza totale di opportunità
diverse dalla strada per il risultato dell’interazione delle di razza,
genere e classe il cui funzionamento è stato già almeno parzialmente
descritto.

Alla luce di quanto detto, perché non immaginare un antilavorismo trans?
è assurdo che in quanto persone transessuali e transgender il nostro
finto riscatto (limitato peraltro in sostanza ad una schiacciante
maggioranza di  uomini trans bianchi ed eterosessuali) debba passare
necessariamente tramite la miseria dell’esistente e le sue ridicole
concessioni. Forse rispetto alla disoccupazione imposta parlare di
rifiuto del lavoro sembra un po’ ridicolo, ma si potrebbe pensare a
rivendicare qualcosa come un «reddito per l’autodeterminazione» qui ed
ora, ad esempio attraverso pratiche di neomutualismo dal basso, dal
momento che richiedere qualcosa allo stato è come chiedere pane ed acqua
al secondino, ed è evidente l’utilizzo del welfare come strumento di
controllo. Con tutte le angherie subite mi pare proprio il minimo dei
risarcimenti possibili; il tutto certamente non come soluzione, ma
nell’ottica di liberarsi un giorno da ogni delirio possibile del
capitale. Sul tavolo di una politica radicalmente frocia, e frociamente
radicale, questa mi sembra una questione importante da porre.

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