di Nicoletta Poidimani
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Nel 1957, Antonio Banfi così definiva le “anime belle”:
[…] coloro la cui unica preoccupazione è quella di essere sempre a posto con la coscienza e con i grandi principi. […] le “anime belle”, anche se animate dalle migliori intenzioni, finiscono quasi sempre nel campo reazionario.
Da quando, un paio di giorni fa, un telegiornale nazionale ha mostrato il video del trattamento “disinfestante” imposto coercitivamente e in modo umiliante a donne e uomini rinchiusi in uno dei tanti lager di Stato – il Cie di Lampedusa – si sono levate le voci indignate delle tante anime belle (e brutte) che popolano questo paese.
E non è la prima volta. La pratica del piagnisteo è prassi consolidata, pulisce momentaneamente le coscienze di chi scopre cosa gli accade intorno solo se è catodicamente dimostrato. E si indigna. Oh, quanto si indigna! E nell’indignarsi rimuove di essere stato complice – quando non anche fautore – dell’esistenza dei lager del nuovo millennio.
Sono stanca di stare a ripetere che questi lager sono stati creati per legge nel 1998 dall’allora governo di centro sinistra; una legge che porta il nome dell’attuale presidente della repubblica e dell’allora ministra agli affari sociali.
Voglio, invece, rammentare a chi ha ma memoria un po’ troppo a breve termine che, da allora, ci sono stati processi su processi – tutt’oggi in corso – contro chi quei lager non li ha mai voluti.
Lecce, Torino, Bologna, Milano sono tra le principali città che hanno visto un susseguirsi di inchieste-farsa e processi contro donne e uomini che hanno voluto esprimere una solidarietà non solo parolaia con altrettanti uomini e donne rinchiusi lì dentro e hanno denunciato pubblicamente tanto le vessazioni, le violenze anche sessuali, l’uso massiccio di psicofarmaci propinati anche nei cibi – in una parola, la disumanizzazione – ma anche le connivenze e gli interessi ben poco “umanitari” degli enti gestori e delle aziende che di quei lager ne hanno fatto un business – Croce Rossa, Misericordia, Connecting People, Consorzio Oasi,…
E che dire degli immigrati e delle immigrate che, rinchiusi in quei lager, hanno messo in atto delle rivolte e sono stati, poi, processati – magari con tanto di ente gestore testimone dell’accusa – e incarcerati, fino ad essere di nuovo trasferiti in altri “lager della democrazia”?
Voglio ricordare chi, come Mohammed El Abbouby si è “suicidato” nel carcere di san Vittore a Milano quando ha scoperto che, una volta scontata la pena per aver partecipato ad una rivolta nel lager di Milano, vi sarebbe stato riportato. O chi, come Mubraka, si è suicidata nel Cie di Ponte Galeria pur di non essere deportata nel paese di origine. Come loro tanti altri. Per non contare l’infinità di atti considerati di “autolesionismo”: inghiottire lamette o pile, cucirsi la bocca, tagliarsi varie parti del corpo, …
Dove erano le anime belle mentre succedeva tutto questo? Troppo prese dai propri privilegi per esprimere almeno un moto di indignazione?
E oggi che vogliono? I lager “umanitari”, forse?
Lo abbiamo già visto con le guerre: basta che siano definite umanitarie, e i “se” e i “ma” si sprecano nel giustificarle.
L’altro giorno ho scoperto che negli Stati Uniti la schiavitù è stata sì abolita, ma non per chi è rinchiuso in carcere. In sostanza, il corpo di uomini e donne incarcerati è di proprietà dello Stato. Be’, almeno sono sinceri.
In Italia, invece, ci propinano la grandezza e l’umanità di Cesare Beccaria nell’impegno a ridimensionare l’uso della pena di morte, ma senza mai dirci che nel fare, con l’ergastolo, dell’essere umano uno schiavo – una “bestia di servigio” – l’illuminista Beccaria vedeva un dispositivo assai più efficacemente dissuasivo perché spalmato nel corso dell’intera vita.
Sarà forse per questa formazione ideologica – nel senso di idee dominanti, in quanto della classe dominante – che le anime belle di tanto in tanto aprono gli occhi e si indignano per poi tornare alla propria misera quanto privilegiata quotidianità senza intaccare lo stato di cose esistente e gli apparati che ne garantiscono la perpetuazione?
Di fondo, poco importa. Importa, invece, prendere atto una volta per tutte che il dispositivo che in-forma e modella la vita sociale è quello delle istituzioni totali e che la banalità del male è un ingrediente del quotidiano.
In questo quadro delegare allo Stato che ha “inventato” l’ennesima istituzione totale – i lager per migranti – la soluzione del problema è profondamente stolto, così come è stolto pensare di risolvere con leggi repressive la realtà della violenza contro le donne.
Entrambi – lager di Stato e violenza sessista – sono funzionali al mantenimento dello stato di cose esistente (leggasi divisione sessuale, etnica e di classe del lavoro) e come tali vanno cancellati dalla Terra, non solo nella forma presente ma in tutte le forme con cui sicuramente si ripresenteranno mascherati.
E si fottano le anime belle, una volta per tutte!