Da “I Nomi delle Cose”
“Quell* che non hanno il genere ma hanno la classe” la rubrica di Denis ogni ultimo mercoledì del mese
“Proposte per una rivolta trans”
Mi capita piuttosto spesso vedere altre persone trans struggersi
sognando di essere nate con un corpo coerente con la loro identità di
genere. A me viene da pensare, invece, che se fossi nato maschio, sarei
stato una donna trans. Non so, ho quest’impressione.
Non so se mi identifico senza genere o fuori dai generi, dal momento che
in linea di massima mi arrabbio se, parlando di identità di genere, mi
definiscono qualcosa di diverso dall’etichetta ‘uomo trans’, ma rifiuto
del tutto la nozione cisnormativa e transfobica per cui quella parolina
– trans – non dovrebbe ricoprire nessun ruolo particolare nella mia
identificazione, nella mia storia, nella mia prospettiva, nel mio pensiero.
Le persone transessuali e transgender perdono molte cose: gli amici, i
partner, il lavoro. Ma se tutte queste cose – fatta eccezione per il
lavoro, che è già piuttosto difficile da ottenere in una condizione
senza particolari ostracismi in corso, figurarsi in altri casi – sono
tutto sommato recuperabili o è possibile ottenerne di nuove, c’è
qualcosa che come persone trans perdiamo definitivamente, ed è
l’attendibilità della nostra voce, la capacità di definirci, di
narrarci, di mostrarci. In quanto trans, non posso affermare che io
sono. La mia identità deve essere validata dagli altri.
Lo sguardo cisgender pervade la mia vita e mi sottopone senza pietà ad
un giudizio costante. Si insinua nella mia persona, nella mia storia,
nei miei ricordi, nella mia affettività e sessualità, e in parte persino
nella mia autopercezione. Mi obbliga a comprovare il mio genere in
continuazione: di fronte a psicologi e psichiatri, i quali possono
decidere tranquillamente di lasciarmi in pasto al mostro-disforia se non
dimostro di essere esattamente il piccolo macho eterosessuale che loro
pretendono io sia, se non fornisco loro narrazioni preconfezionate o
addirittura negarmi aprioristicamente la possibilità di farlo nel caso
in cui non mi identificassi all’interno del binarismo di genere. Di
fronte a tribunali che mi obbligano a operarmi per ottenere dei
documenti che non dicano il contrario di quello che dice la mia faccia.
Di fronte a una cultura nella quale sono assente, sottorappresentato o
male rappresentato, dove l’articolo di giornale medio quando parla di
transessualità e transgenderismo solitamente lo fa notificandoci
l’ennesima morte dell’ennesima sex worker trans, spesso migrante, morta
per le mani di qualche cliente che non aveva intenzione di pagare, o per
chissà cos’altro; in ogni caso, impossibilitata a fare altro vista la
discriminazione attuata nei confronti delle persone trans che cercano un
impiego.
È perfino nei nostri discorsi, dove produce innanzitutto la retorica del
nascere-nel-corpo-sbagliato, figlia di una logica medicalizzatrice a
tutti i costi. Se nasci sbagliato, ovviamente non hai alcun interesse a
palesarti come errore di fronte a chiunque, e la possibilità di
rivendicare la tua condizione come qualcosa di legittimo si scioglie
come neve al sole. In quanto trans, non credo che il mio corpo sia
sbagliato: credo che sia una parte di me che è in-divenire e in aperto
conflitto con il mio desiderio.
Quando siamo trans eterosessuali, credono che lo siamo per vivere in
maniera più semplice, per non vivere da omosessuali; quando siamo trans
omosessuali, annaspiamo in solitudine tra gay e lesbiche che ci tengono
a farci presente costantemente che loro un uomo con la vulva o una donna
con un pene mai li prenderebbero in considerazione; e quando siamo trans
bisessuali, siamo outsider estremi, connubio di ben due stranezze.
Ogni occasione è buona per mettere in dubbio ogni aspetto della nostra
vita.
Inoltre come persone trans, pretendiamo la possibilità di transizionare
per stare meglio con noi stesse qui ed ora. È certamente giusto. Ma cosa
farsene di testosterone ed estrogeni se quotidianamente vengono a
mancare la dignità e il diritto ad un’esistenza che non sia soltanto
lotta per la sopravvivenza? Francamente non ho alcun interesse nel
somigliare il più possibile ad una persona cisgender. In quanto trans
non posso e non voglio essere cis, e trovo che questo sia non qualcosa
da correggere ma un punto dal quale partire da sè, nel senso che il
movimento femminista fornisce a questa espressione.
Credo che la nostra esperienza come persone trans, da un punto di vista
che non sia cisnormativo ed eterosessista, possa fornire un interessante
bagaglio umano, politico e culturale e un punto di vista politico ed
iconoclasta rispetto alle questioni di genere, e non soltanto quelle.
Nel più totale silenzio della cosiddetta comunità arcobaleno, che sembra
adoperarsi nella rincorsa all’assimilazione gettando sotto un treno
tutte quelle soggettività che attentano alla sua autorappresentazione
come soggetto politico inoffensivo per gli etero bianchi di classe
media, e in sintesi per lo stato e il capitalismo con le biopolitiche
che marchia a fuoco sui nostri corpi. Rappresentiamo un urlo di rabbia,
rottura radicale con l’esistente: ai margini, frocie tra le frocie.
Ci viene proposto un mondo zuccheroso e magico, i cui ingredienti
principali sono un’accettazione che è soltato una forma più fine di
disprezzo e una tolleranza non troppo diversa da quella che si ha nei
confronti di una zanzara prima di schiacciarla. Un mondo dove tra la
mutilazione delle persone intersex, le problematiche delle persone
transessuali e transgender, l’invisibilità bisessuale nonché quella
asessuale, e l’alto tasso di suicidi delle persone LGBTQIA+ la priorità
generale sembra essere il matrimonio e la famiglia. Per essere felici,
contenti… e miserabili.
Ora più che mai è indispensabile alzare la nostra voce ed affermare le
nostre priorità, senza compromessi, proprio noi che finora abbiamo
accettato di buon grado. È tutto ciò possibile? Non so. Ma indubbiamente
è indispensabile.
http://effettofarfalla.noblogs.org
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