scateniamotempeste in storie di tutti i giorni
È tempo di traslochi. Di traslochi di libri. E da una scatola mezza impolverata salta fuori un quaderno che la memoria aveva sepolto.
Erano gli anni Novanta, la terza liceo, verso la maturità. Il quaderno era un metodo geniale che sostituiva i bigliettini e permetteva di non essere sgamate mentre si passava un foglio volante in classe con un lancio o di mano in mano: se usato con discrezione, si potevano scrivere poemi epici con le gaffes dei vari insegnanti e compagni, storie personali, pettegolezzi e nessuno si sarebbe accorto di niente, a parte noi due, che eravamo diventate una società per azioni “tu prendi appunti di filosofia, mentre io ti scrivo, poi con greco ci scambiamo, io prendo appunti e tu mi rispondi”. A metà anno avevamo già completato tre quaderni e nessuno si era accorto di nulla, era il nostro piccolo segreto, complice il fatto che eravamo tra le migliori della classe.
Ad averlo ora tra le mani e decidere di aprirlo, mi sembra quasi di commettere la profanazione di una tomba, quella della mia prima giovinezza. Mi tremano le mani, non so se voglio leggere ciò che scrivevo, sono in bilico tra l’imbarazzo e la paura di vedermi ora come un’adulta frustrata nelle sue speranze e delusa per non aver seguito con le unghie e con i denti i propri sogni, eppure voglio sforzarmi di leggere. Tanto oramai è tardi per tornare indietro e il motto della mia vita è “le cose andate sono andate”.
Mi viene in mente l’immagine di me a diciannove anni: non ero certo carina, forse lo sono più ora. Vestivo con dei lunghi maglioni neri, i jeans attillati e gli anfibi, i capelli lunghi ma poco curati, né lisci né ricci, che facevano le “onde”, o forse li avevo già tagliati cortissimi, non ricordo. Le ragazze di oggi sono più femminili e più belle, hanno magari più stile e carattere nel vestire. Mi ricordo che alternavo letture davvero impegnate a libri come Jack Frusciante è uscito dal gruppo, sapevo a memoria pagine di citazioni di Che Guevara e tutte le canzoni dei Nirvana, ma anche quelle di De Gregori, e avevo un diario pieno di foto di divi del rock, di citazioni poetiche, di immagini di guerriglieri, tra cui spiccava l’immancabile Subcomandante Marcos…
Ero abbastanza un pesce fuori dall’acqua rispetto a una scuola dove forte era la presenza dei figli dei nuovi industriali e di quelli delle vecchie classi di intellettuali e liberi professionisti, che si dovevano adeguare alla cafonaggine degli ultimi arrivati, che disprezzavano pur senza poterselo più permettere. Erano i primi anni in cui la Lega era fortissima qui al Nord e, nella mia scuola, Lega e tutte le peggio destre erano abbastanza seguite, accanto a un qualunquismo dilagante.
Quelli e quelle con la maglia del Che e del calcio zapatista si contavano sulle dita di una mano.
Anche Valeria, la mia compagna di quaderno segreto, nonché di banco, nonché cara amica, era una dall’altra parte della barricata, di una ricca famiglia di destra, che vantava medici, notai e avvocati nella genealogia, qualche parente industriale e politico locale considerato però provincialotto e parvenu. Litigavamo spesso anche se la nostra amicizia era sicuramente basata su altro, su qualcosa che ora non riesco a ricordare e neppure saprei spiegare. Forse sulle confidenze sui ragazzi, forse su alcuni gusti musicali (si andava assieme ai concerti…), forse su un’affinità inspiegabile di carattere, che mi fa trovare a volte in sintonia con persone che la pensano molto diversamente da me…
È ora di aprire il quaderno. Lo apro dal fondo perché sono curiosa – terribilmente curiosa – di capire quali sono state le nostre ultime parole scritte: “Cara Valeria, tra un paio di settimane finirà questo lungo percorso, quante cose abbiamo da studiare per la maturità e Hegel proprio non mi vuole entrare in testa. Non so se ci sono portata per la filosofia. In ogni caso so che mi iscriverò a una facoltà umanistica. Tua madre ha tentato di convincere la mia a farmi frequentare la Bocconi. A parte che a casa non ci sono i soldi, ma non credo mi piacerebbe: io voglio essere felice e fra gli studenti della Bocconi non sarei felice, neppure come manager rampante sarei felice…sarebbe un fallimento”.
Valeria mi aveva risposto: “Forse ha ragione mia madre, tu lo sai che io Hegel me lo mangio a colazione e che la filosofia invece a me piace moltissimo, ma non ci mangi a fine mese. E se poi resti sola? Zitella, intendo!!!! Lo sai cosa ci fai con una laurea in filosofia o simili? Al massimo, cioè se ti va bene, puoi insegnare”.
Risposta: “Vale, io non sono pronta a sacrificare così tanto, tantissimo, le mie inclinazioni, io ai soldi non ci penso mica per ora. Forse sono sprovveduta. Ma tu? Non eri idealista anche tu? Non è che ci perderemo di vista? Ho paura”.
Qualche mese dopo la maturità io ho perso, come prevedibile, completamente le tracce di Valeria. Non ho quasi mai più pensato a lei. Ci sono stati anni lunghi, belli e pieni, dopo. Riempiti ancora di più dalla militanza politica, da amori ricambiati (e no), da viaggi, da eventi personali e mondiali che hanno cambiato me e la società, non sempre e non solo in meglio, anzi. Le speranze che avevo mi sono tornate indietro a chiedere il conto come un boomerang.
Eppure, se ripenso a tutto quello che ci è successo come generazione, prima generazione X, poi generazione “Genova”, poi precari degli anni zero, oggi in cerca di identità, io non mi sono mai pentita delle scelte che ho fatto. Qualche anno fa mi è capitato di leggere un trafiletto su Valeria su un giornale nazionale: indicata come simbolo di emancipazione femminile, perché una delle poche donne con un ruolo di dirigenza in una società a stragrande maggioranza maschile. In quanto giovane e donna era identificata come un modello di femminismo. “Ma che femminismo?!”, ho pensato io, “semmai, buona famiglia di origine e tenacia nel non tradirne le aspettative”. Ma l’ho pensato senza rancore o invidia. In fondo va bene così. Valeria è il simbolo di come la società abbia stravolto tutto per non stravolgere niente. La ricordo come un’amica importante negli anni della formazione, anche con affetto. Nulla più. Erano strade che si sapeva si sarebbero divise. Neppure le avrei potuto cantare Venditti: “compagna di scuola, compagna di niente, ti sei salvata dal fumo delle barricate”, perché lei e la sua famiglia sulle barricate non solo non ci sarebbero mai saliti ma sono stati e stanno dall’altra parte.