Una normale giornata (di barbarie)

da www.scateniamotempeste.wordpress.com
Da quali regole è normata la nostra società? Su quali principi si basa la nostra democrazia? Il principio di giustizia sociale? La meritocrazia? La libertà di stampa, di impresa, di fregare gli altri? Di dare ai ricchi per togliere ai poveri? Cos’è una democrazia vera e compiuta? La democrazia è superata?
Con enorme disagio, questa mattina prendo la metropolitana per la prima volta nell’anno nuovo. Scrivo “con enorme disagio” perché la città che sta di fianco al mio paese (vedendo le cose con un’ottica ribaltata) non mi piace più da anni, per lo meno da quando hanno reso i Navigli, le colonne e Porta Genova dei luoghi da borghesia del sabato sera e il centro è diventato un posto per ricchi profumati. Comunque non è questo l’argomento del post. Dicevo che salgo sulla linea 1, la rossa, e mi si presenta credo tutto il panorama umano possibile in questo paese. Lo osservo.
Ci sono le studentesse con gli I-phone, amiche silenziose, perché ognuna è impiegata a parlare con gli amici via web: “poco male – penso – è il segno dei tempi”. C’è una signora che ha la mia età ma è una signora: ha scuoiato uno zoo intero e se ne vanta in una sorta di truce esibizionismo (io non sono un’animalista convinta, ma sono nemica del cattivo gusto): pelliccia a pelo lungo, stivali in coccodrillo nero traslucido, borsa armani nera con una scritta bianco ghiaccio che ipnotizzerebbe un cieco, anch’essa in un materiale lucido decisamente appariscente e collane d’oro da fare invidia a Pié Baracus. Ci sono altre donne, alcune leggono, altre guardano il telefono e nessuna parla. Ci sarebbe silenzio se non ci fossero gli “uomini in divisa”, quelli che vivono la giornata ingabbiati negli uffici, tutti vestiti uguali: magari hanno una moglie e una figlia, come le studentesse su cui stanno facendo commenti in questo momento. Gli uomini da ufficio hanno sempre i capelli lucidi, che non capisci se non si lavano o mettono troppo gel. Gli uomini da ufficio, se non sono proprio belli, hanno quel non so che di grigio e stressato, che io penso che una donna, se sta con loro, di certo non è che si possa divertire molto (ma magari stanno con una loro simile, anzi forse nella maggior parte dei casi è così).
Poi c’è la “monatta” da metropolitana: è una rom incinta, sarà al settimo mese a giudicare dal pancione, ha i sandali e i piedi gonfi, anche se fa freddo. E’ la monatta perché scuote continuamente il bicchiere con le monetine e ripete la stessa litania, che annuncia il suo arrivo, man mano che il rumore si avvicina. Ma è la monatta anche perché la donna con la pelliccia ostentata, le studentesse e gli uomini in divisa si scostano. La signora impernacchiata addirittura sbuffa (Monatta è un neologismo mio: dovremmo chiedere agli storici se ci furono donne monatto durante la peste manzoniana, ma forse il sessismo ci ha salvate almeno da questo terribile mestiere!).
Pensieri che mi fa venire in mente la rom: 1) per fortuna che io non metterò al mondo un numero smisurato di figli, per poi mandarli a chiedere la carità; 2) chissà a cosa pensa lei, vedendo me, sempre che mi veda, e chissà se vorrebbe fare la mia vita (c’è una sorta di razzismo e superiorità infatti in noi che ci sentiamo “civilizzati” a dare per scontato che, avendone le possibilità, i rom vivrebbero esattamente come noi); 3) chissà se avrebbe voluto abortire, se è troppo condizionata dalla famiglia e dalla cultura patriarcale per farlo o se davvero li vuole i figli e vuole crescerli così. Mi chiedo quanto c’entrino gli strumenti culturali e il bagaglio personale nelle riflessioni che faccio. Mi chiedo se è più libera lei o io. Dal mio modo di vedere sono più libera io ma la risposta non l’ho io, non la avete nemmeno voi, solo lei sa in che misura si sente libera e in che misura oppressa, ma il mio/il nostro mondo e il suo sono così distanti, che lei non si concederebbe tanto facilmente alla mia curiosità.
Guardo di nuovo la donna dalla pelliccia e credo proprio di odiarla. Anche lei è tanto distante dal mio mondo. Non perché è ricca. Non perché è curata. Non sicuramente perché va in giro vestita (per me “conciata”) così. “Se avessi i suoi soldi di certo mi vestirei meglio -penso – non avrei bisogno di fare pubblicità ad armani, è così plebeo tutto ciò” (dopo quello sulla rom è il secondo pensiero classista che faccio in cinque minuti). In ogni caso credo di odiarla – anche se magari è simpaticissima – perché ha sbuffato quando è passata la zingara. Come se lei avesse diritto a non essere scocciata dalla marmaglia, come una storia di altri tempi. Eppure si vede che è una che i soldi ce li ha da poco, perché i ricchi e le ricche di famiglia hanno classe da vendere e lei no.
Mi viene in mente Robespierre e le taglio metaforicamente la testa.
Sono arrivata. Esco dalla metro. Ci sono diversi uomini giovani e neri, che mi tendono il cappello. Una volta vendevano delle cose, collanine, custodie per i cellulari, cinture, ombrelli… ora tendono un cappello. Questa cosa di chiedere la carità si chiama miseria. Alcuni dicono che è così perché non hanno voglia di lavorare, ma secondo voi una/o viene dal suo paese (dove si suppone abbia una famiglia, degli amici, una casa, un tetto insomma) per finire così? Chissà da dove vengono quelli che per noi sono tutti marocchini o senegalesi, chissà che speranze avevano nel venire qui, chissà… se potessero e si arricchissero, farebbero parte anche loro del gruppo degli sfruttatori o farebbero tesoro della loro esperienza da sfruttati?
Mi si pone sempre il problema morale se dare o no i soldi a chi me li chiede, quanto dare, qual è il confine tra la loro miseria e il mio impoverimento, e se cambia qualcosa per loro sul lungo termine con il mio “fare la carità”, e se cambia qualcosa a me per un euro, che poi diventano dieci, venti trenta, quaranta, se li dessi a tutte/i. Perché di carità si tratta. Di ottocentesca carità. Mi viene in mente quel brutto film “Cuore sacro”, dove lei, novella San Francesco, si spoglia in mezzo alla strada ossessionata dall’idea di poter aiutare i poveri. Ma non cambia nulla. Perché i poveri ci sono sempre. E non è la mancanza di ricchezze in una società che li rende poveri, sono le scelte che quella società fa di avere dei poveri e dei miserabili.
Accanto ai questuanti, i manifesti elettorali. Puntano sull’onestà e sulla trasparenza: “forte perché libero”, “onestà e competenza”, “difendiamo i deboli e le famiglie”. Mi chiedo quali deboli e quali famiglie, quale forza e quale competenza. Le parole al vento. Nessuno fa niente per questi accattoni da strada. Loro non votano. Loro non esistono. L’unica che fa qualcosa massicciamente per questi è, e va detto, la Chiesa: non con l’intento di dare loro gli strumenti per lottare, ma per spirito di carità. È la distanza fra me e la Chiesa. Non si abbattono le differenze sociali, così. Si accetta che ci siano i poveri così i ricchi possono abbattere i sensi di colpa e sentirsi buoni.
Qualche tempo fa le differenze sociali non mi sembravano così nette ed evidenti. La crisi ha davvero messo in ginocchio la gente o sono le scelte che abbiamo fatto in questi anni che ci hanno messo in ginocchio o sono io che sono diventata più sensibile alle povertà di questo mondo? A camminare per strada c’era sempre chi ti chiedeva i soldi ma ora è una folla di poveri. Le distanze la segnano anche i ricchi, ancora più ricchi, più sbruffoni e arroganti. Noi, ovviamente, preferiamo imitare questi ultimi, camuffarci da vincenti, piuttosto che accertare quale sia il nostro stato e lottare collettivamente per migliorarlo. Siccome non abbiamo mezzi, urliamo alla meritocrazia: “sono competente, bravo, uno sgobbone, voglio anch’io la mia fetta di torta!”. Come se i ricchi fossero tali in quanto bravi e non per disparità di condizioni di partenza e di opportunità. Poi, se qualcuno ce la fa, odia subito i poveri, gli inetti che, al contrario di lui, non ce l’hanno fatta…
Ecco la barbarie: la lotta per essere vincenti con ogni mezzo, perché il fine giustifica i mezzi e l’egoismo diventa il motore del vivere sociale. L’esibizione della ricchezza uno strumento di accettazione. La povertà un’onta.
Sarò matta e comunista (o matta in quanto comunista) ma a me invece la solidarietà viene più facile con i poveri che con i ricchi. Poi i poveri sono brutti, sporchi e cattivi, ma i ricchi non è che siano meglio. Un mondo più giusto non può basarsi sulla promozione individuale.
Rileggo i manifesti elettorali: “Forte perché libero” “Onestà e competenza” “Difendiamo i deboli e le famiglie”. Quei deboli che chiedono i soldi per strada sotto le facce degli onesti, anche se hanno una famiglia, dubito che verranno difesi… Essi non votano, ergo non esistono, perché prodigarsi per loro? La massa di noi ceti medi diventati ceti bassi dubito che verrà liberata dalla forza di chissà chi: ci diranno altre menzogne per dirci che non si può fare nulla, è troppa la spesa pubblica, lo spread è in rialzo e noi siamo fannulloni e il diritto a vivere civilmente ce l’hanno solo i grandi lavoratori, non i lazzaroni.
Alla barbarie di questa città io ci vedo solo una soluzione ma, come dice una mia cara amica “mi sa che non ce la meritiamo”…
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