Daniela Pellegrini
Nel momento stesso in cui sono venuta al mondo della mia coscienza, il mio corpo sessuato era lì da vedere. La materialità dei suoi vissuti dentro questo mondo era inscindibile sostanza dei miei pensieri e dava voce ai miei desideri. Primo tra tutti quello di esprimerlo ed esprimermi al massimo del suo valore e della sua creatività. Non ho mai avuto dubbi sulla genialità insita nell’essere donna, bastava dimostrarlo una volta per tutte in quella volgare storia di uomini che l’aveva cancellata ed esclusa.
Feci di questa esclusione subita per secoli, la mia forza e la mia superbia, per esprimere estraneità ed affermare che il mio desiderio era altrove.
Ma per affermare l’esistenza di questo desiderio, quello di una identità che si esprimesse creativamente, era necessario liberarla e renderla autonoma da ogni imposizione esterna. Il pensare in modo differente e autoreferenziale faceva tutt’uno con la necessità di cambiare, insieme ai soggetti che mettevano in atto questa invenzione, anche la realtà esistente perché essa stessa divenisse struttura portante ed esplicitata di quel pensare.
Non poteva che chiamarsi politica delle donne.
Io sono dunque una intellettuale che, avendo eletto la politica come luogo di creatività materiale, ha preferito non esserlo. Ma, per non essere una intellettuale in senso classico, ho dovuto spostarmi da lì, anche per poterci ritornare al momento opportuno, cioè ogni qualvolta si rendeva matura e necessaria una modificazione nei “fatti” e nelle “azioni”. Non nella teorizzazione rappresentativa, ma nella politica della vita. Ho cercato dunque di essere, sì, quella che ero in ogni momento, ma di non farmi mai cogliere di sorpresa dall’omologazione. Altrimenti ho preferito reggere il silenzio e la stasi. Ci ho provato, ci provo.
Questo è il mio desiderio: non produrre stasi qualificanti, ma tessere percorsi vitali.
Per far questo, dicevo, e ciò mi ha facilitato il compito, ho scelto, ed ho voluto, come ambito di vita e creatività la sperimentazione aperta della politica con le donne. E non a caso. Non c’è ambito più fecondo di possibile cambiamento, e quindi di reale pratica di creatività, del movimento delle donne. E ne dirò più avanti le ragioni.
Tutto ciò che dirò sarà in questa luce: lo sguardo del mio essere e del mio percorso con le donne.
Relativizzato a questo mio sguardo, il mio dire non vuole essere né definitorio, né tanto meno legato all’intellettualità classica, ma al gioco creativo dell’essere e del testimoniare. Sono convinta che ciò che apre la strada alla creatività è quel percorso di spostamenti progressivi che un soggetto mette in atto nella ricerca di identità e di un linguaggio coincidente. Lo è stato sicuramente per me.
L’importante è che si compia, momento per momento della consapevolezza, una centratura illuminata e illuminante del sé, e soprattutto del “sentire” che “quel” momento comporta, e la congiunta e fluida capacità di esprimerla, anche solo con gesti di vita.
Saper reggere la frammentarietà di questa percezione non come vuoto, ma come ricchezza e apertura verso nuovi spostamenti, è garanzia della possibilità soggettiva di evoluzione e cambiamento, anche nelle forme di espressione.
La pretesa, invece, di una centratura totalizzante e complessiva del sé, nell’affermazione o nel riferimento a schemi e normative rigide, o nell’affidamento supino del sé a uno sguardo esterno, rappresenta l’argine contro la paura di mancanza o di perdita di identità e, soprattutto, l’incapacità di elaborarla.
Su questa radicalizzazione si fonda inoltre il senso di ambigua onnipotenza con cui l’ipotetica universalità del “modello” si contrappone al senso sfuggente e fluido del limite, della parzialità, delle diversità e dei mutamenti.
Così facendo viene cancellata di fatto la percezione reale e complessa di quel sé che si era voluto salvaguardare e non gli si riconoscono più moti vitali, soprattutto se “trasgressivi”. E proprio perché ritenuti tali, si autorizza l’universalità della norma a toglierci ogni libertà e a farci sentire in colpa per inadeguatezze e devianze. Da ciò deriva l’impedimento che ha cancellato le possibilità creative dei molti della specie umana, che ha esaltato la riconoscibilità dell’arte come “fuori norma” e, talvolta, limitrofa alla pazzia. Se il processo di ricerca si arresta e si irrigidisce in una identità statica e definitoria, la possibilità di esprimerla in gesti di creatività, diventa voce monocorde, certamente rassicurante, ma che poi si trasforma in ripetitività nevrotica e regressiva, infine in autodistruttività inconscia e morte di ogni input vitale. Questo percorso si adatta come un guanto a quello che il pensiero della civiltà patriarcale ha espresso fino ad ora.
Alla luce di questa considerazione, voglio allora indagare la posizione dei soggetti umani che questa cultura ha espresso ed ha storicamente stabilizzati in una identificazione sessuata che li vede uomo e donna.
Non vi è percorso più legato a un meccanismo di ricerca definitoria di identità univoca e universalizzante di quello agito dal patriarcato in secoli e secoli di definizioni, repressioni ed esclusioni. Esso ha avuto anche vissuti accidentati, conflittuali e sono proprio questi ad aver prodotto gesti di creatività forte.
Mi autorizzo dentro questa visuale, come prodotto cioè di tale repressione, a leggerli con sospetto; come se covassero in sé, pur nelle radici liberatorie e di “rivolta” che sempre li caratterizzano, quella stessa tendenza al rendersi Unici ed escludenti, come di fatto è nella logica dell’Universalità del soggetto. Questo è stato ed è tuttora il loro fascino: qualcosa che parla di massima affermazione di creatività, là dove più feroce è la repressione della sua possibilità d’esistenza.
A tutti coloro che da questa repressione traggono sicurezza e identità non rimane che esprimere la nostalgica, appassionata e stupefatta reverenzialità al gesto eroico della creatività, quello che parla di capacità di trasgressione, di libertà magnificente. Per contrasto.
Nella fissità testarda del patriarcato, l’identità umana si è rappresentata nell’UNO, in un LUI uniformante, irrimediabilmente di segno maschile e depositario dell’unico valore e senso possibile. Ciò ha cancellato le donne, e ogni altra libertà.
Le donne sono le più “disadatte” a quella fissità che non poteva che vederle lontane, data la loro esclusione. Un modello di Universale che non le contemplava e che pretendeva comunque un loro adeguarsi in negativo, era il massimo di normalizzazione della cancellazione richiesta. Nessuna donna avrebbe mai potuto godere delle “gioie” di poter essere “normale” davvero! L’unica cosa che le mancava era la consapevolezza e la fierezza di questo, perché proprio da qui poteva, ed ha potuto, prendere le mosse la sua libertà e uno sguardo aperto della creatività rispetto a tutta la specie.
Lo scenario patriarcale ha perpetuato per secoli il genocidio più atroce nella storia, quello che ha costretto le donne in uno stato di sudditanza, di perenne inadeguatezza, di fragilità, di masochismo e di colpevolizzazione che hanno provocato la conseguente impossibilità a dare espressione di sé, e che le ha confinate nel non detto, nel non visto. Ma ciò le ha rese anche il soggetto storico più adatto a mettere in discussione l’universalità e la fissità di ogni tipo di identità imposta ed escludente al contempo dal momento che hanno vissuto in prima persona la contraddittorietà, la debolezza, l’estraneità che quel modello universale provocava in loro.
Esse hanno saputo sopravvivere a tutto questo. E si sono costruite, in millenni di pazienti sperimentazioni, l’esperienza necessaria a rendere il movimento delle donne, nato nei nostri tempi, ma “preparato” da trame sottili mai interrotte, la più pregnante espressione della possibilità di continuo cambiamento, sviluppo e messa in crisi dell’identità che la creazione pretende per essere viva.
Queste trame sottili oggi hanno preso corpo nella libertà femminile.
Ogni cambiamento storico, ogni espressione politica creativa si è sempre innescata su una messa in discussione di identità impositive normalizzanti degli schemi di appartenenza, di attribuzione di valore, di potere, da cui nasceva inevitabilmente la spinta al costituirsi di identità contrappostive, che si vogliono cioè differenziare per antagonismo. (Forse anche il patriarcato a suo tempo!)
Ma l’opposizione è l’altra faccia della normalizzazione, e come tale si riattesta. L’affermazione e la volontà di esprimersi per differenza, di agire cioè un differire reattivo, non ha nulla ha a che fare con la creatività.
La politica delle donne ha innescato questo processo soggettivo più in termini di affermazione autonoma, di modificazione personale (la famosa politica del partire da sé) che di opposizione, con l’ampiezza e le risonanze che può avere una sempre più allargata collettività, tutta “in movimento”.
La sua vitalità e possibilità creativa si è sempre esplicitata in continui rimandi e messe in discussione di acquisizioni, modi dell’essere e del praticare, producendo così spostamenti progressivi e mai fissità, soprattutto individuale, poiché è “la relazione con le altre” (soggetti plurali e non “modello”) il fondamento stesso di questa ricerca e di questo percorso mai pacificato. È stato un processo conoscitivo a favore del proprio desiderio, e del proprio sesso, in presenza costante delle diversità, delle disparità, delle relativizzazioni e delle parzialità, che hanno prodotto una tensione creativa esaltante e avventurosa.
Anche il processo creativo delle donne si è innescato su una messa in discussione dell’identità (e dei ruoli ad essa collegati) impositiva, normalizzante e uniformante, con la quale il “regime patriarcale” segnava il femminile attraverso il proprio Potere e la propria Idea Universale. Aveva perciò nelle sue premesse, oltre a grandi spinte e possibilità creative per sé e per il mondo, anche tentazioni oppositive.
Si è trattato, fin dall’inizio, di effettuare spostamenti progressivi da una identità imposta e parcellizzata nei codici rigidi di comportamento adeguati alle funzioni e ruoli richiesti, a una identificazione autonoma e progressiva di sé. Questo lavoro attuava dunque, da una parte, una ricostruzione e focalizzazione autocentrata sui vissuti e i dati delle identità in possesso, e dall’altra assestamenti, spostamenti, e progettualità dinamiche.
È stato un processo ricco e straordinario, e può continuare ad esserlo, se non subirà un arresto nel definirsi “teorico” di una appartenenza ed identità fissa, intesa come contraltare di una unica alterità da cui si “differisce”.
Questo a mio avviso significherebbe riaprire la possibilità di identità dipendenti e non autonome da modelli universalizzanti, e in più legate alla seduttività coatta della dualità rigida, con relativa rimessa in campo di relazioni di potere, di esclusioni e illibertà.
Alcune fasi hanno caratterizzato il percorso politico delle donne: la partenza per tutte è stato il prendere atto e consapevolezza di sé, del proprio modo di essere e di percepirsi in un contesto dove, tra il “privato” della propria esperienza ed il “pubblico” dell’ambito culturale e strutturale complessivo, non vi erano solo nessi significativi, ma coincidenza di linguaggio e aderenza simbolica ben precisa.
Da questa constatazione dell’essere così come il contesto culturale ha imposto e condizionato per ciascuna, è nata la volontà di ricercare ed esprimere una propria autonomia in termini di modificazioni non solo personali, ma complessive, sociali attraverso quella che si chiamò politica del desiderio.
La sua gestione in prima persona ha comportato la valorizzazione dell’essere donne e delle relazioni tra donne, in quanto base portante, e inderogabile, di vissuti di contenuto nuovo e aderente al sé delle donne, da elaborare singolarmente e insieme.
Non è stato semplice riuscire a percepire e far emergere il proprio desiderio autonomo, costretto com’era a coniugarsi nelle contraddizioni tra antiche e ambigue rappresentazioni di sé e nuovi avvistamenti. Il separatismo, una focalizzazione estrema su di sé e le altre, fuori da sguardi e visibilità scontate, forzate in un unica alterità oppositiva e perciò devianti, ha dato spazio di libertà estrema alla creatività del possibile per noi.
In questo contesto si sono sviluppate libertà di esistenza e differenze soggettive che sconfermavano l’apparente omogeneizzazione basata sull’uguaglianza; quell’uguaglianza che aveva continuato a rappresentare per tutte l’ultima possibilità di rassicurazione rispetto all’ampiezza della messa in discussione di regole, riferimenti, modi e linguaggi. Questa rassicurazione esorcizzava infatti la paura di perdita di identità, di salto nell’ignoto che quella sperimentazione pretendeva da ciascuna, ma, al contempo, la rendeva percorribile.
La creatività che ciò aveva comportato ripagava certo di questo rischio, ma non abbastanza di fronte a stasi, difficoltà, incertezze di cui il percorso era disseminato.
Per gestire o giustificare queste paure, queste diversità, queste disparità conflittuali, nascono allora “strumenti” quali: l’analisi dell’inconscio, l’affidamento ed ora la mediazione. O nominazioni autorevoli: come la madre simbolica – l’autorità femminile.
Lo strumento e la nominazione, nella loro funzione di punto fermo, di insieme di regole, di “ricetta” rassicurante, hanno poco per volta attenuato e poi sostituito la spinta e la mobilità creativa e, prendendone il posto, ne hanno a mio avviso deragliato e occultato il senso eversivo. Rischiando a tuttora di instaurare, al posto del precedente percorso creativo, quello di una “integrazione” all’esistente che, nel suo essere vissuta come attiva e possibilmente vincente, è rassicurante e perfino entusiasta.
La volontà inoltre di sistematizzazione filosofica e teorica “della differenza” in una rieditata universalità anche per la donna, oltre al desiderio di valorizzazione e identificazione forte del soggetto, parla a mio avviso anche di argine a quella paura di identità vissuta come fragile, se non è “autorizzata” e precisata; argine alle diversità che possono sconfermarla.
Si è radicalizzata così la differenza (la seconda come la prima) e si rischia di oscurare, anche entro il nuovo sguardo aperto dalle donne, quelle contraddizioni che rendono possibili percorsi di reale libertà e responsabilità soggettiva nella parzialità e frammentarietà.
L’individuazione e nominazione della “differenza” in due soggetti ontologici, filosofici e simbolici fissi, oltre a “intellettualizzare” dei dati di realtà dinamici e creativamente elaborabili, ha radicalizzato nel Due, invece che nell’Uno, il modello di riferimento. Un modello che si definisce per differenza è “sottilmente” oppositivo, e massicciamente nuovamente normativo. Ed esclude ogni tipo di libera variante…
L’identità femminile sembra dunque conquistata e messa al mondo.
Ma proprio in questo, dicevo, ho iniziato a percepire una specie di alterazione e di capovolgimento degli intenti e dei modi dell’essere creativo delle donne. Alcune parole chiave che “dicono” del progetto e del percorso attuato, mi danno la possibilità di tentarne una lettura critica.
Parole chiave Parole che fanno da argine
Il privato è politico Realismo (singolarità nella polis) (l’esterno nella singolarità, agio nel mondo)
Dalla consapevolezza che è il soggetto a incarnare e perciò a determinare di conseguenza il senso stesso della propria politica e della sua messa in atto, si è passate a enfatizzare i “dati di fatto” dell’esistente, accogliendoli entro la soggettività come campo privilegiato di investimento ed azione. La contrattazione al posto della creazione per rendere agevole (?) l’integrazione.
Politica del partire da sé; Affidamento (responsabilizzazione)
Sempre per agevolare il cammino, anche entro il percorso di elaborazione della propria soggettività, viene proposto uno spostamento esterno, un “esempio” da scegliere (su basi certamente soggettive, ma quanto libere e creatrici di possibilità davvero autonome?), a cui fare riferimento come “modello”. Un adeguarsi e un riconoscersi in un desiderio altrui, ad alto livello, in cui la delega appiattisce la responsabilità della scelta, la messa a rischio e in gioco della identità del soggetto.
Sostituita dal “modello” la carica creativa passa in secondo piano. Partire da sé attraverso l’altra?
Politica del desiderio Teoria della differenza (singolarità creativa) (Astrattezza universalizzante)
Nella costruzione, ricerca e mobilità di espressione del desiderio e dell’identità del soggetto si inserisce un codice rigido di appartenenza, con tutto il suo corollario di caratteristiche, di specificità contrappositive e universalizzanti nei confronti dell’Altra altrettanto statica (e “realisticamente” storica) differenza.
Autonomia; Mediazione (autogestione, creatività (Visibilità nel autoreferenziale), autoreferenziale, mondo, contrattata, ricercata all’esterno dall’Altro)
Dalla libertà soggettiva di ogni tipo di diversità – agita nelle relazioni personali e collettive – per ricercare modi di costruzione del mondo, si passa, come conseguenza dell’essere quei “ben precisati” DUE della specie, alla inderogabile necessità di contrattazione e mediazione con quell’Unica, Privilegiata, conflittuale, Immodificabile alterità. Dalla centralità creativa alla dipendenza coatta.
Autorevolezza; Autorità femminile (valore creativo mobile) (valore definitorio)
Il valore e la forza propulsiva data all’agire politico, che l’auto-centratura creatrice di ogni singola metteva in campo nelle relazioni dinamiche di un tempo, e che venivano subito percepite e riconosciute con naturalezza, sono stati sostituiti da forme divenute “rappresentative” e quasi istituzionalizzate del sapere. Forme del sapere che poco hanno a che vedere con un agire politico dinamico e “di movimento”, poiché spesso si incarnano esclusivamente in personalità di rilievo sulla scena del mondo, lontane da un reale politica di relazione, in una fissità modificabile solo per sostituzione.
Ma soprattutto, e comunque si intenda tale termine, l’immagine dell’Autorità femminile venuta alla ribalta è frutto di un “femminile” drastico e misterioso al contempo, non mai abbastanza davvero autorevole e creativo per ciascuna perché non mai abbastanza libero da autorità di riferimento.
Non più attenzione alla creatività, ma ricerca di autorizzazione.
Riconoscimento della potenza materna; Potere di vincere; potere di elargirla
Da una sacrosanta rivalutazione della figura della Madre, storicamente esclusa dal potere del Patriarcato, si è passate all’esaltazione della potenza Materna. Usufruendo degli stessi codici rappresentativi e obsoleti della spartizione, della dipendenza e conflittualità, che un potere legato a una rigida “bisessuazione a fini esclusivamente riproduttivi” mette in campo, si è affermata e desiderata la possibilità di rientrare vittoriosamente (e seduttivamente) nel gioco. Si è portata al mercato del Due la propria autonomia da quel gioco di potere e la libertà e creatività che questo comporta.
Le Donne, e le loro libere soggettività, sfumano nuovamente dietro e dentro la rieditata eterosessualità conciliante delle Madri. Concilianti perché ora possibilmente vincenti al nuovo, ed antichissimo, mercato del Due.
Quest’analisi da me attuata “sul campo”, e basata su grandi preoccupazioni che la pratica reale (e non quella teorica) agita dalle donne attorno a me mi suscitavano, mi ha trovata da ormai più di sette anni a intraprendere un percorso che nel contesto italiano si poteva, e si può tuttora, definire “eretico” rispetto a saperi e convincimenti ormai istituzionalizzati.
Un percorso che mi ha vista ipotizzare, in vari articoli apparsi nella rivista «Fluttuaria», e nelle discussioni con le mie compagne nei vari gruppi di lavoro che si svolgono al Cicip, un possibile “superamento delle differenze”, partendo in primis dalla dualità rigida e universalizzante della sessuazione.
Ora, tutte noi siamo giunte a conoscenza che questo nuovo sguardo stava prendendo consistenza anche altrove, attraverso l’elaborazione e le voci di altre donne. I contesti in cui esse hanno maturato sono molto diversi dal mio, e, data la mia esperienza di inascolto e non riconoscimento, certamente più liberi, attenti e diffusi. Mi riferisco a Teresa De Lauretis, a Donna Haraway, a Rosi Braidotti, ad Anna Camaiti … Tutte donne con le quali finalmente posso ora sentirmi in sintonia, pur nella diversità dei percorsi e delle nostre “sfumature” entro intendimenti apparentemente simili.
Per me, ad esempio, questo nuovo sguardo non è stato puro esercizio filosofico, ma soprattutto “necessità” politica. Da una parte, di modificare l’agire delle donne entro quella logica seduttiva che la dualità ha rimesso in campo inevitabilmente, poiché ha restaurato il Potere dell’Alterità per eccellenza, cioè quella univoca, coatta e riducente della sessuazione a scopi riproduttivi. E, dall’altra, di smascherare “il sogno del vincitore” che ha contaminato la loro politica.
Detto questo ho anche la percezione che le donne, grazie a un percorso storico che le ha rese “avvertite” contro ogni omologazione ed “esperte” in ricerca eterodossa di libertà, stiano mettendo al mondo, anche entro le proprie definizioni omologanti, conflittualità e grandi resistenze proprio nel cuore delle loro stesse relazioni e della politica delle donne.
Conflittualità e resistenze che comportano al momento dolori e depressioni, anche profonde, e che non possono essere lette solo come risultato di una fine del patriarcato “nominata” e che ci lascia per altro sprovviste di soluzioni reali e concrete. Queste ultime del resto non costituiscono più il campo di indagine e costruzione delle donne. Esse hanno preferito prendersi cura delle strutture che già c’erano (interpretate come “il mondo unico” della dualità) introducendosi in esse come elementi di modificazione. Un processo di “integrazione”, dunque, che dovrebbe superare ogni vissuto puramente emancipatorio e sconfermare definitivamente l’omologazione all’esistente. Ma, per attuare questa opera di integrazione dei “valori” e modi del “femminile” entro quel mondo unico che li aveva cancellati ed esclusi, le donne avrebbero dovuto contrattare proprio con quell’esistente; avrebbero dovuto mediare con l’Altro e l’altra politica, rendendosene perciò dipendenti (come la logica del due pretende). E il progetto di “propria” modificazione e di creatività passa in secondo piano. Lo scopo principale dell’agire è fuori di sé, alla ricerca di “visibilità”, riconoscimento, mediazione a senso unico.
Ma la cosiddetta “fine del patriarcato” (se fosse vera) le ha colte di sorpresa! L’interlocutore “preferito” non può più rispondere. Non è più “adeguato” alla differenza che si pretende rappresenti!? Non è più nemmeno competitivo e creativo, solo graniticamente ripetitivo e inutile. Lo dimostra il fallimento della pratica di mediazione che si è voluta instaurare nei suoi confronti. Essa, quando non viene ripagata con una assordante sordità, sembra in sporadici casi produrre risultati puramente seduttivi, in altri ripetitività banalizzanti e appiccicaticce, senza “corpo”.
Anche se ogni interlocutore “preferito” avesse la capacità di farsi sedurre e l’intelligenza di capire e convincersi, mancherebbe a se stesso, essendo privo di un proprio percorso reale e consapevole. Gli manca sostanzialmente quel lungo percorso di insicurezza esperienziale che le donne hanno vissuto per necessità, e che non può essere colmato se non da uguale “necessità”: quella di dover mettere in discussione e a rischio la propria identità, anche quella storica e culturale, per sondare nuovi spazi di creatività. Scegliendo consapevolmente di partire da sé e dai propri vissuti culturalmente coatti per poterli modificare. Ma ciò non può avvenire se le donne per prime non metteranno in discussione la propria differenza.
Per tutto questo, dunque, penso che le donne dovranno intraprendere una nuova messa in discussione non solo della propria identità e di un percorso di mediazione con quella dell’Altro, ma anche della propria appartenenza a una differenza che, come è stata teoricamente ridefinita nel Due, non ha nella sua pratica – e nella pratica col mondo, con l’Altro – modi e vitalità tali da essere davvero libera progettualmente. E, soprattutto capace di rendere libera ogni differenza (comprese quelle, plurali, dell’attuale “Altro”), in modo che ognuna diventi responsabile della propria pratica di parzialità, fuori da norme costrittive e drasticamente oppositive come quelle affermate e incarnate in un Due troppo unico e universale (o Dueversale!) per essere realmente liberatorio di qualcosa.
Secondo me, perché questo avvenga bisogna consentirsi critiche e auto-critiche vitali e sostanziali non solo alla “teoria e alla pratica della differenza”, ma al merito e alla concretezza stessa della differenza. Per poter evidenziare a tutti quell’avvistamento di libertà soggettiva che ogni parzialità consente, e per poter riavviare quel percorso creativo che la politica delle donne ha messo al mondo, e che tutti possono intraprendere responsabilmente, senza discriminanti di appartenenza e di esclusione aprioristiche. Con il senso del limite e la modestia dovuta: dovuta all’aver saputo riconoscere a quella che io ho sempre chiamata la mater/ia del mondo, l’origine, l’appartenenza e la possibilità di esistenza di ogni tipo di percorso e di differenza. Ancor prima di averle decise, catalogate, imposte od escluse, per tutti e per ciascuno.
Soprattutto, senza arrogarsi il diritto di incarnare o possedere in proprio quella materia del mondo, quella che contempla ogni differenza e la rende possibile e necessaria. Ognuno si prenda l’onere e la responsabilità del proprio percorso di riconoscimento (e non di appropriazione) di quella materia. Da qualsiasi versante del Due ci si sia trovati, e più o meno costretti culturalmente e storicamente a partire.
Scelta e consapevolezza di percorsi dunque (e non appartenenze a identità definitorie), in cui si riconoscano esistenza e creatività a ogni possibile soggettività della specie umana; basta che questa si esprima nella sua specifica parzialità e se ne prenda carico responsabilmente, nei confronti propri e delle altrui differenze.
Le donne hanno scelto, individuato e conquistato il proprio percorso.
Esso non è esportabile in campo avverso, non è donabile astrattamente a chi non può che esserne estraneo, non avendolo attraversato. La politica dell’esperienza, i nostri percorsi di presa di coscienza e modificazione ce lo hanno insegnato e dimostrato ampiamente.
La supponenza di possedere la materia del mondo le fa torto… Da qualsiasi versante del Due prenda corpo! Perché è nel Due che la supponenza prende corpo e crea antagonismi biechi, più o meno sottaciuti a scopo di potere, e giustificati da un’evidenza biologica che, da parte sua, non potrebbe essere più innocente e perfino poco interessante.
La creatività messa in campo da percorsi di identità non definitorie, e non la fissità e il conflitto duale (che dietro la “grande mediazione” cela dipendenza, seduzione, sogno del vincitore e di potere), può dare nuovo corso e senso a una cultura della specie davvero altra. La cultura della creatività in movimento, quella che le donne (e non le Madri) hanno aperto.