da Scateniamotempeste.wordpress.com. in storie di tutti i giorni
Amo ridere di gusto. Però mi capita di piangere facilmente.
Passo la vita a leggere ma vorrei leggere di più. Sono curiosa.
Mi mangio le pellicine attorno alle unghie.
A volte devo respirare più forte perché mi sale l’ansia e, dall’ansia al panico, la strada è breve. Soprattutto se è notte. E io ho uno strano rapporto con la notte.
Mi piacciono i film francesi degli anni Sessanta ma anche quelli degli anni Cinquanta. Li amo a tal punto che mi dimentico i nomi dei titoli. Uno dei miei preferiti è Les Amants di Malle, con Jean Moreau, che interpreta una signora borghese stanca del marito. Che si innamora di un uomo. Ma sa già che la noia prenderà il sopravvento anche con l’amante. Perché noi siamo creature sempre alla ricerca. Anche al titolo “Les Amants”, che è facile, ci ho pensato tutto il pomeriggio. Non me lo ricordavo. E il film credo di averlo visto almeno quattro volte.
C’è chi preferisce i film con le sicurezze, quelli dove i cattivi vengono sconfitti e i buoni trionfano e gli amori sono tranquilli e gli stereotipi sono tanti. O quei film che, anche se finiscono male, comunque il protagonista è cresciuto.
Io no. Mi piacciono un po’ le cose strazianti. Anche se vorrei essere rassicurata. Vorrei tanto essere come le persone che amano i finali lieti e “si appassionano con distacco”. A me questa cosa del distacco manca sempre. A meno che una cosa non mi interessi ma la mia, in questi casi, è proprio indifferenza.
Anche nelle scelte sono così: mi butto nelle situazioni e, come mi ci tuffo con un doppio carpiato, così sono rapida nel tornare indietro, nel fare quello che mi viene meglio, il gambero. Un passo indietro, due, tre e poi dieci venti trenta alla volta finché non vedi più l’obiettivo e non ti si sfuma davanti lentamente lasciandoti l’ombra del rimpianto, l’amaro in bocca, una lenta fine. Sono dentro o sono fuori.
Sono una pessima giocatrice. Non so bluffare. Si vede subito sia se nicchio sia se baro sia se non ho in mano altro che un due di fiori.
Mi piacciono gli uomini ma non mi innamoro (quasi) mai. Dell’amore ci sarebbe tanto da dire. Rientra tra le parole che non so usare. È come “libertà” “normalità” “pazzia”, quelle cose che cambiano di significato a seconda di chi le dice o che sono troppo grandi e assolute quindi usarle senza spiegarle può dare adito a fraintendimenti e spiegarle significa ucciderle, quindi meglio non usarle. Per me. S’intende. L’unica volta che ho detto “amore” l’ho detto per seconda e poco dopo era già finito. Mi sono sentita una fessa. Era così grande e già finito. Una contraddizione che non mi spingerà mai più a cadere in tale errore.
Sono idealista.
Potrei andare al cinema a teatro a una mostra per sere e sere ma poi ho bisogno di ballare. Di cantare di urlare. Gesti istintivi di decompressione cerebrale. Di pura fisicità.
Per esempio, questa cosa dell’essere “un corpo” è molto sopravvalutata dal punto di vista estetico e dei comportamenti sociali accettati ma poco da quello dei bisogni, degli istinti, dell’espressione vera di sé. (Se siamo arrivati ai laboratori di “espressione corporea”, qualcosa che non va c’è. Se ballo da sola e canto in casa mia sono matta, se frequento uno stage di danzaterapia, invece, voglio solo migliorare il rapporto col mio corpo. Corpo istituzionalizzato).
Questa cosa di essere un corpo mi passa attraverso il rapporto con gli altri. Quando bacio mia madre. Quando abbraccio un amico triste. Quando sono allegra e vorrei stringere il mondo. Quando faccio l’amore. Quando mi sento patetica o oscena o poco femminile nei gesti.
A volte mi sembra di essere pure troppo fisica e di poter essere giudicata male da quelli che amano i film con il lieto fine.
A volte invece troppo cerebrale. Mi consumo fra i pensieri.
Chissà come fanno a stare insieme queste due cose. Cose così lontane.
Come quando sono istintiva e una scelta la faccio in un secondo. Mentre altre le gongolo per anni: “Mah, non so, vediamo…”, anche se la risposta è già lì e io la so.
A volte ho un coraggio enorme. Affronto le cose come un carro armato. A volte mi sento così fragile come quando ero bambina e avevo paura del buio, dei camion, dei cani con i denti di fuori e del mio vicino con l’apparecchio.
Non c’è equilibrio in me.
Come facciano tutte queste cose a stare assieme non si sa. Il quadro è complesso. Mi hanno detto che, se proprio ci sto male – perché ad essere così certo non puoi starci troppo bene –, forse dovrei rivolgermi a uno specialista. Così comincerei anch’io ad amare i film con i finali lieti, smetterei di mangiarmi le pellicine, non ballerei da sola, non piangerei così spesso e riderei più garbatamente, manterrei il giusto distacco nelle cose, leggerei quel che basta per non fare la fine dell’Ulisse dantesco, farei l’amore in modo meno rumoroso, mi “innamorerei” solo degli uomini giusti, sarei meno patetica e avrei un rapporto madre-figlia meno morboso. Forse mi ricorderei anche i nomi dei film, perché avrei trovato l’equilibrio che mi manca. Saprei dosare mente e corpo. Sarei un frutto perfetto di questa società. (anestetizzata).