Il significato femminista di una memoria

8 settembre 1974/8 settembre 2014

8 settembre 2014 alle ore 17.00 presidio in via Fiuminata, alla lapide per Fabrizio Ceruso

Il significato femminista di una memoria

memoria

La memoria è l’occasione per produrre nuove possibilità e dare un senso agli eventi presenti e futuri. Quarant’anni fa, l’8 settembre del 1974, veniva ucciso a San Basilio Fabrizio Ceruso. Si può ricordare con affetto, o con commossa partecipazione, con analisi storiche e prese di posizione politiche, si possono dedicare piazze e lapidi.Tutto questo è importante, è segno manifesto del ricordo che non muore.Ma la nostra storia politica e personale è fatta di esperienze e di significati, di segni lasciati sulla carne e nell’anima che prendono corpo nelle scelte e nelle azioni e che ancora adesso sono tracce nel nostro operare.

Cosa è stata quella morte a quel tempo per noi compagne e femministe e quali sono le tracce che ancora leggiamo in quello che facciamo e pensiamo e diciamo?

Io sono del “nord” e mio padre è stato trasferito per lavoro a Tivoli, una cittadina vicino a Roma , nel 1967, quando io facevo il quinto ginnasio. Quindi ho cominciato lì il mio impegno politico. Tivoli si trova sulla Tiburtina , una consolare che a Roma era piuttosto importante per le fabbriche e per gli agglomerati abitativi popolari distribuiti nel percorso verso Roma . All’inizio degli anni ’70 c’era grande impegno per le autoriduzioni, per le occupazioni delle case, si facevano continuamente blocchi stradali sulla Tiburtina con gli abitanti dei vari pseudo quartieri, se così li possiamo chiamare, perché erano palazzoni in una terra di nessuno:…Bagni di Tivoli, l’Albuccione… Tivoli era un riferimento per i/le militanti  e  ci si incontrava un po’ tutti: quelli che gravitavano intorno all’area di Potop e poi dell’autonomia e quelli che gravitavano intorno a LC. Nel primo periodo di Lotta Continua, quello per intenderci che si può datare intorno al ’70-’71-’72 non c’erano “ingressi ufficiali” nell’organizzazione, c’era un’adesione che veniva dalla condivisione di tutta una serie di posizioni. Per me, per esempio, come per altre compagne /i del gruppo con cui ci si vedeva in quegli anni , il riferimento era il giornale e le assemblee e si discuteva sulle posizioni che venivano espresse lì e anche con i compagni /e dell’autonomia. La differenza sostanziale per cui ci sentivamo di LC e ci presentavamo come tali era l’individuazione delle soggettività rivoluzionarie non soltanto nell’operaio delle grandi fabbriche, ma in tutta una serie di possibilità altrettanto forti. Per cui facevamo nostra la famosa parola d’ordine “Prendiamoci la città”. Mi ricordo in particolare le parole di un numero di Lotta Continua del ’70 dove si parlava proprio della divisione che questo sistema provocava fra gli sfruttati, fra operai e studenti, fra donne e uomini, fra proletari immigrati e quelli locali…………..Per questo si lottava insieme agli occupanti delle case e per l’autoriduzione. Uno dei momenti più alti è stato il ’74 con l’uccisione a San Basilio,un quartiere della periferia romana sulla Tiburtina, di Fabrizio Ceruso. I funerali di Fabrizio a Tivoli sono stati uno snodo della mia vita : la visione della madre dietro a quella bara condensava il dolore delle madri proletarie che crescono i figli/e e li vedono morire o di lotta o di fabbrica o di galera o persi in una speranza di un futuro migliore che li tormenterà e che non avranno mai. La presa di coscienza che le donne pagano un prezzo altissimo per il ruolo in cui il patriarcato le ha infilate mi riempiva contemporaneamente di lacrime e di rabbia.
Nel ’71-’72 mi ero iscritta all’università a Roma, alla facoltà di architettura, che in quegli anni era un riferimento importante per il movimento e per LC.

La sensibilità rispetto alla questione femminile è sorta più o meno in concomitanza con la fase delle occupazioni, delle autoriduzioni, ma non è venuta dal rapporto con le donne proletarie e con i loro problemi che, pure, abbiamo sentito in maniera molto forte. Le donne proletarie all’interno delle lotte sono state grandi, prendevano in mano la situazione, erano combattive e poi dovevano andare a fare il pranzo o il bucato. Tutto questo saltava agli occhi .
La nostra presa di coscienza è cresciuta man mano proprio all’interno delle riunioni e delle assemblee.
Sono portata a parlare al plurale perché questa presa di coscienza è stata abbastanza collettiva, non era una sensazione personale, ma condivisa.
Prima di tutto devo sfatare assolutamente la leggenda metropolitana dell’ ”angelo del ciclostile” , almeno per quanto riguarda il nostro ambito di LC, perché, per esempio, la sede era molto sporca, ma non puliva nessuno, né maschi ,né femmine e chi faceva la pasta alla fine delle riunioni erano più spesso i maschi.
Era, invece, molto forte la differenza tra la presenza maschile e quella femminile, a scapito di quest’ultima naturalmente, e la capacità/possibilità di prendere la parola nelle discussioni e nei confronti. Non per un atteggiamento di sufficienza e/o un boicottaggio da parte dei compagni, questo è venuto dopo, quanto per tre motivi che noi tra compagne abbiamo poco a poco cominciato ad analizzare:
-uno era l’insicurezza di fondo della maggior parte delle compagne che non erano abituate, per l’educazione familiare e sociale, ad esprimersi in pubblico;
-il secondo era la modalità con cui si svolgevano le assemblee; bisognava essere molto tempestive, avere una voce forte, porsi in maniera determinata, altrimenti non si accendeva nemmeno l’attenzione nei nostri confronti; bisognava porsi in maniera maschile, come dicevamo quella volta;
-il terzo era che le compagne, poi, erano sempre …..la ragazza di…..è venuta con….e questo cominciava a disturbarci molto.

D’altra parte la sensibilità rispetto a queste questioni da parte dei maschi era inizialmente nulla, anzi sgranavano gli occhi stupefatti e si rischiava anche di passare per quelle che chiedevano attenzione, che volevano ritmi di discussione più lenti, un po’ “minorate”, insomma. Quindi, non sapevamo cos’era peggio!
C’era qualcuna di noi più determinata. Di solito questa determinazione le veniva da concause esterne: dal fatto, per esempio, di essere figlia unica e quindi spinta dai genitori ad una maggiore autorealizzazione o dal non avere fratelli maschi e/o dalla classe di appartenenza. Ma, in linea di massima, noi compagne, che eravamo tutte molto giovani, intervenivamo poco. Io, poi, ero estremamente timida e, se volevo intervenire dovevo fare un grande sforzo di autodeterminazione preparandomi prima l’intervento perché si leggeva subito nell’aria il giudizio su quello che dicevi, mentre tantissimi maschi dicevano un mucchio di stupidaggini a ruota libera. Questa consapevolezza mi ha portato a non considerare “maschi” le compagne che riuscivano ad imporsi, dato che ritenevamo maschile tutto il meccanismo e pensavamo che anche loro ne fossero consapevoli. D’altra parte è quello che penso anche oggi rispetto all’emancipazione. C’è differenza tra l’emancipazione intesa come mezzo e l’emancipazione usata come fine e come promozione personale ,in cui le donne che fanno carriera percorrono dinamiche maschili e concorrono a perpetuare l’oppressione sulla stragrande maggioranza delle donne.
Detto tutto questo,bisogna riconoscere che Lotta Continua era l’organizzazione dove la presenza femminile e la sua partecipazione alle discussioni era la più alta.
Le compagne di LC si distinguevano per dei tratti di autonomia e di indipendenza che le facevano diverse dalle altre e che si traducevano in una battuta sessista che circolava fra i compagni, battuta che diceva che le più “facili” erano quelle di Lotta Continua e di Architettura.
Ma tutto questo era chiacchiera di movimento. Non si è mai tradotto in una esternalizzazione che si manifestasse in atteggiamenti diretti e lo posso dire con cognizione di causa perché io ero di LC e facevo Architettura, ma la dice lunga sulla mentalità a cui erano ancora ancorati i compagni.
Quindi, il problema dei rapporti maschile/ femminile per me è venuto fuori proprio nel confronto politico.
Invece, c’è sempre stato, nei nostri confronti, un atteggiamento di rispetto da parte dei compagni in piazza. Almeno, per quanto riguarda la mia esperienza, non è mai successo che i maschi dicessero “stai attenta”, “vieni via che è pericoloso”, cosa che ho sentito ultimamente in alcune manifestazioni e sono rimasta perplessa per la regressione che c’è stata.
La coscienza che la lotta di classe non fosse sufficiente a sanare tutta una serie di contraddizioni, è venuta fuori in maniera prepotente con le discussioni sulle relazioni interpersonali e sull’aborto. I compagni avevano molta difficoltà a sentire il privato come politico e a mettersi in discussione nei rapporti maschio/femmina, anzi lo sentivano come una rottura del fronte di lotta. Io mi sentivo in una condizione ibrida, da una parte c’era una sorta di autocolpevolizzazione perché mi rendevo conto che, effettivamente, le nostre analisi come compagne mettevano in crisi tutta una serie di punti fermi, soprattutto perché l’oppressione sulle donne attraversava le classi, non era frutto del dominio borghese, né patrimonio di una classe in particolare e, questo, apriva scenari che non sapevamo ancora controllare, dall’altra cresceva una sensazione di disagio a portare avanti lotte che sentivamo che non ci rappresentavano veramente, che lasciavano fuori una parte importante di noi.
Il rapporto con i compagni in questo periodo, più o meno dal ’72 al’74, è stato molto conflittuale, anche dal punto di vista privato perché le due situazioni privato e politico non erano più scindibili.
Già nel ’73 qui a Roma avevamo formato un gruppetto di compagne di architettura dell’area di LC e ci vedevamo tra noi in maniera separata in un appartamento vicino a piazza Mazzini.
Questa sensibilità all’oppressione della donna non poteva scoppiare in maniera forte che all’interno di Lotta Continua, proprio per il suo percorso, per il percorso che avevamo fatto noi come militanti. La comprensione che soggettività rivoluzionaria era il proletariato urbano… quello in divisa… quello nelle carceri….l’immigrato e il migrante proprio per la sua condizione… è chiaro che apriva scenari di riflessione da parte delle compagne sulla condizione della donna e sulla sua potenzialità rivoluzionaria come soggetto oppresso autonomo. Lotta Continua ha avuto questo grande merito che, secondo me, non è stato riconosciuto a sufficienza. Non è un caso che la conflittualità tra compagni e compagne, il separatismo nell’area di classe sia venuto fuori da qui.
Alla fine del ’74 eravamo già fuori ( il gruppetto di compagne che si era confrontato fino a quel momento,intendo) per conto nostro. Continuo a parlare al plurale. Non riesco a ridurre quel periodo ad una esperienza individuale, ma lo sento sempre come un’esperienza tra compagne.
Abbiamo cominciato un percorso di racconto reciproco con una pratica di autocoscienza che però aveva per noi dei connotati particolari. D’altra parte in quel periodo le pratiche erano talmente variegate che ogni collettivo se ne costruiva una sua. Noi rifuggivamo da impostazioni psicologistiche e psicanalitiche, il nostro sforzo nel parlarsi reciproco era di collettivizzare le esperienze in modo di tradurre l’esperienza personale in conoscenza politica e dal prendere forza l’una con l’altra. Volevamo evitare assolutamente il piangersi addosso e il rinchiudersi. La nostra esperienza in LC ci ha permesso di mantenere una distanza critica dalle posizioni che molti collettivi femministi avevano quella volta, cioè “contro tutte le ideologie” e contro il marxismo in particolare, come costruzioni del dominio maschile e quindi patriarcali, che ha poi permesso la strumentalizzazione del femminismo da parte delle componenti socialdemocratiche. Allo stesso tempo eravamo separatiste convinte, quindi ci sentivamo distanti dalle compagne dell’Autonomia, per esempio, che dicevano”Il femminismo non è separatismo, ma lotta armata per il comunismo”.
Nel frattempo mi ero trasferita definitivamente a Roma.
La manifestazione del 6 dicembre del’75 più che l’esplosione del conflitto di genere è stata la ratifica dell’incomprensione profonda e totale da parte dei compagni rispetto al femminismo e, in particolare al separatismo. Quello che non riuscivano a digerire era la sensazione di esclusione e la presa d’atto che per noi non erano più un referente e neanche interlocutori. Però non tutte le compagne di LC erano femministe, molte sentivano le problematiche di genere, ma erano convinte che fosse giusto analizzarle con i maschi. Non so bene come sia andata quando il servizio d’ordine di LC è entrato in rotta di collisione con il corteo perché il nostro gruppo di compagne era in mezzo alla parte separatista e quindi abbiamo sentito svariate versioni di quello che era successo ma non abbiamo visto in prima persona l’accaduto e,quindi, non sono una testimone diretta. Noi delle tante versioni abbiamo dato credito a quella di Erri De Luca perché lo conoscevamo come compagno onesto intellettualmente e il suo percorso successivo,in effetti, ce lo ha confermato. Ne abbiamo parlato a lungo dopo e non ritengo, però, questo il motivo del declino di LC.
Nella primavera del ’75 avevamo aperto, con altre donne che non venivano tutte dal nostro percorso, un consultorio autogestito che si chiamava AED Femminismo.
Ritenevamo, cosa che penso ancora, che i consultori di Stato fossero catena di trasmissione dei valori dominanti e quindi lo Stato dovesse dare solo il servizio tecnico cioè l’aborto libero e gratuito, l’assistenza medica gratuita, gli anticoncezionali…. ma la conoscenza e la gestione del nostro corpo dovesse essere portata avanti dalle donne in piena autonomia, nei loro luoghi, fuori da qualsiasi ingerenza anche economica. Su questo abbiamo avuto uno scontro importante nelle assemblee al Governo Vecchio, di cui si è volutamente persa memoria ed ha vinto la scelta di affidamento allo Stato che ritengo sia uno dei motivi per cui il femminismo ha perso identità e siamo giunte alla deriva attuale.
Il consultorio autogestito, che stava in centro vicino a via Arenula, è stato portato avanti con grande fatica e grande determinazione fino al 1982 più o meno.
La pratica del self-help che è stata un momento cardine di conoscenza di noi e del nostro corpo all’interno di quello spazio, gli aborti fatti tra compagne con il metodo Karman, ci hanno dato una sensazione di grande potenza, la sensazione forte di non dover e voler chiedere nulla a nessuno e che la liberazione “può essere”, ed è stata un’esperienza talmente importante che ci ha fornito gli strumenti per gestire in autonomia la nostra salute e la nostra vita ancora adesso.
Di quell’esperienza è rimasto l’AED Femminismo di Bergamo, che c’ è tuttora ed è impostato sui principi che condividevamo anche noi e cioè la totale autogestione, il rifiuto degli esperti/e…. ma che proviene da un percorso, un po’ diverso dal nostro, cominciato ancora prima della nascita del femminismo degli anni ’70 cioè dal rifiuto della condizione della donna sia pure nella condizione privilegiata borghese.

Ho seguito con molto interesse ed attenzione il Congresso di Rimini del ’76 anche se, ormai,facevo pratica separatista. Diverse compagne ci sono andate e ci hanno raccontato le loro impressioni. Mi ricordo che a Roma, seguivamo gli sviluppi sul giornale e ne parlavamo fra noi. Gli Atti di quel Congresso sono stati pubblicati e io ne ho ancora una copia .
Gli aspetti su cui discutevamo erano l’attacco al gruppo dirigente, accusato di verticismo e la messa in discussione della centralità operaia e delle modalità maschiliste dei compagni.
Lotta Continua era un’organizzazione senza rituali e camere di compensazione per cui poteva avvenire quello che in altre organizzazioni non era possibile e cioè la contestazione diretta al gruppo dirigente, paradossalmente, proprio per la mancanza di gerarchizzazione e filtri.
Lotta Continua era una struttura forte, diffusa sul territorio in maniera quasi capillare, aveva un giornale a diffusione nazionale. Tanto è vero questo che la manifestazione del 12 marzo del’77, che è stata importante per partecipazione e forza,è stata, per tanti versi, una manifestazione di Lotta Continua. Quindi, la sua destrutturazione non è dovuta assolutamente né alle critiche contro la prevaricazione del gruppo dirigente, né alla messa in campo delle istanze portate avanti dalle donne e dalle diversità. Anzi questo poteva essere proprio una forte spinta ad un cambiamento, ad un riposizionamento su nuove basi come era avvenuto per Potop quando si era trasformato in Autonomia. Poteva essere l’occasione per la creazione di un organismo rivoluzionario di più grande respiro. No, questo lo avevamo chiarissimo anche quella volta, non erano queste istanze a determinare la fine dell’organizzazione, bensì la mancanza di volontà da parte del gruppo dirigente di prendere posizione sulla lotta armata. Era una sensazione che serpeggiava da tanto tempo, era un non detto che condizionava le scelte. E che il tema fosse importante lo dice il fatto stesso che LC è stata l’organizzazione che ha dato più militanti alla lotta armata. Qualunque fosse la posizione di LC sulla lotta armata, andava discussa, andava esternata, invece al gruppo dirigente non è sembrato vero di sottrarsi a questo confronto e di avere delle motivazioni per defilarsi. E si è defilato. Quando abbiamo letto gli ultimi resoconti su Rimini, ci siamo dette subito “LC è finita” e sapevamo benissimo perché………..

La morte di Fabrizio mi evoca tutto questo, ha segnato la mia vita, ho saltato un fosso senza voltarmi indietro.

Elisabetta

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