Palestina: prospettive di un futuro
di Claudia Landolfi
Mentre percorriamo la strada che da Nablus porta a Ramallah, è facile intuire perché in questa terra la pace è solo una speranza lontana.
Lasciando la città alle nostre spalle, incrociamo il primo blocco militare, il checkpoint di Huwwara. Lo superiamo senza difficoltà, anche se l’area è militarmente sorvegliata da un gruppo di soldati israeliani.
Il sistema di controllo del traffico di merci e persone attraverso questi ‘gate’ è relativamente recente, risalendo all’inizio della seconda intifada. Solamente intorno a Nablus se ne possono contare nove, ognuno dei quali è stato strategicamente posizionato sulle arterie principali che danno accesso alla città. Chi ci accompagna nei nostri spostamenti, ci spiega che durante il periodo di maggior tensione, entrare ed uscire dall’area era diventato pressoché impossibile.
<< Code di uomini si affollavano ogni giorno alle due estremità del passaggio, restando in fila per ore e ore, con il rischio di essere respinti una volta giunti ai tornelli, nonostante fossero muniti dei permessi rilasciati dalle autorità israeliane. >>
È così che si presentano oggi i territori occupati palestinesi, anche se al di fuori dei suoi confini incerti si preferisce utilizzare nomi quali West Bank o Cisgiordania, entrambi retaggio di una storia fatta di occupazioni. Il fulcro di questa ambiguità geo-politica racchiude al suo interno il primo problema che affligge questa zona: il riconoscimento di uno Stato palestinese e la possibilità per questo popolo di governarsi come Nazione.
Negli ultimi anni, a partire dal 2011 circa, lo spostamento attraverso i checkpoint interni al West Bank è andato migliorando. Apertura dei valichi senza orari stabiliti, possibilità di circolazione con veicoli privati e assenza di permessi speciali, hanno reso la vita interna ai territori occupati più agibile, ma l’81 per cento delle terre Palestinesi (Area B-C) è tutt’oggi sotto il controllo militare delle IDF (Forze di Difesa Israeliane) e ciò costringe l’esistenza dei civili sotto la costante pressione della presenza straniera. Collegamenti extraurbani, terre edificabili o adibite alla coltura, luoghi sacri, sono stati annessi in applicazione degli Accordi di Oslo (1993) sotto la sorveglianza delle Autorità Israeliane, mentre solo il restante diciannove per cento è sotto piena giurisdizione palestinese. Questo comprende buona parte delle principali città del West Bank, ad esclusione di Hebron per il quale fu stipulato un accordo a statuto speciale, e parte dei villaggi nel circondario, ma chi vive in queste zone, sa bene come basti chiudere un checkpoint per impedire ogni comunicazione ed isolare i vari luoghi dal resto della comunità.
È la metafora della ‘groviera’, quella utilizzata dalla nostra guida quando cerca di spiegarci come immaginare il West Bank.
<< Lembi di terra che mano a mano si stanno assottigliando sempre più, trasformando il territorio in isole frazionate che da un giorno all’altro potrebbero tornare ad essere quelle celle chiuse nelle quali è impossibile muoversi liberamente. Una sorta di città-prigione a cielo aperto, dove ad essere ostacolata non è solo la circolazione di chi vive queste terre, ma anche la fruizione di generi di prima necessità. >>
Il governo israeliano parla di sistema di sicurezza, ma per chi è abituato a vivere in uno stato di diritto, non può non apparire un sistema di controllo e di repressione, ed il peso che ciò esercita sulla popolazione è percepibile se si prova a passare del tempo a contatto con la gente del posto, perché ancora oggi chi sceglie di mettersi in cammino fuori dalla città durante la notte è considerato uno sprovveduto, perché chi vive nei campi rifugiati dentro e intorno Nablus sa bene di poter incappare nelle incursioni notturne dei soldati e come queste, esistono tutta una serie di regole o leggi che non sono scritte, ma che tacitamente devono essere rispettate se non si vuole correre il rischio di avere problemi con le autorità israeliane. Finire in carcere è infatti fin troppo semplice da queste parti e durante la notte frequentemente si è assistito a raid da parte di militari, pure in quelle aree della città che secondo gli accordi stipulati nel 93, dovrebbero far parte di quella piccola percentuale sotto giurisdizione palestinese.
Vivere in un territorio occupato di riflesso rimanda a questa idea: una terra nella quale non esistono né diritti né leggi alle quali appellarsi e dove l’unica parola ad avere un valore sia la volontà stabilità secondo le direttive marziali degli israeliani.
Difatti, nonostante il ricordo della ‘grande intifada’ sia ancora estremamente vivido essendo passati solo pochi anni dal suo clou, la tensione esercitata sulla popolazione apre vane speranze ad una pace che non sia solo firmata su carta e proprio mentre stanno riprendendo i colloqui tra i due Paesi, non può non apparire come un controsenso l’approvazione da parte del governo israeliano di nuovi insediamenti abusivi da costruire nell’area est di Gerusalemme e all’interno del West Bank.
Le luci gialle del West Bank
Generalmente conosciuti col nome di ‘settlement’, le colonie costruite nei territori occupati sono state riconosciute crimine di guerra dalla Corte Internazionale di Giustizia (International Court of Justice, ICJ), secondo quanto affermato nella Quarta Convenzione di Ginevra.
Realmente però, è necessario fare ulteriori distinzioni se si vuole comprendere la logica e la geografia di questi stanziamenti. Una prima differenza andrebbe infatti introdotta tra gli insediamenti propriamente riconosciuti dalle legge israeliana e gli ‘avamposti’. Quest’ultimi, almeno secondo quanto affermato dal governo centrale, non dovrebbero essere considerati come legali e spesso si tratta di zone militarizzate che mano a mano mutano il loro utilizzo. Più piccoli e contenuti per dimensione, normalmente non ospitano più di un cinquecento persone e si insediano facilmente sul territorio, sfruttando proprio l’ambiguità iniziale della loro destinazione d’uso.
Mentre continuiamo a percorrere la via che porta a Ramallah è facile notarli. Basta guardarsi attorno e quando il giorno è ormai alle spalle, le montagne che circondano la vallata incominciano ad accendersi di giallo. Non sono le luci disordinate e confuse dei villaggi palestinesi, ma i corridoi di corrente che scendono in maniera pragmatica lungo le colline. Inizialmente non sono che comprensori con pochi prefabbricati, ma la velocità del loro estendersi è direttamente proporzionale al rapido mutamento geografico del West Bank. Partono dalla cima, dove mantenere il controllo della zona sottostante è strategicamente più facile, per poi scendere lungo le pendici morbide. Ogni filo di luci che si aggiunge al circolo marca il segno del loro ampliamento e lungo il tragitto ci sorprende notare che in alcuni punti le illuminazioni sono così vicine alla strada da riflettersi quasi su di essa. Ci rivolgiamo alla nostra guida e gli chiediamo cosa accadrà una volta che gli insediamenti avranno raggiunto la strada. Lui ci spiega che con molta probabilità anche quel tratto diventerà ad uso esclusivo dei coloni come è già successo altrove e che per continuare a viaggiare verso Ramallah i palestinesi saranno costretti o ad aprire un nuovo varco o a dover passare sotto il controllo delle Idf. In sostanza ci vien fatto notare che la differenza è solo apparente e in superficie. Basterà trasformare i tre checkpoint stazionati lungo il percorso tra Ramallah e Nablus da punti di controllo a luoghi di confine per completare il passaggio e questo perché lo scarto tra un territorio occupato e un territorio espropriato qui non è poi così lontano e l’impatto è solo consequenziale.
Non c’è rabbia o risentimento mentre chi ci accompagna si sofferma su dettagli e delucidazioni e fa meraviglia, perché chi ci parla lo fa con uno tono distaccato, con gli occhi di chi quel percorso e quella storia l’ha già ripetuta chissà quante e quante volte, come se quella condizione che parrebbe essere surreale fosse una questione ontologia, un marchio di nascita.
Illegali o meno è giusto sottolineare che questi avamposti sono strettamente sorvegliati dalle forze di sicurezza israeliane, sono provvisti di tutte le infrastrutture necessarie e non è insolito il caso in cui il governo ne abbia retroattivamente condonato la legittimità.
Gli espedienti possono essere diversi, se di espedienti ce ne fosse bisogno. Nel caso in cui gli avamposti sorgano a pochi centinaia di metri in linea d’area dai settlements, vengono facilmente annessi ad essi, giocando sull’ambiguità dell’estensione e definendo le nuove appendici come ‘quartieri’, necessari per ospitare il numero sempre crescente delle famiglie. Così, una volta giunti all’imbocco per Ramallah ci rendiamo conto di come sia impossibile stabilire un numero anche vago delle colonie incrociate durante il viaggio. Zone militari, insediamenti civili, avamposti o quartieri, tutto appare in un’unica forma, protetti dietro un quadro normativo che tende a modificarsi di volta in volta, facendo riferimento ad un’unica voce, quella della Corte Suprema israeliana. Al di là della strada, dietro i finestrini opachi del nostro service, l’unica cosa che si riesce a scorgere con chiarezza sono le luci gialle che accendono le colline, se tra di esse vi siano dei confini stabiliti o piuttosto dei confini espropriati non è chiaro, ma soprattutto sembra non fare differenza. La ‘Linea Verde’ che stabiliva i termini d’armistizio della guerra arabo-israeliana del 1949 appare ormai come il ricordo di vecchie carte sbiadite, un processo al quale è impossibile fare ritorno. Tutto il West Bank è circondato da un muro che si intervalla a reti elettriche, solo il venti per cento di esso segue la linea del 49, il resto è terra mangiata per integrare le colonie abusive ad Israele. È surreale entrare dentro Ramallah e scorgere a pochi metri dalla città, separati da un divisorio di cemento, un’altra vita appartenente ad un altro mondo: due popoli a contatto con esistenze separate. Villaggi, centri di commercio, terreni agricoli e piantagioni sono state recise, distrutte e abbattute per erigere questa barriera.
Secondo l’amministrazione israeliana solo il tre per cento del West Bank sarebbe attualmente in mano a popolazione straniera, ma vivendo se queste terre non c’è bisogno di avere una mappa tra le mani per accorgersi che le percentuali non corrispondo alla realtà. Infatti se si considera il numero dei blocchi di separazione eretti all’interno del territorio, i chilometri di rete stradale ad uso esclusivo dei coloni per connettere i diversi insediamenti abusivi alle aree riservate alla sola popolazione israeliana (tunnel, ponti, autostrade), le zone militarizzate ed i checkpoint, le proporzioni cambiano drasticamente aggirandosi oltre il quaranta per cento dell’intera superficie (www.palestinemonitor.org www.peacenow.org). Va inoltre considerato che intorno alle zone occupate c’è uno spazio off-limits al di sopra del quale non è consentito costruire per motivi di sicurezza. Nel 2008 era stato calcolato un percorso di 794 chilometri di strade nel solo West Bank (palestinemonitor), intorno ad esso va aggiunto però uno spessore cuscinetto che va dai 50 ai 75 metri per lato, aree chiaramente interdette ai palestinesi, con conseguenze rovinose per i coltivatori che hanno visto portarsi via le loro terre e per chi lì aveva la propria dimora. Su ogni casa, che sia in un villaggio, in un campo rifugiati o in città, spiccano le cisterne nere d’acqua. E’ stato calcolato che un colono ebreo consuma mediamente 280 litri d’acqua, contro gli 86 di un palestinese, di questi solo 60 sono considerati potabili (palestinemonitor). I cassoni vengono riempiti con una cadenza di ogni quattro giorni. Ad aprire e chiudere i rubinetti di queste rete acquifere è ovviamente l’amministrazione israeliana. Ci sentiamo a disagio, quando una famiglia che ci ospita ci chiede scusa per la temporanea mancanza d’acqua. Bisognerà aspettare il giorno successivo per tornare al sistema di allacciatura corrente. Molti insediamenti sono stati costruiti su risorse idriche chiave, come sorgenti e pozzi e in molti casi la municipalità palestinese paga direttamente al governo israeliano le proprie imposte. Spesso intere vallate vengono sommerse con i residui fluidi provenienti dalle terre israeliane. Molti campi agricoli per questo sono oggi inutilizzabili. Lungo il muro che circonda il distretto di Qalqilya, città completamente chiusa dalla barriera di sicurezza e con un’unica strada di accesso al West Bank, notiamo un punto dove vi è un’apertura chiusa solo da sbarre larghe. Il solco scende ad una profondità di almeno 2 metri dal livello di terra, anche se il fondo è ricoperto da liquami che mandano un odore insopportabile. Sono le acque di scarico che provengono fuori dai territori occupati e che non sempre riescono ad essere assorbite dalla terra. A poche centinaia di metri vi è un piccolo orto, probabilmente ad uso domestico. Ma per molti palestinesi quella fessura è un condotto prezioso, un modo per poter andare oltre quella barriera senza dover aspettare un permesso rilasciato dalle autorità israeliane. Tante sono infatti le persone che ogni giorno entrano clandestinamente nella speranza di poter portare a casa anche un giorno di lavoro e a chiudere un occhio sono in tanti, visto che la manodopera ha costi decisamente più bassi.
Vi sono diversi studiosi che hanno descritto questa condizione di vita utilizzando l’analogia dell’apartheid sudafricana, d’altro canto è indubbio, che nascere palestinese nella propria terra chiude conseguentemente ogni prospettiva di crescita ed emancipazione e a farne le spese è soprattutto la fascia di popolazione più giovane. Le giornate qui scivolano immutabili, l’una uguale all’altra e mentre alcuni ragazzi rispondono con il ‘sogno dell’Europa’, altri inaspriscono nell’immagine di una storia scritta su un eterno conflitto. Ma l’idea del cambiamento abortisce ancora prima del suo tentativo, perché comunque sia, costruire senza riuscire a proiettarsi in un futuro, diventa come spazzare pioggia sotto una bufera incessante.