Fermiamoci a guardare i loro visi seri chini sulle macchine da cucire…sono i volti di giovani donne, di ragazze, in alcuni casi di bambine, al lavoro 14 ore al giorno per un salario di pochi dollari la settimana…sono le operaie di una fabbrica di camicette alla moda nella New York del 1911, la Triangle, nei cui locali si sviluppò l’incendio in cui morirono in centoquarantasei, soprattutto immigrate italiane e dell’est europeo, imprigionate entro stanzoni come al solito chiusi a chiave dall’esterno per impedire che le operaie uscissero a prendere un po’ d’aria o a fare due passi …
La conosciamo come la fabbrica dell’8 marzo, ma andrebbe ricordata soprattutto come la fabbrica da cui partì il più grande sciopero del settore tessile che l’industria statunitense avesse mai conosciuto, una lotta durata mesi portata avanti con tenacia proprio da quelle giovani donne i cui visi, ammettiamolo, con sempre maggior fatica e disagio abbiamo tentato in questi anni di conciliare con un 8 marzo che le dovrebbe simbolicamente ricordare ma che si è trasformato con noncuranza da giornata a festa; un 8 marzo che non siamo più riuscite ad accostare a un fiore che pareva seccarsi sui tavolini delle discoteche e sembrava aver perso tutta la carica e la forza di cui erano portatrici quelle donne, partigiane combattenti, che subito dopo la Liberazione proposero proprio la mimosa come rappresentazione di tutte le donne e delle loro lotte, in ambito politico, sociale, economico e culturale.
Questo 8 marzo vogliamo rimettere insieme i pezzi di un mosaico che ha il profilo di quei visi in bianco e nero ritratti nelle fotografie delle operaie della Triangle che marciano in sciopero per le vie di New York e marciando costruiscono un ponte che attraversa i decenni per dire e dirci sempre la stessa cosa:
autodeterminazione per una donna è una parola vuota se non si regge sulla sfida continua e quotidiana di tutte noi a trasformare l’esistente partendo dalle condizioni materiali di vita,
autodeterminazione per una donna è una parola vuota se la difesa di diritti che ci siamo conquistate con anni di lotte inesauste, lotte per l’affermazione di sé e della propria capacità e libertà a scegliere in qualsiasi ambito della vita, si confonde con le logiche del potere, anche agito da donne; si piega alle richieste ai partiti, anche a quelli cosiddetti di sinistra; si accontenta della concessione di briciole di socialdemocrazia in cui aborto, lavoro, servizi, casa sono astrazioni se il cambiamento non è radicale, politico e personale a un tempo,
autodeterminazione per una donna è una parola vuota se rivolta solo ad alcune, entro determinati confini, territoriali, di classe e di appartenenza, o secondo regole già scritte, per cui la solidarietà stessa è selettiva dal momento che si rivolge prontamente e con un fremito di sdegno alle donne spagnole ma arranca quando si tratta di guardare al di là del Mediterraneo,
autodeterminazione è per una donna una parola vuota se alle donne questa parola viene sottratta per essere consegnata ai trattati, alle ratifiche delle risoluzioni, alla pantomina delle campagne elettorali in nome di una immaginaria Europa dei diritti, civili!, che poco ha a che fare con la concretissima Europa che lascia annegare i e le migranti, che distrugge i territori, che specula sulla riduzione programmata e consapevole dello Stato Sociale, che pianifica una società di schiavi del lavoro e di schiave della maternità e che, in nome di quegli stessi diritti, bombarda, invade, reprime,
autodeterminazione è una parola vuota per una donna se proprio sul corpo delle donne è in atto una spoliazione del senso di sé e delle proprie scelte in tema di aborto, sessualità e maternità che ha non solo espropriato le donne di pratiche e saperi antichi tentando di consegnarli allo Stato, alla Chiesa, ai partiti, ai medici, ma ha soprattutto reso il corpo delle donne luogo pubblico di conveniente obiezione, di comune mercificazione, di facile spettacolarizzazione e di procreazione sociale; donne destinate a riprodurre figli, cura, tempo e attenzione con dedizione assoluta e, pure, con il sorriso sulle labbra,
ma autodeterminazione è una parola notevole, è una parola densa, è una parola irriducibilmente femminista perché implica un cambiamento profondo, un cambiamento ideale e reale insieme che, se costretto nei termini di un confine, di una classe, di una delega, di una concessione, semplicemente … esplode!
Questo 8 marzo è autodeterminazione perché vogliamo ancora rivolgere lo sguardo verso i visi di donne vere, come Pilar che in Spagna si batte per il diritto ad abortire in modo libero, sicuro e senza alcuna ingerenza, a Fatima che è sbarcata a Lampedusa ed è finita in un Cie, a Ioana, che dalla Grecia ci ha raccontato che cosa vuol dire Europa per lei, a Chiara, che in occasione di un colloquio di lavoro ha dovuto rispondere a un questionario sulla sua vita privata, ad Alessia, che rimane con un marito violento perché non sa dove andare con un bambino piccolo …
e, infine, vogliamo guardare a noi tutte che siamo oggi in piazza con la consapevolezza che ogni nostro passo è un cammino collettivo e ribelle.
Collettivo femminista MeDeA