Omaggio a Barbara Balzerani, “cattiva ragazza”.

Omaggio a Barbara Balzerani, “cattiva ragazza”.

<Le brave ragazze vanno in paradiso le cattive dappertutto>

Elisabetta Teghil

Ci ho messo un po’, un anno intero, per poter scrivere su Barbara, un grande dolore lascia spaesate. Io sono femminista, Barbara no. Discutevamo spesso e quando le facevo presente che capiva con grande chiarezza l’oppressione che ci scaricano addosso lei mi diceva non mi cucire etichette in cui non mi riconosco! Si, è vero, non era femminista, ma aveva una sensibilità acuta e particolare riguardo all’oppressione delle donne che veniva fuori nei suoi scritti e nei discorsi che facevamo insieme, in ogni momento, in ogni passo, sia che parlasse della sua storia familiare

“Prima gli uomini!…” sentenziava mia madre riferendosi ai piatti da riempire. Difficile, ogni volta, non temere di rimanere senza nulla da mangiare. Così, tanto per abituarci, noi femmine, ad aspettare e non pretendere.[1]

o dell’esperienza di lavoro politico nelle borgate romane

Mi tornano alla mente le donne con cui, nei primi anni settanta, ho condiviso quelle lotte, che quasi sempre erano anche momenti di socializzazione, quando non di festa. Specie nelle occupazioni, dove il vivere insieme rompeva con la staticità del quotidiano di ciascuna e si poteva coltivare l’illusione che niente sarebbe tornato come prima. Quando arrivava il momento in cui tutto si concludeva, il primo bilancio che quelle donne facevano comprendeva sempre il dover fare i conti con l’imminente perdita di quel momento di sospensione del loro isolamento nelle quattro mura domestiche. E questo poco e male compariva nel giudizio politico circa il successo o meno della lotta appena conclusa, perché non toccava allo stesso modo tutti e tutte, nonostante molto si dicesse circa il portare la rivoluzione fin dentro la testa e il cuore di ognuno. [2]

sia che ci raccontasse della sua lunga carcerazione

Dicevate delle donne che ammazzano i mariti, anche quello è un aspetto particolare del carcere italiano: sono poche e sono quelle che si beccano condanne terribili cioè molto alte. A parte noi che eravamo le lungo degenti della situazione, quelle che venivano subito dopo erano loro, come se appunto fosse uno dei delitti più gravi che una donna può commettere. Ed erano tutte donne, per lo meno quelle che ho conosciuto io, che erano arrivate in questo tipo di situazione per assoluta impossibilità di continuare in quella maniera. Se chiedevi “ma perché non hai divorziato?” ti guardavano come a dire “ma di che cazzo parli?”, non avrebbero avuto mai il coraggio di lasciare il marito, ammazzarlo si, ma lasciarlo no. E la cosa più incredibile è che dopo averlo fatto…in modi piuttosto cruenti devo dire, non gli avevano semplicemente tirato un foro in testa …con strumenti arcaici …in quel momento evidentemente la brocca ti parte! Donne veramente maltrattatissime che, quindi, nel momento in cui decidono di fare una cosa del genere la fanno con tutti i sentimenti… però il giorno dopo tornano ad essere le donne di prima, questa era la cosa che mi incuriosiva. Come se ci fosse stato un piccolo episodio terribile, però loro non erano così di natura, era che quel testa di minchia le aveva portate ad una esasperazione veramente impossibile da sopportare. Quello che era assolutamente evidente era che queste donne dai tribunali erano state massacrate, le pene più alte che io abbia visto, poi sono arrivate le donne di mafia, ma molto dopo.[3]

La storia della sua vita è esemplare. Mi hanno sempre colpito le vite di tante e tanti compagne e compagni delle Brigate Rosse per la rispondenza tra percorso di vita e presa di coscienza politica.  La famiglia proletaria, la madre operaia, la comprensione delle differenze sociali fin da piccola nella quotidianità della vita di tutti i giorni, gli studi in prima generazione, la fuga dal paese, la scoperta di Roma, la presa di coscienza politica lucida e consapevole, gli anni settanta bellissimi e totalizzanti, la speranza e la possibilità di costruire un altro mondo. Ho trovato nelle sue pagine e nella sua vita stralci della mia, mi sono sentita raccontata dalle sue parole più di quanto io stessa potessi immaginare. Poi il carcere, la forza, il coraggio, la tenacia e la coerenza, la comprensione dei cambiamenti senza mai perdere la lucidità politica, Barbara ci ha lasciato un patrimonio di pensieri su cui riflettere.

Ha saputo sempre scegliere da che parte stare, cosa non affatto scontata anche per chi ha fatto scelte politiche importanti per un tratto della propria vita. Molti/e si sono persi.

Il suo ultimo libro Respiro è un testamento personale e politico. L’intrecciarsi della sua malattia con il periodo pandemico, le scelte repressive dello Stato, le coercizioni e gli obblighi vaccinali, la divisione delle persone in soggetti di serie A e di serie B, la lotta contro il green pass, contro lo scientismo, contro il classismo spietato messo in atto dal potere…tutto questo le è stato subito chiaro e ce lo ricordano le sue parole

Quel percorso di liberazione, dove ancora trova rinnovato terreno di esercizio, riannoda i legami nelle comunità che la società mercantile non riesce a uniformare alla sua autodistruzione. Con la pratica del sabotaggio. A difesa dalla devastazione dei territori. Per l’applicazione della legge del mare. Per l’inventiva di forme societarie di buon vivere che aprano le gabbie della segregazione individualistica. Perché le parole riprendano a dire l’inammissibile. Lì dove le competenze sappiano di sapere collettivo, a integrazione delle diverse conoscenze. Dove non ci sia lavoro comandato ma libera attività umana. Dove l’esperienza pratica sia attestato di scuola di vita. Dove la tradizione sia risorsa fuori dal tempo e permanga come fonte inesauribile di senso. Dove possano ancora avere valore la mutualità e la gratuità. Dove la piramide in cui la produzione digitale ha frammentato il lavoro e reso immateriale il vivere sociale mostri infine le sue crepe.

Dove l’antico gesto simbolico di sollevare il peso dalle spalle di chi non ce la fa riesca a risanare. Dove la rotta verso l’isola che non c’è sia ancora immaginabile.

Dove lo Stato e i padroni scontino l’impotenza.[4]

Dura quando era necessario, determinata quando bisognava esserlo, gentile, affettuosa, sensibile con chi amava, le persone care e gli oppressi tutti/e a ricordarci che

Quando si intenderà superato il limite di ogni pazienza? Quanto ancora rimandare la pratica del conflitto necessario e possibile? Quanto per decidere che il tempo sia scaduto? […] dalla pandemia alla guerra, un abbinamento di paura e propaganda ha fatto stragi di morti e di verità[5]

A me piacciono le piante da fiore, a lei piacevano le piante grasse. Ma come fanno a piacerti tanto, le dicevo, io non riesco a entrarci in sintonia, sempre uguali a se stesse…Si, mi diceva, ma sono solide e ferme, radicate a terra, sopportano vicissitudini e intemperie, come gli oppressi, sono pronte a difendersi e a resistere, hanno le spine, ma poi in una sola notte spunta un fiore enorme, coloratissimo, nella sorpresa generale. E quel fiore spunterà di nuovo potente, dirompente, bellissimo quando meno il potere se lo aspetterà.

Barbara ora fa parte della Storia. Sarà impossibile dimenticarla anche per il potere, lo dice chiaramente il livore con cui ha reagito alla sua morte, sarà sempre una spina nel loro fianco, lì a ricordare che, sì, si può cambiare questo mondo, si può fare. Ci riproveremo ancora, è solo questione di tempo.

[1] B. Balzerani, Compagna luna, Feltrinelli 1998, p.55

[2] B. Balzerani, Compagna luna, Feltrinelli 1998, p.58

[3] Coordinamenta femminista e lesbica, I ruoli, le donne, la lotta armata/Questioni di genere nella sinistra di classe, autoproduzione, 2015 p.33

[4] B. Balzerani, Respiro, DeriveApprodi  2023,p.88

[5]  Ibidem p.70

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