La Parentesi di Elisabetta del 2/12/2020

“Lo spazio urbano del lockdown ovvero il film della pandemia.”

Strade deserte, prospettive surreali, nessun suono, nessuna persona, persino i colori sbiaditi, tram che passano vuoti sferragliando con un rumore centuplicato dal silenzio, il conducente quasi invisibile sembrano andare da soli, posti di blocco, pattuglie con degli esseri tutti bardati di nero, il rumore degli elicotteri sulla testa. Questo lo spazio urbano del lockdown. Ma lo spazio e, oggi come mai nei secoli passati, lo spazio architettonico urbano, è la scena in cui si svolgono le nostre vite. Ma è tutto vero o è un film? Perché di questo si abbevera il cinema, ingloba tutte le altre espressioni artistiche, le vampirizza per dargli un nuovo senso, per raccontare una storia, ma il film in effetti non racconta solo una storia o, meglio, racconta una storia per dare delle altre suggestioni. L’uso che il cinema fa dello spazio ha lo scopo di ottenere un risultato emotivo. Un film è espressione di istanze, di emozioni ma anche di paure, di fobie, di ansie di chi lo vede ma le vuole anche provocare, suscitare e innescare. Derrida diceva che il ruolo del cinema è risvegliare fantasmi dentro di noi. Noi guardiamo una cosa e non sapevamo di pensarla già, capiamo qualcosa che abbiamo già dentro di noi, ma allo stesso tempo assumiamo ansie, paure, sentimenti o speranze che ci vengono suscitate ex novo proprio perché il cinema entra prepotentemente nei nostri pensieri. E allora a seconda dell’effetto che vuole ottenere sullo spettatore il cinema usa ambientazioni che sono come cartoline, succedanei patinati della realtà, oppure angoscianti spazi e architetture incombenti …Lo spazio nel cinema ha una funzione strutturante come la colonna sonora. La musica nel film può essere fatta sentire o può essere utilizzata, ci può essere qualcuno che canta una canzone ed è solo sponsorizzazione, ma ci può essere una musica che entra al momento giusto per far scattare un’emozione, che collabora con tutto il resto, collabora al colore, collabora alla recitazione, collabora alla trama e punta dritta verso un fine e trasmette suggestioni senza che queste vengano dette,  le suggerisce, lancia degli stimoli che lavorano sul cervello e tu hai l’impressione che sia un tuo pensiero mentre in realtà sei stato messo su un nastro trasportatore, ci sei stato condotto. In che modo lavora lo spazio in un film per inculcare un sentimento, un’emozione, pensieri e sensazioni? Per esempio nei film di James Bond, i primi, c’è sempre un cattivo differente e il cattivo viene raccontato attraverso i luoghi dove vive e dove lavora, la scena che abita, così il messaggio è immediato. Non sappiamo questi cattivi chi siano, da dove vengano, la loro storia personale, ma sappiamo dove si muovono e che tipo di rapporto hanno con lo spazio che attraversano. In una scena di <Thunderball> del 1965, nella sala  riunioni della SPECTRE non c’è un tavolo, ma ognuno è seduto a parte, in un posto singolo e isolato perché così il Numero 1 ha la possibilità di uccidere tramite scossa elettrica chi vuole eliminare…tutte le soluzioni architettoniche sono usate per definire i personaggi, per spiegare cose che altrimenti sarebbe molto complicato spiegare. Ma la scena metropolitana per eccellenza che racconta una storia a venire, che immagina quello che succederà è quella di <Metropolis> di Fritz Lang. La protagonista vera è la città e attraverso la città ci viene raccontata la vita che sarà, uno spettacolo disumano e terrorizzante in cui le gerarchie di classe sono verticali. Ci viene in mente anche <Paraside> in cui il luogo sopra e il luogo sotto ci raccontano immediatamente l’organizzazione sociale. La strutturazione dello spazio è fondante per raccontare la storia, per dare il senso a quello che stiamo vivendo sullo schermo, ogni inquadratura ha un senso immediato e un senso nascosto sia che parliamo di film commerciali che d’autore. E poi ci vengono in mente i film sul terrore atomico, la paura di restare in pochi su una terra devastata, la paura dell’<Ultimo uomo sulla terra>, un film del 1964 con Vincent Price tratto da un romanzo di Richard Matheson e che tra l’altro è girato a Roma. Non è casuale,  vengono usati gli spazi dell’Eur, vuoti, che raccontano lo spaesamento dell’unico uomo rimasto in una società che attraverso le immagini architettoniche si racconta da sé.    Quest’ uomo attraversa degli spazi vuoti che sembrano ormai disumani ed è facile credere che tutto sia andato male. Sembra di essere in un quadro di De Chirico.

Per il film di Spielberg del 2002 < Minority Report> è stato fatto un lavoro molto particolare perché l’obiettivo del film era raccontare la società del futuro e quindi era importante cogliere le tendenze e in particolare quelle del controllo sociale. C’è una scena nel film in cui il protagonista Tom Cruise va a prendere la metropolitana e la metropolitana è piena di pubblicità, ma non di pubblicità qualunque, di pubblicità fatta per lui. Ci sono delle piccole videocamere che riescono a catturare la sua iride, riconoscerlo e dargli dei messaggi fatti apposta per lui e che lo chiamano addirittura per nome. Quindi da una parte sono messaggi per te ma dall’altra è controllo sociale. C’è un’immagine molto bella della gente che esce dai vagoni della metropolitana e man mano che esce a ciascuno si illuminano gli occhi e in questo modo vengono riconosciuti. Il protagonista sta scappando e in questo modo la polizia riuscirà a trovarlo. La città è una città in cui le strade non sono solo in orizzontale ma anche in verticale per ottimizzare lo spazio urbano, ma ci trasmette immediatamente la sensazione di una società in cui tutto è disumano. Infatti quando il film finisce e  finisce bene, cioè c’è il lieto fine, termina con una scena completamente diversa, uno spazio completamente diverso, una casa completamente diversa a misura di essere umano in mezzo al verde. I protagonisti oppressi e perseguitati si sono liberati.

Cerchiamo allora di fare una verifica al contrario. Cosa ci vorrebbe comunicare un film in cui gli esseri umani che camminano per le strade, che vivono nella quotidianità, che si incontrano sono tutti a distanza, non si toccano mai e sono senza bocca? Che cosa comunicano dei volti senza bocca?

Che cosa ci vuole raccontare il film della pandemia, questa narrazione che è stata messa a punto proprio come la scena di un film?

Gli spazi vuoti incutono ansia e per mantenere l’ansia in tutti i momenti della vita devono essere demonizzati tutti gli scenari rasserenanti e di gioia di vivere o di dichiarazione collettiva  di sentimenti come la gente in piazza a Napoli per la morte di Maradona o i ragazzi che fanno serata seduti sui muretti dei Navigli.

L’obiettivo non è l’effettiva pericolosità o meno dei rapporti ravvicinati, l’obiettivo è veicolare la necessità di un cambiamento di paradigma. La città vuota da fine della storia porta ad accettare conseguenze tragiche come quelle dell’impoverimento generalizzato perché trasmette una visione catastrofica e di impotenza. Se nello spazio urbano fossero state permesse famigliole a spasso, cosa che poteva essere lecita perché chi vive sotto lo stesso tetto non può contaminarsi reciprocamente all’aperto più che al chiuso, anche se queste famigliole non avessero cercato rapporti con altri gruppi, non ci sarebbe stato lo stesso risultato. Il messaggio sarebbe stato tutto sommato rasserenante.

L’obbligo di indossare le mascherine chirurgiche che, tra l’altro, non servono assolutamente a preservare dal contagio, trasmette l’immagine di una situazione sempre sull’orlo del baratro e una soggettivazione del problema che impedisce la creazione di reazioni collettive.

Il vuoto permette il controllo ma trasmette anche la paura del controllo. Camminare in uno spazio vuoto fa sentire addosso tutti gli occhi invisibili ed elettronici, non ci permette di confonderci tra la folla, ci fa sentire nudi/e, inermi e soli/e. E questo per il potere è un grande vantaggio. La gente che si incrocia con la mascherina è senza parola, infatti di solito non ti guarda, guarda per terra. Ribellarsi presuppone uno sforzo centuplicato e passa necessariamente attraverso il recupero dello spazio fisico, dello spazio urbano, lo spazio attualmente centrale nella definizione della nostra vita e presuppone l’abbandono dello spazio virtuale, atomizzante e annichilente. Altrimenti accettare di essere senza bocca, di percorrere da soli/e le strade e le piazze, di negare lo spazio del rapporto fisico, di non percorrere gli spazi notturni non è soltanto un momentaneo adattamento ma ci trasformerà in qualcosa di altro, di inimmaginabile. Il riversarsi nelle strade dello shopping per gli acquisti del Natale al primo spiraglio di apertura, a prima vista, può sembrare in contraddizione con l’accettazione quasi totalmente supina dei diktat del potere ma non è altro che un disperato tentativo di recuperare una dimensione perduta.

Come continuerà questo film di cui conosciamo solo in parte la trama? Riusciremo a creare una fine diversa da quella che hanno già deciso per noi gli autori di questa storia?

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